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Autore: Mary P_Stark    28/11/2014    6 recensioni
Sheridan O'Connell è una figlia ribelle e selvaggia della campagna irlandese, fuggita a soli diciotto anni per raggiungere Dublino con il suo ragazzo. Dopo una vita travagliata è infine diventata fotoreporter per il National Geografic, sempre in giro per il mondo, ma sempre lontano da casa. Casa che la richiamerà a sé a causa delle cagionevoli condizioni di salute del padre. E lì, tra quelle lande dell'ovest Irlanda, immersa in ricordi dolce amari, Sheridan ritrova luoghi a lei cari, come il faro in cui si rifugiava sempre per rifuggire le ire dei genitori.
Il suo sancta santorum, però, ora è di proprietà di uno scorbutico guardiano, Ronan O'Sea, che le darà del filo da torcere, prima di permetterle di riavvicinarsi a ciò che le è caro.
La loro convivenza forzata in un luogo comune, però, sgrosserà i caratteri riottosi di entrambi, permettendo a una luce nuova di farsi largo nelle loro vite tribolate.
E darà il via a una serie di eventi che mai, Sheridan, si sarebbe aspettata. Perché un oscuro mistero si cela dietro gli occhi color acquamarina di Ronan.
Starà a lei scoprire quale. - 1° RACCONTO "SAGA DEI FOMORIANI"
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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- Questa storia fa parte della serie 'Saga dei Fomoriani'
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2.
 
 
 
 
 
Per essere un'irlandese, avevo girato davvero poco la mia terra.

Avevo passato più tempo all'estero, col culo spaparanzato sulle poltroncine sempre diverse di mille aerei, che in giro per le strade della mia isola.

Attraversarla per intero fu quasi catartico, per me.

A un certo punto, per non farmi mancare nulla, decisi di uscire dall'autostrada per concedermi una breve deviazione nelle campagne lussureggianti.

Quel giorno, così raro e prezioso per ogni irlandese che si rispettasse, le campagne erano inondate da un sole caldo e gradevole.

Ben presto il brutto tempo sarebbe tornato, assieme ai venti freddi, alle tempeste di neve e a tutto il corollario, ma per ora l'estate stava per bussare alla porta.

Mi fermai per un pranzo veloce presso il bar di uno sperduto paesino del Kerry – non controllai neppure il suo nome – e, in quel momento di tranquillità, ne approfittai per chiamare Fynn.

Lo avvisai del mio ritardo, dicendogli che sarei giunta intorno alle tre del pomeriggio, dopodiché gli raccontai delle mie deviazioni sul percorso.

Fu la paura a rallentare il mio passo? Forse.

Non mi entusiasmava l'idea di rimettere piede a Portmagee, con quella Spada di Damocle sulla testa.

Ma tant'era. Mio padre stava morendo, evidentemente mi aveva cercata, e mia madre si era data da fare per trovarmi.

Se c'era una cosa che lei sapeva fare, era esaudire i desideri di mio padre.

Quasi tutti, per lo meno.

Con me, aveva toppato alla grande.

Mi rimisi al volante della mia Mini Minor dal tettuccio colorato – esponevo orgogliosa la bandiera tibetana – solo dopo aver terminato il mio panino.

Distratta, infilai l’ennesimo CD nel lettore. Non avevo voglia di ascoltare la radio e i commenti dei DJ.

Volevo solo stordirmi di musica e non pensare che mio padre stava morendo, quando io non avevo la più pallida idea di come affrontare un evento simile.      

Optai per l'ultimo album degli Evanescence, e lasciai che la voce perfetta e potente di Amy Lee mi portasse nel suo mondo dark e dolente.

Non che non avessi già buoni motivi di mio per sentirmi dark e dolente, ma la voce di Amy era troppo bella perché non mi lasciassi prendere dal suo sound trascinante.

Fu con l'ultima canzone dell'album, che giunsi finalmente dinanzi alla casa dei miei genitori, nel centro di Portmagee.

The Mooring's, il ristorantino di proprietà del cugino di mamma, era aperto.

Quando parcheggiai dirimpetto all'entrata, scorsi alcune persone all'interno, intente a pulire pavimenti e tavolini.

L’esterno, ancora di un intenso e caldo color carminio, risollevava l’umore al solo sguardo.

Mi era sempre piaciuto quel posto, così come avevo sempre adorato le tinte allegre di quella via, con le casette le une attaccate alle altre, le vecchie porte aperte sul molo.

Quante volte avevo corso su e giù, rincorrendo i bambini più grandi che gironzolavano con le biciclette?

Un numero pari alle mie ginocchia sbucciate, retaggio di tutte le cadute dovute a quelle corse sfrenate nel tentativo di raggiungerli.

Sorrisi mesta, al ricordo.

Non ero mai stata una bambina facile, o tranquilla. Né lo ero ora, a trentaquattro anni compiuti.

Lanciai un ultimo sguardo al bar e, alla fine, mi decisi a non indugiare oltre.

Avrei salutato il cugino Cornelius e il suo staff più tardi: ora mi spettava un compito più arduo, e di certo meno gradevole del rivedere amici e parenti.

Dovevo affrontare il drago nella sua tana.

Afferrai perciò la mia borsa, chiusi l'auto e mi avviai verso la palazzina a lato del locale tutto colori sgargianti e profumi deliziosi.

Dubitai subito che, all’interno della mia casa natia, avrei trovato altrettanta luce o calore.

Presi perciò un gran respiro e suonai il campanello.

Mamma venne ad aprirmi dopo alcuni attimi e, sulle prime, non mi riconobbe affatto.

Ero partita magra come un chiodo, coi capelli sparati in testa, alcune ciocche blu e rosa, gli occhi bistrati e più piercing alle orecchie di quanti avesse mai sopportato.

Ora, invece, ero lì dinanzi a lei con una camicia di sartoria, pantaloni beige con la piega, tacchi vertiginosi ai piedi e i capelli in ordine.

E da notare, dello stesso colore, neri come la notte più buia.

Ma, soprattutto, ero senza piercing alle orecchie e gli occhi erano truccati in modo elegante, formale.

Insomma, un bel cambiamento.

«Ciao, mamma.»

Non mi venne in mente niente di più brillante da dire, ma evidentemente bastò a scuoterla dal torpore in cui era caduta.

Si riprese subito e, scostandosi dalla porta, mi permise di entrare.

Non disse niente, né tentò di abbracciarmi, o chiedermi come stessi.

Non l’aveva mai fatto neppure quando abitavo lì, perciò non mi stupii di tanta freddezza.

Mi accompagnò verso il salotto – uguale a come lo ricordavo – e, con un cenno rivolto al divano, finalmente aprì bocca.

«Accomodati pure. Chiamo papà.»

Annuii mentre lei prendeva la via del cucinotto, chiudendo la porta a vetri satinati senza produrre alcun rumore.

Con uno sbuffo infastidito, mi sedetti sulla poltrona accanto alla finestra, velata da leggere tende di batista bianca, senza fronzoli o ricami.

Iniziai subito a tamburellare le dita lunghe e sottili, su cui splendevano tre anelli in oro rosso e granati levigati.

Cominciai dopo pochi secondi a chiedermi come avrei potuto affrontare la situazione, se già mamma non mi parlava che a monosillabi.

Una mano si levò impulsiva a cingere una ciocca di capelli, con cui giocherellai finché non udii la porta aprirsi.

Mi volsi lesta, e alcune ciocche della chioma corvina si sparpagliarono sulle mie spalle.

Poggiai i miei occhi cerulei su un volto che non vedevo da anni, e rimasi turbata.

Era... vecchio.

Non lo avevo mai immaginato vecchio.

Mio padre era sempre stato imponente, inaccessibile, freddo. Un vero rompipalle, quando si trattava di sgridarmi per qualsiasi cosa.

Ma mi era parso impossibile che lui potesse invecchiare. O che qualcosa potesse anche soltanto scalfirlo.

Eppure, l'uomo che avevo innanzi, non era quello che avevo lasciato sedici anni prima, in quella notte d’estate inoltrata.

Quest'uomo era magro, col volto percorso da una smorfia di dolore, gli occhi spenti e la pelle grigiastra.

I capelli, canuti e crespi, sembravano sottili e deboli, non robusti come li ricordavo.

Mi levai in piedi come spinta da una forza invisibile, mossi qualche passo verso di lui, le braccia già levate per abbracciarlo.

Ma lui si scostò.

Andò a sedersi sul divano assieme a mia madre, facendo in pratica fronte comune contro di me, come sempre.

E io compresi come sarebbe stato il mio rientro in famiglia.

Né più né meno come la mia partenza.

Segnata dal dolore, dalla rabbia e dall'incomprensione.

Tornai a sedermi e, accavallate le gambe, decisi di fare come volevano loro, per una volta.

Mi mostrai al meglio, e lasciai che mi guardassero per quello che ero diventata.

Una donna in carriera. Seria e posata, almeno in apparenza.

E quanto contava, per la mia famiglia, l’apparenza!

«Sembri più alta.»

Quella constatazione mi colse alla sprovvista. Era ben strano che la mia altezza gli paresse così anomala, o fosse l’unica cosa a notare in me di diverso.

Ugualmente, replicai.

«Il tacco dodici fa miracoli. In tutto, misuro centonovantadue centimetri d'altezza, e fa un certo effetto, su chi mi guarda.»

Lo dissi senza ironia, come un dato di fatto.

Era vero.

Sapevo di essere una bella donna, di avere un fisico da modella – in quanti mi avevano tentata con un book? – e di possedere quel genere di sguardo che piace ai fotografi.

Semplicemente, volevo essere più di bel corpo, e quindi non mi ero mai fatta comprare. Punto.

Ma giocare le mie carte, ogni tanto, era utile.

E avevo sperato che fare bella figura con i miei genitori, mi avrebbe risparmiato qualche reprimenda, visto che solitamente giravo per casa con pantofole, pantaloni di felpa e maglie da rugby.

«Hai tolto tutto quel ferro dalle orecchie.»

Ancora a studiarmi. Forse, stentava a collegare la figura nella sua memoria, con la donna che aveva davanti?

Mi sfiorai un orecchio, annuendo.

«I fori si sono chiusi quasi tutti, ne ho tenuti tre su un lato e due sull'altro. Ma ho pensato di non mettere niente, oggi.»

Scrollai le spalle, lasciando che il resto della frase lo inventassero loro.

Mamma non aveva ancora parlato.

Continuò a squadrarmi come per registrare eventuali difetti e, non trovandone, sembrò accigliarsi ogni secondo di più.

Difficile trovare dei difetti in un tailleur di Dolce & Gabbana, e in scarpe Manolo Blanick.

«Fynn ci ha mostrato il tuo ultimo articolo. Hai fatto delle belle foto» asserì a quel punto mio padre, estraendo da sotto il tavolino del salotto una copia del National Geografic.

Fissai la copertina patinata, il primo piano di una goccia d'acqua – che avevo estrapolato dalle cascate del Niagara – e mormorai: «Ci sono quasi finita dentro, per prendere quella in particolare.»

Nessuno dei due commentò, né fece battute sarcastiche – neppure sapevo se ne erano capaci – così, iniziando a spazientirmi, esalai: «Posso sapere come stai, papà?»

«Un tumore ai polmoni al quarto stadio. Dicono che non possono farmi il trapianto, perché non servirebbe» mi disse con semplicità, senza nessuna inflessione nella voce.

Rimasi raggelata dalla sua calma e, senza riuscire a trattenermi, rabbrividii.

Mamma non parve comunque essere d'accordo con la sua diagnosi.

«Solo perché ci siamo rivolti a degli incompetenti. Vedrai che, quando ti visiterà il dottor Al Maliki di Belfast, ti dirà tutt'altro. Lui è un luminare nel campo dei trapianti.»

Fissai scettica mio padre, le cui condizioni fisiche erano più che evidenti e, perplessa, replicai: «Non credo sia il caso di portarlo fino a Belfast, mamma. Potrebbe...»

«Non ti ho chiamata qui perché mi dessi dei consigli!» sbottò immediatamente, fissandomi con livore. «Sei qui solo perché ti ci voleva papà! Ma non ascolterò le dissennate parole di una figlia negletta, che se n'è andata da qui contro il nostro parere e, per sedici anni, ha fatto finta che fossimo morti!»

Fissai il soffitto a cassettoni di legno e sbuffai, cercando di non prenderla male.

Lei era sempre stata così, non era una novità.

Come non era una novità che mio padre non replicasse alle parole di sua moglie.

Ero io quella fuori posto.

«Voglio soltanto dire che papà non mi sembra in grado di affrontare un viaggio così lungo, e che sarebbe più sensato chiedere al dottore di venire qui, piuttosto che il contrario. Non mi sembra vi manchino i soldi per un consulto personale.»

Ecco, l'avevo detto.

Non è che non sapessi della cospicua eredità che avevano ottenuto, alla morte dei miei nonni materni; ne avevo ricevuto notizia anch’io.

Però, avrei preferito non saltasse fuori a quel modo.

Mia madre, ovviamente, prese malissimo il mio appunto, e si accigliò non poco.

Si limitò a scrollare le spalle e, supponente, sentenziò: «Immagino che quella pettegola di Shemaine sia stata ad ascoltare una volta di troppo.»

«La madre di Fynn non c'entra un accidenti di niente. Il notaio mi inviò una lettera in cui mi disse che tutti gli averi dei nonni sarebbero andati a voi, mentre a me, in quanto unica nipote, mi sarebbe spettata la collezione di dischi del nonno. Punto.»

«E suppongo che li avrai gettati tutti» mi incalzò mia madre, fissandomi bieca.

Sbuffai sonoramente, iniziando a perdere la pazienza.

Puntati gli occhi su mio padre, che stava osservando la scena con aria dolente, e mi limitai a dire: «Se ti interessa qualche disco del nonno, papà, posso fartelo mandare. Se non erro, ti piaceva molto la compilation di Ray Charles.»

Lui annuì. «Mi interesserebbe, grazie.»

«Chiederò alla mia vicina di prenderlo e spedirmelo.»

«Hai lasciato le chiavi di casa tua a un'estranea?!» sbottò ancora mia madre, facendo tanto d'occhi.

«Cara, sicuramente Sheridan la conosce bene, se...»

Non si poteva replicare a quel modo ad Eileen O'Connell, questo era poco ma sicuro.

Mise un broncio epico e, per smorzare subito i toni, dissi atona: «Miss Penny Gordon è una cara signora. Vive nel mio stesso palazzo da venticinque anni, è la mamma del portinaio, Thomas, ed è mia dirimpettaia sul pianerottolo. Si occupa delle mie piante, di solito ma, visto che non avevo idea di quanto tempo sarei stata via, le ho lasciato le chiavi per controllare che nell'appartamento tutto fosse a posto. Se volete, vi do il suo numero di telefono, così potete controllare.»

«Va tutto bene, Sheridan. Immagino che, in sedici anni, tu ti sia fatta qualche amica» asserì quieto mio padre Brendan, dando una pacca sulla mano alla moglie.

Della serie, 'lascia fare a me, visto che tu ti inalberi subito'.

Papà era il paciere ufficiale, nella mia famiglia ma, a conti fatti, era sempre stato dalla parte di mamma. Aveva sempre evitato che ci prendessimo per i capelli ma mai, in tanti anni, si era dichiarato d'accordo con me.

Neppure una volta.

Mamma invece era... beh, quella che era.

Non mi sentivo di darle interamente la colpa, visto che sapevo benissimo di avere un carattere incompatibile con il suo.

Desideravo soltanto che mi prendesse per quella che ero. Tutto qui.

Io non avevo mai cercato di cambiarla.

O, per lo meno, non che io ricordassi.

«Todd e Lynn Hempstead sono i miei più cari amici, e sono madrina di battesimo di uno dei loro gemelli. Di Cody.»

Mi affrettai a estrarre dalla borsa il mio borsellino, dove tenevo la foto dei gemellini e, dopo averla allungata a papà, aggiunsi: «E' quello di sinistra, con la tutina gialla. L'altro è Adam.»

Brendan annuì pensieroso, forse chiedendosi come i genitori di quelle creature adorabili avessero potuto ritenermi una valida madrina.

«So che mamma ha parlato con la mia aiutante, Eithe O'Carolan, anche dopo la mia partenza. Con lei, siamo amiche dai tempi dell'università, ed è stata assunta un anno dopo di me, su mio consiglio.»

«Non mi è parsa molto sveglia. Quando le ho detto chi ero, è ammutolita» brontolò mia madre, irritata.

«Forse perché terrorizzi la gente?» ironizzai, caustica. «Mamma, Eithe sa benissimo che sono scappata di casa. Probabilmente, pensava ci fosse un errore. Soprattutto, visto che le avevo detto subito che sarei partita per venire qui. Pensavi sarei scappata per andare a Pechino?»

«E tu racconti i fatti tuoi al primo venuto?» protestò mia madre, forse irritata che Eithe mi avesse messa al corrente della sua seconda chiamata.

La porta d'entrata si aprì, interrompendo qualsiasi mia arringa.

Sulla soglia, la figura imponente di mio nonno paterno, accompagnata da quella minuta di mia nonna, fece il suo ingresso in grande stile.

«Se vuoi battibeccare con tua figlia, Eileen, ricordati di chiudere le finestre. Vi si sente dalla strada» ironizzò mio nonno Killian, facendola sbiancare in viso.

Nonna Niamh, al suo fianco, gli diede di gomito.

Serafica, replicai: «Mamma, ti prende in giro. Le finestre sono chiuse.»

Killian sorrise impertinente e, nell'avvicinarsi al figlio, si lasciò sfuggire solo un breve sospiro dolente.

I suoi occhi parlavano più di una radio accesa, almeno a mio parere, ma non me ne stupii.

Io e il nonno ci eravamo sempre capiti al volo.

Non faticai a comprendere quanto stesse soffrendo per il figlio e, al tempo stesso, quanto stesse cercando di nasconderlo.

Nonna Niamh si avvicinò per abbracciarmi e io, levatami in piedi, la feci ridere di gusto quando le feci poggiare il capo contro il mio seno.

«Tesoro, così sei più alta anche del nonno!»

Il suo commento mi fece sorridere e, quando Killian mi strinse a sé, seppi di essere tornata a casa.

«Allora, come sta la mia bellissima nipote? Ho letto il tuo ultimo articolo, e l'ho trovato davvero interessante. Mi viene quasi voglia di prendere l'aereo per andare in Canada. Ma dove sei andata a pescare quelle cose sulla geologia della zona?»

«Tanto lavoro di testa, nonno. Penso di aver passato più tempo su internet e al telefono con dei geologi, per quell'articolo, che in tutta la mia vita» risposi con naturalezza, sapendo che la domanda era sgorgata con sincerità, dal suo cuore.

«Se ti vuoi rinfrescare, ti ho sistemato la tua vecchia stanza. Ci troverai un po’ di cose mie, ma il letto è ancora a posto» intervenne mia madre, chiaramente per interrompere quell'idillio.

Le dava fastidio che io riuscissi ad andare d'accordo con i nonni, ma non con lei. Era palese.

«Oh, ma io pensavo di...» tentennai, cercando conforto nello sguardo di Niamh, che afferrò al volo il mio problema.

Guardando la nuora con occhi gentili e supplichevoli, la nonna le domandò: «Ellie cara, non potremmo ospitarla noi? Ci manca così tanto, e tu sei così impegnata con Bren che non vorremmo gravarti anche del peso di una persona in più, in casa.»

«Verrei ad aiutarti, è ovvio, se hai bisogno e...»

Non mi lasciò finire di parlare.

«Non c'è bisogno che tu venga a ficcare il naso qui, visto quello che hai detto prima. E' chiaro quanto tu poco ne capisca del prendersi cura del proprio marito.»

La frecciatina andò a segno, e in profondità.

Mi accigliai e, dopo essermi scostata dal nonno, affrontai apertamente mia madre e dissi lapidaria: «Non sono stata io a sparare a Kieran, né a dirgli di buttarsi nel giro della droga e delle scommesse clandestine. E' stato un idiota, e non ha voluto che lo aiutassi. Ne ho sofferto per anni, e ricordarmi in modo così becero che lui è morto, non mi fa desiderare di rimanere qui ancora per molto. Ho sbagliato a sposarlo così giovane. Nessuno dei due era pronto. Ma lui è morto, mamma. Non usare le persone estinte per ferirmi. E' squallido.»

Ciò detto, afferrai la mia borsetta e girai attorno al tavolino.

Mi chinai per dare un rapido bacio sulla guancia di papà, che mi fissò vagamente stranito, dopodiché uscii a passo di marcia.

Un solo altro attimo lì dentro, e sarei veramente esplosa.

L'aria salmastra dell'oceano mi colpì come un pugno allo stomaco non appena misi piede fuori, bloccandomi di colpo a metà di un passo.

Una marea di ricordi mi fece quasi affogare nella disperazione e, solo a stento, riuscii a trovare la forza per prendere un’altra boccata d’aria.

Non ero più abituata a sentirmi scorrere addosso quella brezza fresca e umida, ricca del sale e del sapore agrodolce dei ricordi.

Troppi ricordi.

Mi piegai su me stessa, afferrando la prima cosa che trovai per non crollare ginocchia a terra.

Fu il braccio di Neamh a sostenermi.

Premurosa, mise tra le mie mani le sue chiavi di casa e sussurrò: «Vai a casa, mo chrói, e non pensare a questa storia almeno per un po'.»

Annuii, non sentendomela di affrontarla e, dopo aver raggiunto la mia auto, proseguii come un automa lungo la costa, percorrendo la Regionale 565.

Non impiegai molto a raggiungere la loro casa sull'oceano, dove mantenevano ancora il servizio di B&B.

The Waterfront, l'avevano chiamato, e nessun nome avrebbe potuto essere più appropriato di quello.

Sito a pochi passi dalla spiaggia che si gettava sulla baia, la piccola casa dai colori sgargianti rappresentava un ottimo punto di ristoro per turisti o semplici girovaghi.

Le sue tinte allegre sottolineavano la personalità positiva dei proprietari, così come il giardino ben curato e a disposizione della clientela.

Avevo sempre avuto una stanzetta tutta mia, lì al B&B; non avrei trovato difficoltà a trovare il mio solito rifugio.

Parcheggiai l'auto accanto alla rimessa, discostata un poco dal giardino che circondava la casa e, dopo aver inserito le chiavi nella toppa, entrai.

Il profumo fresco di rose in boccio mi avvolse e, sorridendo spontaneamente, osservai i vasi ricolmi di fiori recisi e i vasetti di erica alle finestre.

Le tende, di leggera batista bianca e azzurra, erano trattenute da vezzose calamite a forma di farfalla.

Centrini di pizzo ricoprivano ogni mobile visibile nel corridoio d'entrata e, laggiù in fondo, proprio come ricordavo, vidi la cucina.

Vi entrai a passo deciso e sorrisi nel vedere la stessa linea country dalle tinte tenui, tra il giallo paglierino e il bianco.

Un centrotavola a punto croce ritraeva uno scorcio della baia e, nel mezzo, nonna aveva sistemato un portafrutta in argento.

Alcune tazze di porcellana fiorata erano state messe in scolo accanto al lavandino, segno che i nonni avevano avuto clienti a colazione.

Mi domandai se avrei incontrato qualcuno, verso sera. Non mi sarebbe dispiaciuta un po' di compagnia.

Curiosai sul registro delle entrate, che si trovava come sempre accanto al mobile del telefono – ora diventato videotelefono – e notai alcune prenotazioni.

Il cellulare suonò prima che potessi proseguire nel mio curiosarmi attorno.

«Pronto.»

«E' andata male, eh?» esordì Fynn, non sorprendendomi più di tanto.

«Cosa te lo fa pensare?»

«Il tuo tono funereo. Lo riconoscerei anche tra mille anni» sottolineò lui, lasciandosi andare a una risata fiacca.

Lo imitai. In quel momento, se avessi avuto una catasta di legna a disposizione, l'avrei spaccata tutta a ceppi piccolissimi.

Ero furiosa.

Avevo preparato mille volte, in quelle poche ore di viaggio, il discorso che avrei voluto esporre ai miei genitori, a mio padre, ma niente era andato per il verso giusto.

Il tempo si era annullato, riportandomi a tanti anni addietro, quando le liti erano all'ordine del giorno, e le sfuriate mie o della mamma, un fatto noto.

Papà era sempre rimasto in disparte a osservarci, silenzioso spettatore dei nostri limiti umani, e mai una volta si era schierato dalla mia parte.

Semplicemente, non aveva mai tentato di pacificare i nostri riottosi caratteri.

Paura, rassegnazione, semplice incomprensione?

Non l’avevo mai saputo.

E neppure quella volta era andata diversamente.

Lo dissi a Fynn, ma lui non parve sorpreso.

«Tu ed Eileen avete sempre avuto caratteri troppo distanti, per poter andare d'accordo. Pensavi davvero che il tuo ritorno avrebbe cambiato qualcosa?»

«Diciamo che speravo sarebbe passata sopra alle nostre divergenze per papà, ma mi sbagliavo. Rimango sempre la pecora nera della famiglia, e a papà quasi non interessa che io e la mamma ci scanniamo come due galli nel pollaio.»

Sbuffai, e Fynn rise.

Un attimo dopo mi accodai, lasciandomi accarezzare da quella risata famigliare.

Era sempre stato così, tra noi. Lui poteva schiaffarmi in faccia la verità, e l'avrei sempre accettata.

Per quanto brutta potesse essere, per quanto io potessi apparire stupida nel sentirmela dire, lui avrebbe sempre potuto dirmi tutto.

«Vieni a cena, stasera, stai un po' con noi. Conosci Donna, Keath e Maureen. Ti farà bene stare lontana dai problemi almeno per qualche ora.»

«Mi fa ancora strano pensare che hai due bambini.»

«Solo perché io sono un noioso padre di famiglia» ironizzò Fynn.

Ma io non la bevvi. C'era del dolore, in quelle parole. Un dolore che aveva radici antiche.

«Non fosti tu il problema, Fynn, ma io. Ero io a essere scapestrata, non tu troppo serio o posato. Non sapevo neppure io cosa volevo. Kieran mi parve la soluzione giusta, e sappiamo bene entrambi com'è finita.»

Sorrisi, e aggiunsi: «Donna era giusta per te, come io non lo sarei mai stata.»

«Vero.»

«Oh, ma... tu, brutto...» sbottai subito dopo, scoppiando nuovamente a ridere con lui.

Quando quell'eccesso di ilarità fu scemato, mi disse con sincerità: «Donna è fatta apposta per me. Spero solo di essere altrettanto io per lei.»

«Se non lo pensasse, sarebbe folle» dichiarai, facendo spallucce.

Nel sentire la porta di casa aprirsi, lanciai un'occhiata in direzione del corridoio e sorrisi nel veder comparire i nonni.

Li salutai con un cenno e riattaccai con Fynn, promettendogli che sarei passata per la cena.

Fu a fatica che tornai a fronteggiare lo sguardo dei nonni ma, quando lo feci, scorsi solo tanta comprensione, un po' di sorpresa e una vaga irritazione.

«Capirà, tesoro, non darti per vinta.»

Niamh fu come sempre gentile con me, anche se sapevo di non meritare tutte quelle attenzioni.

In fondo, ero io quella che era scappata da lì, ero io che mi ero sposata giovanissima, ero io che avevo disobbedito alla famiglia.

Non me l'aveva ordinato il dottore, non mi avevano rapita.

Avevo fatto tutto da sola.

Certo, con Kieran, fu ovvio fin dall'inizio chi, dei due, avrebbe portato i pantaloni, in quella stramba coppia.

E non fu mai lui.

Vivere con Kieran fu un divertimento solo nei primi mesi, quando la nostra fuga apparì a tutti i nostri nuovi amici come un'avventura mitica.

La realtà dei fatti, però, ci crollò addosso come un macigno fin troppo alla svelta.

Quando i contanti – che avevamo rubato nelle rispettive case – finirono, i guai arrivarono come le tempeste di neve dall'oceano, in inverno.

Puntuali, tremende e apparentemente infinite.

I creditori ci strinsero un cerchio attorno e, pur con tutta la mia buona volontà, faticai a portare a casa i soldi per mantenerci.

Iniziammo a tagliare sulle spese e, quando mi sembrò di aver ingranato a sufficienza per tirare un sospiro di sollievo, Kieran fu trovato ammazzato.

La droga e il gioco, lo uccisero.

Fui superficiale, allora, non essendomi accorta dei suoi vizi e delle sue debolezze.

Rischiavo di esserlo di nuovo, in quell'occasione.

Mi avvicinai ai nonni, abbracciai entrambi e sussurrai contro la spalla del nonno: «E' così difficile sapere qual è la cosa giusta da fare.»

«Se ti può consolare, non lo sappiamo neppure noi» replicò il nonno, carezzandomi la folta chioma corvina.

Sospirai, lasciai che il loro calore mi scaldasse e, solo quando mi sentii pronta a scostarmi da loro, dissi: «Cercherò di fare del mio meglio.»

«Che è quanto si possa chiedere a chiunque, e non più di questo.»

Niamh, come sempre, mi sorrise. Le sue perle di saggezza non erano mai rimbrotti, e questo mi era sempre piaciuto, di lei.

Sperai soltanto che, anche quella volta, lei avesse ragione.

Sperai che, il mio meglio, potesse bastare.





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