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Autore: flawmitchie    07/01/2015    0 recensioni
Il lupo mi osserva da lontano, segue le mie mosse, imita i miei passi.
So che vuole avermi, sono la sua preda e un giorno mi catturerà.
Sono cappuccetto rosso, non dovrei dar retta al lupo, ma la sua voce mi ammalia,
il suo respiro mi accudisce mentre le sue braccia mi stringono sempre più forte fino a mozzarmi il respiro.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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1 .


Untitled

 

Tre anni dopo

 
Quel giorno la biblioteca era parecchio affollata, ma fortunatamente a nessuno serviva il mio aiuto. Coloro che riempivano quella grande scatola di cemento colma di libri erano tutti studenti universitari che studiavano seduti ai tavoli, e quindi che non dovevano prendere nessun volume in prestito. Posai il cartellino con su scritto in pausa ed uscii nel giardino sul retro per fumare una sigaretta. Quel posto aveva bisogno di essere sistemato, l’erba era troppo alta e stava crescendo anche sopra alle panchine di marmo e fra le spaccature delle piastrelle a terra, c’era un po’ di muschio qua e la e un ramo dell’unico albero che era stato piantato lì decenni prima era troppo vicino a una finestra. Sentii due colpi sulla mia spalla e mi voltai. Appena lo vidi sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi. Lo strinsi in un abbraccio stando attenta a non bruciargli la maglietta con la sigaretta.
“Paul, quando sei arrivato?” Domandai asciugandomi le guance. Sorrise.
“Ora.” Fu tutto ciò che riuscì a dire. Stava cercando di non piangere, cosa che io non ero riuscita a fare. Rimanemmo in silenzio per un po’. Gli porsi una sigaretta e si mise a fumare accanto a me. Non lo vedevo da nove mesi, da quando era partito in missione. Quando nostra madre si era ammalata lui si era subito fatto raccomandare per entrare nell’esercito, mi aveva detto che dovevamo prenderci cura l’uno dell’altra e che quello era l’unico modo per guadagnare un buon stipendio e avere la mente occupata. Col passare del tempo era partito diverse volte ed io ero rimasta al fianco di mia madre, e a volte, giuro, avrei preferito essere partita al posto di mio fratello invece di accudirla mentre lentamente si spegneva e forse un po’ lo odiavo per avermi abbandonata in quel modo.
“A volte vorrei che tu non fossi mai andato via.” Lo dissi con un sussurro. Si voltò ma rimase in silenzio. “Ma so che altrimenti non ce l’avremmo fatta. Tu non sai com’è stato vederla mentre se ne andava.” Ovviamente era cambiata l’atmosfera e per l’ennesima volta era colpa mia. Lanciai la sigaretta e rientrai scoprendo di esser stata fuori mezz’ora e che oramai il mio turno era finito. Neal mi guardava confuso. “Mer, che diavolo succed…”Non riuscì a finire la frase perché vide Paul rientrare dietro di me e cercò di fare un sorriso decente, senza arrossire. Quando mio fratello sparì dietro la porta principale della biblioteca mi avvicinai al mio amico con un ghigno in viso.
“Discreto, Watson.” Cercavo di non ridere. Mi fulminò con i suoi grandi occhioni azzurri da cerbiatto che spuntavano da dietro gli occhiali da sole color turchese. Si sistemò il ciuffo castano e mi rivolse un sorriso.
“Un giorno quell’uomo sarà Paul David Ross Watson.”
“Perché non solo ‘Paul Watson’?” Domandai con fare di presa in giro. Alzò gli occhi al cielo.
“Perché è più romantico! Meredith Ross ti devo spiegare tutto.” Fece una pausa per poi cambiare tono. “Che è successo là dietro?”
Abbassai lo sguardo. Non potevo mentirgli, se ne sarebbe accorto subito. “Nulla di nuovo.”
“Non puoi torturarlo così ogni volta che viene…”
“Sei di parte, non puoi parlare.”
“Sono solo dalla TUA di parte. Lui è l’unica persona che ti resta, e non rispondermi che c’è nonna Mary, perché non la vedi da quando…” Mi guardò dritto negli occhi. “da quando è successo.”
Tirai un respiro profondo, gli diedi un bacio sulla guancia, presi la mia borsa e me ne andai. Non ce la facevo a sentirne parlare ancora. Era passato un anno, anche se a me sembrava fossero trascorse solo due ore e non era giusto, mi sembrava di essere l’unica a soffrire quando per Neal lei era stata come una madre, visto che si era trasferito da noi dopo esser stato cacciato di casa, e Paul era davvero suo figlio e non mostrava mai un minimo accenno di dolore quando ci parlavo.
Dovevo arrivare a casa. Avevo bisogno di stare da sola dentro casa mia.
 
Il suono del campanello mi svegliò. Scesi di corsa e andai ad aprire la porta. Rimasi impietrita quando vidi un viso familiare che mi guardava con due occhi verdi come degli smeraldi. Mi sorrise. Ricambiai imbarazzata.
“Hai cambiato la serratura.” Osservò mio fratello spuntando da dietro il ragazzo. Sbuffai.
“Questa è casa mia.”
“Mer ci vuoi costringere davvero a stare al Daisy Motel?” Cosa voleva dire quel ‘ci’?
“Come, scusa?” Domandai cercando di non sembrare sorpresa, ma infastidita.
“Lui è John Lincoln, un mio… compagno di ‘viaggio’ diciamo” L’altro ridacchiò. “Restiamo un po’ in città, ci ospiti, per favore?” Domandò cercando di essere dolce. Gli feci spazio ed entrarono sbattendo la porta.
“Sei di qui?” Domandai a John senza nemmeno accorgermene. Scosse la testa.
“Washington.” Tagliò corto. 
“Dove dormiamo?” Chiese Paul infastidito. Cercai di non perdere le staffe.
“Io sto in camera di mamma. Voi potete usare le altre due camere.” Mi guardò interdetto. “Mi sono trasferita in camera sua, si. Adesso vi saluto che devo uscire.” Dissi con un tono abbastanza alto e uscii di casa, dopo aver preso la mia borsa.
Digitai il numero di Alice. “Ti prego dimmi che sei libera.” La implorai.
“Ci vediamo al Grill.” Riagganciò. Mi voltai verso la casa e notai qualcosa di strano. Guardando più attentamente mi accorsi che John mi fissava dalla finestra di quella che un tempo era stata camera mia. Rabbrividii e mi incamminai.
 
Cercai di togliermi dalla testa l’immagine dell’amico di mio fratello che mi osservava dalla finestra in modo inquietante. Non aveva importanza interrogarsi sulla sua identità, non aveva senso immischiarsi negli affari di mio fratello. Era strano che avesse portato con sé un suo commilitone, negli anni precedenti non l’aveva mai fatto, ma mi convinsi che fosse per via di mia madre, e forse della vergogna che provava nel far entrare uno sconosciuto nella sua vita, nella casa di una donna la cui vita scivolava via velocemente. Anche se forse i suoi compagni ‘di viaggio’, come li chiamava lui, lo conoscevano meglio di me, perché vivevano con lui, condividevano paure e ricordi e affrontavano situazioni fin troppo difficili insieme. E lì mi infuriai maggiormente, perché non comprendevo il bisogno di mio fratello di scappare dalla sofferenza di nostra madre andando ad incontrare quella di una moltitudine di altre persone. Come poteva soffocare il dolore della perdita vedendo ogni giorno quella di altri.
Alzai lo sguardo e proprio in quel momento mi accorsi che Alice si stava sedendo al tavolo. Era di fronte a me e ci stavamo guardando negli occhi. Bastava il silenzio per comprenderci. Lei era forse l’unica persona che sapeva come mi sentivo. Sua madre era stata in cura a Portland insieme alla mia, Annabeth si chiamava, e l’aveva lasciata undici mesi prima che mia madre se ne andasse. Era successo tutto così in fretta, eravamo nella stanza con loro, ad un certo punto ha smesso di respirare, Alice ha cominciato ad urlare, a prenderle il viso fra le mani, la chiamava mentre i dottori la circondavano. Mamma era stordita dagli antidolorifici, mi chiese cosa succedeva e le riuscii solo a dire “Annabeth se ne sta andando” e in quel momento la mia amica si mise le mani fra i capelli e cadde sulle ginocchia. La sentivo singhiozzare e la vedevo muoversi a scatti, come se avesse le convulsioni, mi pareva di essere l’unica che riusciva a vederla, mentre mia madre cercava di chiamare la sua compagna di stanza con fiochi sussurri. Quando vedevo Alice questo era ciò che mi veniva in mente, di nuovo, ogni volta, come per ricordarmi il dolore che ci accomunava. Il destino era stato crudele per lei, perché due mesi dopo si presentarono a casa sua degli ufficiali, lei credeva che fosse suo fratello, il quale –fatalità- era in missione col mio, ma tutto ciò che riuscì a stringere fra le braccia fu la lettera di addio che lui aveva scritto, nel caso fosse morto. Al suo funerale Paul non si presentò, rimase al pub a bere, come ogni volta che tornava a casa. Il mattino lo trovammo steso fra i bidoni della spazzatura e, mentre lo riportavo a casa con l’aiuto di Neal, notai che al collo aveva la piastrina di Curtis, il fratello di Annabeth.
“Ho litigato con Paul.” Tagliai corto sentendomi maledettamente in colpa. Ogni volta mi venivo a confidare con lei che, se avesse la possibilità di riavere con sé suo fratello, non avrebbe perso tempo a litigarci.
“Di nuovo.” Mormorò cercando di confortandomi strofinando la sua mano sulla mia.
“Mi dispiace…” Fece un sorriso amaro. Scosse la testa e tirò su col naso mentre si asciugava una lacrima con l’altra mano.
“Non devi dirlo a me, io e Curtis litigavamo sempre, e se lui fosse ancora qui fra di noi sarebbe peggio che fra voi.” Scoppiai a piangere. Si alzò dalla sedia e si piegò accanto a me, per poi abbracciarmi forte.
“Non odiarmi.” Rise.
“Ma lo sai che ti odio! Infatti ti odio così tanto che ti sono venuta a consolare. Se ciò che succede nella tua vita mi desse il minimo fastidio te lo direi, non mi presenterei qui per farmelo raccontare tutto per filo e per segno ogni volta che succede qualcosa.”
Mi scostò una ciocca di capelli dal viso e mi guardò dritto negli occhi, poi li chiuse e posò la sua fronte sulla mia. “Noi siamo sorelle, lo sai. Puoi dirmi tutto.”
Ed era veramente così.
  
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