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Autore: AsfodeloSpirito17662    30/12/2014    3 recensioni
Merlin lo aveva aspettato. Giorni, anni, secoli, completamente da solo. Aveva visto morire tutti coloro a cui aveva voluto bene e non aveva potuto fare niente per evitarlo.
Era rimasto completamente alla mercé di se stesso. Unico custode del suo segreto, unico custode della propria identità, della propria unicità.
Merlin lo aveva aspettato ed alla fine, dopo più di mille anni - Cristo, mille anni! - era impazzito. Aveva dato di matto.
Iniziò a buttarsi quasi consapevolmente, contro i tronchi degli alberi.
Il dolore era giusto. Doveva essere punito. Aveva bisogno, del dolore.
Merlin si era perso, stava radendo al suolo Albion, aveva ucciso delle persone.
Ed era tutta colpa sua.
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Drago, Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate | Contesto: Nel futuro
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DICIOTTESIMO CAPITOLO
18. Merlin il Mago deve morire - parte I



Glastonbury, 5 agosto 2020
Notte


Fino a quel momento aveva pensato che case del genere esistessero solo nei film - a partire dal muro di cinta che la circondava e che era stato letteralmente assediato dalle piante: si erano intrecciate tra di loro in modo talmente fitto da impedire a chiunque di sbirciare; le foglie erano secche, i rami grossi e pieni di spine, il ferro della cancellata abbondantemente arrugginito. Stringendo Excalibur in una mano, Charles camminò lungo il marciapiede deserto, sino a raggiungere il cancello di ingresso, che era chiuso; il cielo vomitava acqua a secchiate e le gocce erano talmente grosse da fare quasi male: era normale che per strada non ci fosse anima viva. Con gli occhi resi piccoli dallo sforzo di vedere attraverso la pioggia, Charles osservò la facciata della casa attraverso le sbarre che la proteggevano dai passanti: definirla fatiscente sarebbe stato un eufemismo; le mura esterne erano attraversate da crepe, almeno nelle parti visibili, perché la maggior parte della superficie era occupata dall'edera.

Lasciò correre lo sguardo sui vetri sporchi delle finestre, rotti in diversi punti, sulle decorazioni smozzicate e scolorite del cornicione, sulla porta di ingresso graffiata ripetutamente ed infine su quello che, un tempo, doveva essere stato un giardino: in quel momento sarebbe potuto passare per una prateria. L'erba secca ed ingiallita era alta più di un metro e sfiorava sino a metà le finestre del pian terreno, i pochi alberi che erano riusciti a crescere lì, nel mezzo di quell'aridità, avevano l'aria di essere morti da un pezzo e, posizionate un po' ovunque, facevano capolino radici grosse come la gamba di un uomo adulto. Lo scenario dava come l'impressione che una natura marcia, malata, avesse voluto prendere possesso di quella casa con la forza, reclamandola.

Charles espirò bruscamente e le gocce di pioggia che gli si erano poggiate sulla bocca schizzarono via. Aveva il cuore che stava andando a tremila e si ritrovò ad afferrare Excalibur con entrambe le mani, praticamente aggrappandosi a lei, tentando di assorbire la sua forza ed il suo coraggio.

Non avrebbe saputo dire quant'è che restò fermo sotto la pioggia, davanti quel cancello, in procinto di compiere quel destino per il quale la sua coscienza era stata risvegliata; in quel momento la sua testa era invasa da una confusione tale che ad un certo punto gli sembrò addirittura che quel corpo non fosse più il suo, che si stesse sdoppiando.

Il che non sarebbe stato poi così strano, visto che lì dentro erano in due.

Ma no, Hester diceva che erano sempre stati la stessa cosa, lui e l'altro.

Sì, ma Hester non poteva sapere che cosa si provasse. Non avrebbe mai potuto saperlo, quindi su cosa aveva basato certe affermazioni?

No. Doveva smetterla di pensare a lei. Hester non c'era. Non c'era più.

Ma se fosse stata lì, sicuramente avrebbe saputo che cosa fare.

E lui, lo sapeva che cosa doveva fare?

Perché Hester non glie lo aveva detto? Perché l'aveva lasciato così, da un giorno all'altro, insicuro ed impreparato?

No, basta per davvero. Niente più Hester. Lei non c'era. Caso chiuso.

Concentrazione. Doveva stare concentrato.

Merlin, Excalibur, Casa, Cancello.

Aveva le mani sudate- e se Excalibur gli fosse scivolata dalle dita? Doveva asciugarle.

Che idea stupida! Era fradicio sin dentro le ossa e stava piovendo a dirotto, come pensava di asciugarle?

Allora forse non erano sudate. Forse era colpa dell'acqua.

Un momento, quella spada era sempre stata così pesante?

Chissà dove si sarebbe trovato da lì ad un'ora.

Merlin, Excalibur, Casa, Cancello.

Concentrazione.

Concentrati.

Concentriamoci, io e te. Noi. Io.

Oh, Dio.

Charles fissò quel cancello talmente a lungo che arrivò a perdere la concezione stessa di cosa fosse, un cancello, come quando si ripete una parola così tante volte da credere di dimenticarne il significato. Dopo interminabili minuti, quando per essere più bagnato di così avrebbe soltanto potuto tramutarsi lui stesso in acqua, con la punta della spada fece pressione sul cancello, aspettandosi una certa resistenza.

Contro ogni previsione, quello si aprì docilmente, cigolando in modo fastidioso.

"Grwoar!" esclamò Drem, che dal lago l'aveva seguito sino a lì, ubbidientemente. Charles se ne era completamente dimenticato, così abbassò gli occhi sul piccolo drago, che stava annusando le sbarre dischiuse con aria apparentemente diffidente.

"Piace meno a me che a te, quindi non fare quella faccia" biascicò al suo indirizzo, ottenendo un gorgoglio di disaccordo. A quel punto però, non poteva davvero più rimandare: facendo un deciso passo avanti, con Drem alle calcagna, mise piede nel giardino di quella casa dall'aria spettrale. Avanzò con cautela tra l'erba alta, stando attento alle radici dalle dimensioni straordinarie sulle quali avrebbe potuto inciampare e si fece strada tra il fogliame grazie ad Excalibur. Il drago rimarcava le sue orme, approfittando del passaggio lasciato aperto davanti a lui.

Se avesse dovuto dire che la situazione non gli puzzasse, avrebbe largamente mentito; si era aspettato di dover combattere contro altri Fomorroh, di dover superare, insomma, delle magie o per lo meno altri ostacoli del genere... perché stava filando tutto così liscio?

Cos'è che lo rende così sicuro di sé? Non poté fare a meno di chiedersi. Quando infine giunse davanti la porta di ingresso, che si aprì immediatamente non appena la spinse un po', non si stupì tanto quanto prima. Scambiò un'occhiata con Drem, unico compagno e conforto al momento disponibile e la prima cosa che notò, ancora prima di entrare, fu l'odore: l'interno della casa emanava puzzo di umido, di muffa e di polvere. Possibile che lì dentro ci vivesse davvero qualcuno? Sembrava fosse stata abbandonata da anni.

Quando entrò lasciò la porta aperta, affinché la debole luce dei lampioni potesse illuminare l'ingresso almeno un poco; come per l'esterno, Charles poté notare che anche le mura interne della casa erano cosparse di crepe e foglie di edera, i cui rami si estendevano fino al soffitto, ricordando una mappatura molto simile a quella delle vene del corpo umano. Il pavimento era spaccato in più punti da altre robuste radici, che si erano fatte prepotentemente strada attraverso strati di calce e cemento; sparse come un tappeto dalle sfumature giallastre e brune, numerose foglie secche giacevano a terra dappertutto. Ogni passo compiuto era come un tuono su quel manto arido e morto, ma Charles ebbe come la netta impressione che, chiunque abitasse lì dentro, fosse già a conoscenza della sua intrusione.

Con una certa sorpresa, realizzò che la cosa non gli importava: prima di varcare il cancello il nervosismo l'aveva quasi fatto vomitare, ma ora che si trovava lì... provava soltanto una gran voglia di farla finita. Si sentiva totalmente devastato, sia mentalmente che fisicamente ed aveva iniziato a credere che non sarebbe mai riuscito a riprendersi completamente dall'odissea che l'aveva risucchiato sin nelle sue viscere. Tutto quello doveva giungere al termine, ma non solo per lui... sopratutto per Merlin e per quell'angoscia che lo stava divorando vivo, che glie lo stava portando via anche quando, finalmente, era giunto ad averlo così vicino.

Sarebbe morto di nuovo, prima di lasciarlo accadere.

Inspirò a fondo, cercando di liberare la mente da ogni pensiero. Non doveva distrarsi, il gioco era diventato serio e si era trovato in situazioni come quella un milione di volte - il fatto che Merlin in quella particolare occasione non sarebbe stato con lui, ma contro di lui, non voleva dire che non ce l'avrebbe fatta -. Era il maledetto Re del passato e del futuro, qualcosa doveva pur significare.

Avanzò con circospezione sino a raggiungere la prima stanza alla sua destra, priva di porta; il cuore, che aveva già raggiunto l'altezza della gola a causa del nervosismo, per poco non gli schizzò fuori dalla bocca quando si affacciò oltre la soglia per esaminare l'ambiente: un lampo aveva inondato la stanza di luce e, sulla parete opposta all'entrata, costretto su una poltrona da una moltitudine di rami o liane o quel che diavolo erano, lo vide. Era lui, ne era sicuro.

Il tuono che seguì gli fece tremare la cassa toracica.

Merlin.

Merlin era lì.

Merlin era lì, davanti a lui, a qualche metro di distanza.

Merlin era lì.

Come poteva essere lì?

Charles corrugò la fronte e si congelò sul posto. Cercò di scorgere il suo viso, ma la stanza era completamente buia ed anche se i lampioni in strada erano piuttosto vicini alla casa, la tempesta che fuori imperversava dava l'impressione che fossero in procinto di spegnersi totalmente.

No.

C'era decisamente qualcosa che non andava.

Non era umanamente possibile credere a tutta quella fortuna. L'averlo trovato così, immediatamente, nel salotto? Neanche nelle favole era tutto così semplice.

Strinse le mani attorno all'elsa di Excalibur e serrando i denti con forza, decise di avanzare; mosse con cautela prima un piede e poi l'altro, entrando nella stanza con i nervi a fiori di pelle. Valutò velocemente l'ambiente, cosa che aveva imparato a fare già ai tempi dell'addestramento a Camelot: essere in grado di studiare il terreno di battaglia era una delle regole basilari per il gioco della guerra.

Il salotto rispecchiava alla perfezione le condizioni del resto della casa: la carta da parati era ingiallita e cadeva a pezzi in alcuni punti, mentre le piante avevano sfondato il pavimento e si erano inerpicate lungo i muri ed il soffitto; ebbe come l'impressione di essere stato inghiottito dalla bocca di un mostruoso albero, ma non vide nessun altro lì dentro, oltre al mago.

"Okay..." mormorò, per infondersi un po' di coraggio. Abbassò lo sguardo alla ricerca di Drem, ma non riuscì a vederlo da nessuna parte - del resto, era davvero troppo buio lì dentro. Tenendo quindi Excalibur tesa davanti a sé, Charles si inoltrò fino al punto di raggiungere Merlin senza nessuna difficoltà; gli si fermò di fronte e la vicinanza guadagnata gli permise finalmente di scorgere quei dettagli che prima non aveva potuto notare: il sangue scuro e secco che gli imbrattava la faccia, le croste dei graffi in via di guarigione sulle guance scavate, le occhiaie scure sotto gli occhi chiusi, i capelli neri e spettinati come al solito che ricadevano delicati sul suo viso, il letto di foglie secche che lo ricopriva come una coperta -come se lui fosse stato qualcosa di dimenticato -, i rami che lo circondavano abbracciandolo stretto stretto, quasi con una sorta di gelosia...

Anche nell'incoscienza di quella morte apparente ed innaturale, Merlin aveva quella sua caratteristica aria irriverente che aveva del tutto scombinato la vita ed i sentimenti di Arthur. Il fatto che anche quelli di Charles fossero totalmente sottosopra, era una naturale conseguenza, un proseguo di un filo il cui capo era legato molto a fondo nel passato. Non sapeva chi avesse ridotto il mago in quelle condizioni, ma avrebbe scovato quell'individuo che si faceva chiamare Emrys e lo avrebbe costretto ad implorare di ucciderlo. Non era mai stato un Re od un ragazzo crudele, dedito alla violenza, ma come in molte altre occasioni era già successo ,quando si trattava di Merlin tutte le certezze che Arthur, o Charles , aveva su di sé... irrimediabilmente crollavano come un fragile castello di carte. Merlin aveva sempre avuto il potere di farlo passare come uno sconosciuto ai suoi stessi occhi e, per essere onesti, non era mai riuscito ad accettarlo molto bene; quando era con lui, Arthur avrebbe anche potuto indossare la corona più vistosa e brillante e preziosa del mondo, ma sapeva che Merlin avrebbe continuato a guardare solo e semplicemente i suoi occhi. Glie lo aveva dimostrato in diverse occasioni.

Improvvisamente sentì di avere la mente libera, completamente sgombra. Credeva di non essere mai stato così lucido in vita sua, eppure la spada gli tremò tra le mani, quando la accostò al collo di Merlin. I suoi occhi azzurri accarezzarono la lama nella sua interezza, fino alla punta poggiata contro la pelle morbida del mago.

Un taglio.

Sarebbe bastato un taglio netto, secco e deciso, e quella storia sarebbe finita una volta per tutte. Del resto, era anche ciò che Merlin voleva, no? Glie lo aveva chiesto lui, più di una volta, di essere ucciso!

Drem mugolò come spaventato nei pressi della soglia del salotto, ma Charles non lo sentì. L'elsa era ben stretta tra le mani, avvertiva il sangue pulsare nelle vene, guidato da battiti improvvisamente tranquilli e regolari; un nuovo lampo inondò la stanza, donò luce oscura alla lama di Excalibur e rese ancor più macabro il contrasto del sangue secco sulla pelle pallida come ghiaccio di Merlin. Charles strinse le dita attorno all'impugnatura, le gocce di pioggia che l'avevano infradiciato neanche dieci minuti prima gli scivolarono sulla faccia e sotto i vestiti.

Che cosa stava aspettando?

Inghiottì a vuoto.

Che diavolo, un colpo. Gli trafiggo la trachea e me ne vado. È facile.

Adesso le sue mani tremavano visibilmente. Drem mugolò ancora e Charles serrò forte i denti, strizzando le palpebre, perché la vista gli si era annebbiata; la spada, divenuta instabile nelle sue mani, graffiò la pelle del collo di Merlin e, a riprova del fatto che fosse in realtà ancora vivo, del sangue colò giù dalla ferita.

Ucciderlo. Ucciderlo e basta. È la soluzione più semplice. Devo farlo.

Aprì nuovamente gli occhi, la faccia bagnata non più dalla pioggia, ma dal sudore. Sentiva il sapore della bile nella bocca e la gola bruciare di acidità.

Basta, non ce la faccio più.

Basta. Deve finire!

Ucciderlo.

Basta, sono stanco...

Uccidilo.

Non ce la faccio...

Uccidilo!

"BASTA!" gridò, lasciando cadere la spada per terra, come ne fosse stato ustionato; barcollò malamente sulle gambe e respirò in modo affannato più volte, poiché si sentiva come se avesse corso in modo folle. Con gli occhi spalancati dall'apprensione e le pupille dilatate al massimo, si guardò attorno in modo frenetico, cercando evidentemente qualcosa. "Dove sei?!"

O qualcuno.

Le sue parole vennero seguite dall'unico rumore della pioggia e del vento che fischiava attraverso le finestre senza vetri; il pavimento era umido a causa dell'acqua che le raffiche di aria trasportavano dentro e quando Charles si chinò velocemente a recuperare Excalibur, per poco non scivolò sulle radici umide. Non riusciva a controllare il suo respiro e sapeva che agli occhi di chiunque, in quel momento, sarebbe apparso come un animale braccato e costretto all'angolo. Aveva sempre odiato sentirsi a quel modo ed era capitato pochissime volte che accadesse; quando ancora non era divenuto re, ad esempio, e Camelot era stata attaccata dai Dorocha(1), aveva provato un'impotenza così soverchiante da portarlo a dubitare di se stesso in un modo in cui non aveva mai fatto prima. Poi Merlin, per l'ennesima volta, l'aveva aiutato a riemergere da quelle acque oscure, così oscure...

Lui. Sempre lui. Ovunque, in ogni momento.

Quelle stesse acque oscure, da cui era stato salvato una vita fa, erano tornate e stavano minacciando di portargli via l'unica ancora di salvezza che avesse mai avuto; di nuovo, Charles fu quasi schiacciato miseramente dalla stessa impotenza che l'aveva reso preda durante l'invasione dei Dorocha... eppure, quella volta, c'era una differenza: sentiva di voler dimostrare a Merlin di poter contare su di lui, di poter essere a sua volta la mano che l'avrebbe afferrato e fatto riemergere dalle profondità dell'abisso.

Glie lo doveva.

Glie lo doveva perché era la cosa giusta da fare.

Glie lo doveva perché non poteva lasciarlo andare.

Glie lo doveva perché era Merlin.

Glie lo doveva perché...

"Ti sei rammollito" esordì una voce lieve, dalle oscurità della stanza. Charles si irrigidì e le nocche divennero bianche, tanta fu l'intensità con la quale strinse l'elsa di Excalibur. Lentamente, vantando una calma che non era lontanamente reale, si voltò verso il camino spento e, accanto al profilo di una poltrona consunta, vide baluginare un paio di occhi fatti d'oro liquido. Il movimento costante ed ipnotico della loro sostanza, a tratti più intensa o più oscura, lasciava intuire l'agitarsi stesso della magia che scorreva in modo instancabile nella pelle, nelle ossa e nelle vene di lui, lui! Il vero responsabile di tutto il dolore, la follia, la paura e l'angoscia che avevano gettato in ginocchio l'Inghilterra.

"Emrys" esclamò Charles, duramente. Puntò d'istinto Excalibur verso di lui, frapponendola tra loro; l'altro non sembrò esserne impressionato, ma non si avvicinò neppure, restando nell'ombra.

"Questo secolo ti ha reso debole" sentenziò, con una sfumatura derisoria. "Un tempo avresti saputo mettere da parte i tuoi ridicoli sentimenti, per fare ciò che è giusto. È evidente però..." fece qualche passo in avanti e l'ennesimo lampo permise a Charles di constatare che lo era per davvero, un ragazzino, "...che quel tempo è finito. Non che me ne dispiaccia" aggiunse, quasi allegramente, "Così sarà decisamente tutto più facile".

"Sarà più facile che cosa?"

"Ucciderti, naturalmente" replicò con leggerezza Emrys, allargando le braccia come per sottolineare l'ovvietà di quella risposta. "Vedi, ho fatto una promessa a me stesso" continuò, indicando con una mano Merlin, poco dietro Charles. "Gli ho promesso che gli avrei regalato la tua testa. Non mantenere fede alle mie parole, sarebbe come mancarmi di rispetto, non credi?"

"Tu sei pazzo" disse Charles, con la confusione dipinta sulla faccia, "Parli di lui come foste la stessa persona! Non-"

Emrys lo interruppe, battendo le mani con approvazione. "Ottimo! Ci sei arrivato subito! Ti sarai anche rammollito, ma forse sei diventato più intelligente. Però non vorrei dare giudizi troppo affrettati, credo che aspetterò di vedere che altro riesci a dedurre, prima di confermarlo".

Charles non rispose, perché troppo impegnato a metabolizzare il significato di quello che aveva appena appreso. Non si sentì nemmeno offeso dal palese insulto appena ricevuto, lo sconcerto che sopraggiunse insieme alla comprensione assorbì tutta la sua attenzione.

"Non ti credo" fu la prima cosa che riuscì ad esclamare; la sua mente era andata in blocco: non poteva accettarlo, non poteva essere reale.

"Che novità" fu l'aspra risposta di Emrys. "Quando mai l'hai fatto? Hai sempre avuto la verità sotto il naso e non te ne sei mai voluto accorgere". Sorrise, in modo ferino.

"Ma adesso è impossibile negare l'evidenza, altezza. Sarebbe troppo da idioti, perfino per uno come te".

Gli occhi di Emrys divennero ancora più vividi di quel che già erano e, subito dopo, una robusta fiammata invase il camino: in men che non si dica, i ciocchi presero fuoco e la legna cominciò ad ardere allegramente; la luce del fuoco invase poco a poco il salotto, morbida come una carezza, e finalmente Charles poté vedere con maggiore chiarezza altri dettagli della stanza - che era messa in condizioni molto peggiori di quanto avesse intuito - e del bambino stesso; aveva le labbra a forma di cuore, identiche a quelle di Merlin, e le stesse, grandi orecchie, che erano peggio di un marchio di fabbrica.

No, continuò a dire ostinatamente il suo cervello, non può essere.

Emrys sembrò leggergli nello sguardo ciò che stava pensando e socchiuse le palpebre con aria di sfida.

"Non hai imparato proprio niente dagli errori del passato, vero? Sempre a girarti dall'altra parte quando ti capita davanti qualcosa di scomodo che preferiresti non aver mai visto. Povero, piccolo Arthur. Che trauma, scoprire che l'avere sangue nobile nelle vene non può salvarti dalle brutture del mondo".

Charles strinse i denti, irrigidendo la mandibola; sentiva le mani sudate stringere convulsamente Excalibur. Calmati, pensò. Concentrati.

"Sono qui per rimediare a tutti gli errori che ho commesso" rispose, sforzandosi di tenere un tono di voce controllato. "Mi è stata data una seconda possibilità e ti assicuro che finirà in modo completamente diverso dalla prima".

"Ma certo che non finirà in modo diverso" ribatté Emrys, quasi annoiato; "Morirai. Di nuovo. A meno che tu non voglia davvero uccidermi. In quel caso, dì pure addio per sempre anche alla restante parte di me. E scusalo se non partecipa attivamente a questa conversazione, sai: ultimamente è sempre stanco morto".

Il grondante sarcasmo che colorò la voce di Emrys, fece schizzare il sangue al cervello di Charles. Fu un attimo: lui scattò in avanti, con la vista resa rossa dalla rabbia ed alzò Excalibur sopra la testa, come a volerla abbattere violentemente su Emrys - poco glie ne importava che avesse le sembianze di un ragazzino! -, ma giunto praticamente davanti a lui, qualcosa lo bloccò: il mago si era voltato di spalle e rivolgeva alla sua lama affilata la radice che lo legava direttamente al cuore di Merlin.

Cosa diavolo è questa?

"Fallo" lo incoraggiò Emrys, guardandolo con la coda dell'occhio da sopra la spalla. "Perché ti sei fermato? Non vorrai dirmi che adesso mi credi".

Gli occhi azzurri di Charles percorsero la radice in tutta la sua lunghezza, fino a raggiungere l'altro capo, che affondava direttamente nel centro del petto di Merlin. All'improvviso la voce di Alecto gli venne alla mente e ricordò di quando lei aveva raccontato di una sorta di ramo che collegava Emrys ad un ragazzo dall'aria malata. Quindi era quella, l'incognita della faccenda. Charles inghiottì a vuoto. Che cosa sarebbe successo se lui avesse...

"Uccidi me" mormorò Emrys con delicatezza, "E muore anche lui".


No, esalò con debolezza la sua stessa voce nella sua mente, e qualcosa di feroce risucchiò con violenza tutta l'aria dai suoi polmoni.


Come se quella sentenza avesse assorbito da lui ogni briciola della sua energia, Charles lasciò crollare le braccia lungo i fianchi, la spada mollemente stretta nella mano destra. Eccola di nuovo lì, l'impotenza, con la stessa malvagia ed oscura morsa che l'aveva tenuto stretto già in passato.

"Lo sapevo" disse Emrys, con un sorriso.

Non poteva sapere se quel ragazzino stesse bluffando o meno. Ma non poteva nemmeno rischiare, non quando c'era di mezzo Merlin. Fissò i suoi occhi dorati e disgustosamente sinuosi, mentre i propri si inumidivano a causa della frustrazione.

"Sapevo che non l'avresti fatto".

Aveva dato la sua parola. Aveva dato a Merlin la sua parola. Eppure eccolo lì, davanti all'incubo di Albion, impotente come non lo era stato mai, incapace di pensare coerentemente, di sapere che cosa diavolo fare. Aveva dato la sua parola! Trattenne il respiro, aprendo e chiudendo la mano sinistra più volte.

"Devo ammettere che all'inizio ho avuto qualche dubbio. Ma adesso me ne hai appena dato la conferma. Oh, no, non sul fatto se mi avresti ucciso o meno. Ero sicuro che non avresti avuto il coraggio di farlo. Ma non ero altrettanto sicuro che tu mi amassi. Però adesso lo so".

Charles aggrottò lievemente le sopracciglia, l'aria fragile e spaesata di chi stava perdendo tutto senza sapere come fare per fermare il processo.

"Tu mi ami".

Chiuse gli occhi. Bumbumbumbumbumbum.

"Questo non ti fa girare dall'altra parte, altezza? Vuol dire che questo lo vedi?"

Per un attimo gli sembrò di galleggiare nell'aria, senza peso. Quando arrivò l'impatto, però, si rese conto che Emrys l'aveva scaraventato dall'altra parte del salotto, facendo finire Excalibur chissà dove.

"Basta giocare" esclamò il mago, improvvisamente gelido come la pietra. Charles socchiuse le palpebre, riverso sul pavimento dissestato ed umido, la vista sfocata dal dolore alla schiena; intravide i piedi di Emrys che gli si facevano sempre più vicini e, oltre le sue spalle, uno strano bagliore azzurrino. Il camino, pensò distrattamente in modo incoerente, quasi ridendo di se stesso. Morirò con il camino acceso ad agosto. Che senso avrebbe avuto continuare a fingere, a combattere? Emrys aveva ragione: non avrebbe mai potuto ucciderlo. Mai. Neanche se ne andava delle sorti del fottuto mondo intero.

"Sei l'unico ostacolo che mi separa dalla vita eterna" stava dicendo il mago, con fermezza. "Capisci bene che non posso fare altrimenti. Non c'è altra soluzione. Saresti stato l'unico che avrebbe potuto fermare tutto questo. Ma una volta che non ci sarai più, io avrò finito di preoccuparmi. Dì addio alla tua seconda possibilità".

Charles sentì una potente forza invisibile, che stava chiaramente tentando di schiacciarlo, costringerlo contro il muro; la pressione sui suoi muscoli e le sue ossa aumentò vertiginosamente e lui digrignò i denti, facendosi violenza per impedirsi di urlare. Se proprio doveva morire, non gli avrebbe dato anche quella soddisfazione.

Emrys si inginocchiò davanti a lui e gli accarezzò i capelli sudati con la manina piccola e paffuta.

"Lasciati andare" sussurrò con voce soffice, scollandoglieli dalla fronte appiccicosa; "Ti prometto che non dovrai mai più fare l'eroe. Questa sarà la tua ultima morte".

La tensione sulle tempie era bestiale. Charles credette di non aver mai provato un tale dolore intorno alla testa ed a stento percepì qualcosa di viscoso colargli dal naso verso il mento; sentiva le vene gonfie come palloni ed era certo che qualcosa, dentro di lui, fosse sul punto di esplodere. Ti prego, pensò con angoscia, fa' che finisca in fretta. Ti prego, Hester...

"Basta così!" esclamò qualcuno, da qualche parte, nella stanza - non avrebbe proprio saputo dire da dove. Poi il miracolo avvenne e poté accogliere con gioia indescrivibile la scomparsa della pressione che, in un secondo di troppo, l'avrebbe definitivamente ucciso; il dolore tuttavia era comunque lì, nelle carni, nei tendini, nelle ossa, talmente intenso da impedirgli anche solo di immaginare un qualsiasi movimento. Tentò di aprire gli occhi, ma le palpebre erano così pesanti e pulsanti di dolore che fallì miseramente. Percepì un fruscio vicino a sé e suppose che Emrys si fosse rialzato in piedi. Dalla gola gli sfuggì un doloroso rantolo ed anche respirare sembrava un'impresa titanica. Non poté fare a meno di chiedersi perché non fosse già morto... cosa lo aveva impedito?

"Tu?" soffiò la voce di Emrys, un misto tra stupore ed furia. Charles udì un rumore metallico e familiare; faticò solo pochi istanti, prima di saperlo ricollegare: qualcuno aveva sollevato Excalibur da terra.

"Sorpresa" esclamò una voce maschile, terribilmente gracchiante, accompagnata da rantolii di stanchezza.

"Come-?"

"Dovresti controllare meglio i tuoi draghi".

"I miei... cos-? A chi appartiene quella bestia?!"

"A lei".

Un altro rumoroso respiro, tremante ed affaticato. "L'allieva che supera il maestro".

Seguì una risata graffiante, di chi non ne aveva fatte per molto, molto tempo.

"Non osare!"

Che cosa stava succedendo? Chi era? Con chi stava parlando? I battiti del cuore di Charles ebbero un'impennata pazzesca ed anche se la rinnovata velocità del sangue nelle vene acuì ancora di più la sua sofferenza, gli diede la spinta necessaria che servì a far schiudere i suoi occhi. Ciò che vide fu nebbia, solo nebbia rossastra. Lacrime. Sangue. Sangue misto a lacrime. Da dove veniva tutto quel sangue? Sbatté le ciglia e sentì colare giù per il viso le lacrime accumulatesi negli angoli degli occhi; subito dopo, però, la sua vista divenne più nitida.

"...sottovalutato i prodigi del (2)soffio del drago" stava dicendo il ragazzo. "Un drago ha una sua coscienza, te ne eri dimenticato? Forse non siamo così simili".

Emrys non rispose e Charles non poté vedere la sua espressione, perché il bambino gli dava le spalle, impegnato a guardare qualcun altro; i suoi occhi si mossero con lentezza lungo il pavimento del salotto, poiché ogni spostamento troppo brusco faceva dondolare la stanza in maniera insopportabile. Cautamente, lo sguardo gli si posò su un paio di scarpe scure, semi coperte da classici jeans anonimi, che fasciavano delle gambe dalle ginocchia ossute e tremolanti; in quell'insieme era inclusa anche Excalibur, sulla quale quel qualcuno si stava chiaramente appoggiando, come non riuscisse a stare in piedi da solo.

"Anche io ho ancora una mia coscienza e di quella, lo sai, proprio non avresti mai potuto appropriartene. Hai paura?"

Charles sollevò gli occhi. Un volto spigoloso. Zazzera di capelli neri. Enormi, buffe orecchie a sventola.

"No, aspetta, possiamo-!"

"Io non ne ho. Ma tu dovresti".

Ciglia lunghe. Occhi blu.

Merlin.


"NO!" urlò, con tutto il fiato che aveva in gola - la voce intrisa di un dolore tremendo, frutto dello sforzo immane che aveva compiuto per incamerare bruscamente aria in quel corpo martoriato da una morte scampata per un soffio-, nell'esatto momento in cui Merlin brandì Excalibur e tranciò di netto la radice che affondava nel suo petto, unico maledetto vincolo che lo univa indissolubilmente alla parte più oscura di sé. Emrys, le mani protese verso di lui come lunghi artigli, si immobilizzò all'improvviso; la radice ricadde pesantemente a terra come un corpo senza vita e così fecero subito dopo le ginocchia di Merlin. Il clangore di Excalibur che crollava sul pavimento, fu dolorosamente assordante.

Le dita di Emrys cominciarono a scurirsi lentamente di un colore fangoso, sporco, e subito dopo iniziarono ad assottigliarsi, come se qualcosa stesse risucchiando del nutrimento direttamente dal suo piccolo corpo; a poco a poco il processo si estese lungo le sue braccia, il collo, il viso, il petto e le gambe, fino a quando di lui non rimase che un mucchietto di pelle ed ossa completamente avvizzito. La sagoma di Emrys crollò a terra, leggera come un alito di vento, con gli occhi di un giallo opaco spalancati su un mondo che non avrebbe potuto più vedere né dominare.

Emrys era morto. Lo era chiaramente.

Emrys era morto ed era successo così velocemente che, a pensarci, tutto quello che aveva fatto pareva appartenere solamente ad una semplice fiaba dell'orrore.

Ma a Charles non importava.

Non gli importava di lui, non gli importava di se stesso, non gli importava del dolore atroce che stava provando nel trascinare pesantemente il suo stupido, inutile corpo sul pavimento, non gli importava dell'impressione che aveva di essere stato spaccato a metà, non gli importava nemmeno del sangue che gli imbrattava la faccia, fuoriuscito dal naso, dagli angoli degli occhi azzurri e dalle orecchie.

Non gli importava un maledetto niente, se non della soverchiante necessità di raggiungere Merlin, che non l'aveva neanche guardato!, di scuoterlo, picchiarlo, insultarlo fino a perdere la voce, di abbracciarlo, di stringerlo, di-

"Merlin" lo chiamò debolmente, le parole pregne di un pianto che premeva per uscire da ore. "Merlin!" ruggì.

Ma Merlin, il corpo magro accasciato a terra in una brutta angolatura, il viso rivolto verso l'alto, gli occhi dischiusi ed immobili, non si mosse.













NOTE DELL'AUTORE: Eh. Che brutta persona che sono. Non solo salto l'abituale aggiornamento del lunedì negandovi la gioia di un nuovo capitolo ad inizio settimana, ma lo tronco anche in questa maniera orribile e disumana.

Troppo divertente!

(1) I dorocha, per chi non li ricordasse: http://merlin.wikia.com/wiki/Dorocha
(2) Per chi invece non avesse fatto il collegamento mentale nel modo corretto... il 'bagliore azzurrino' che vede Charles mentre è a terra, non è il fuoco nel camino. È il soffio del drago che Drem sta utilizzando per bruciare le radici che imprigionano Merlin :)

Buone feste e buon anno nuovo, ci vediamo lunedì :)

Asfo


   
 
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