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Autore: Rosebud_secret    18/01/2015    1 recensioni
“Qui dentro ci sono trenta pezzi d’argento. Sono il pagamento per la tua anima e li terrai con te per tutta la vita. Con essi potrai contrattare altri benefici che potranno costarti più o meno pezzi a seconda della richiesta. Potrai diventare il miglior chitarrista del mondo, o persino il Presidente degli Stati Uniti, se questa è la tua aspirazione. Ed ora il punto forte della questione: se tu dovessi morire, senza aver speso l’ultimo pezzo d’argento, la tua anima sarà libera.”
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La fiammella danzava trascinata dal vento di quell’afosa sera di metà Agosto. Il cielo era plumbeo e l’alone rossastro del sole ormai quasi del tutto tramontato conferiva alla strada un aspetto opprimente. Non aveva mai amato New Orleans, ma ormai si era rassegnato all’idea che quella sudicia, rovente e afosa città del sud sarebbe stata la sua casa per l’eternità. Guardò distrattamente un giovane musicista trascinare la custodia della chitarra lungo la strada deserta. Un altro povero diavolo diretto a Bourbon Street, o magari a Frenchman Street, nella speranza di tirar su qualche soldo o forse un po’ di fama.
Era una triste ed amara realtà quella di New Orleans, fatta di ubriachi, puttane e turisti che riempivano il quartiere di una melodia di sogni infranti.
Lucien vi era arrivato oltre due secoli prima, aveva visto i massacri degli schiavi, ad alcuni aveva persino partecipato, più per dovere che per pregiudizi razziali, e questo aveva segnato la sua condanna.
Ad ogni modo, per quanto il progresso fosse lentamente arrivato anche al sud, a lui quella palude putrida appariva sempre uguale: ricca di decadenza e il perfetto luogo di caccia. Se solo non fosse stato tanto stanco di farlo.

Distolse lo sguardo da quel giovane che tanto gli ricordava un altro volto, attirato dall’intenso gracchiare del grosso corvo nero che, sbattacchiando le grandi ali, si era posato sul palo arzigogolato che reggeva quel lampione a gas. Era una peculiarità del Quartiere Francese avere un’illuminazione così demodé, come a voler rappresentare che, per quanto il mondo avesse raggiunto il XXI secolo, certe cose non sarebbero mai cambiate.

“Sono in pausa.”

“Cra!”, ribatté il corvo, scrutandolo dall’alto con i suoi piccoli occhi rossi.

“Quello va bene? È solo un ragazzino.”, sospirò Lucien, non per buon cuore, quanto perché non ne aveva alcuna voglia.

Il corvo non emise alcun altro verso e si alzò in volo per tornare da dove era venuto.
Lucien strinse le spalle con rassegnazione e si sistemò i capelli bruni, prima di incamminarsi a passo lento dietro al giovane. Lo studiò con attenzione, per quanto da secoli gli apparissero tutti uguali. Con amarezza riconobbe di esser diventato ancor più decadente di quella pidocchiosa città.

“Ehi, tu, chitarrista!”, lo chiamò.

Il giovane si voltò, mostrando un viso pulito tra gli scarmigliati capelli corvini. Aveva occhi splendenti, di un azzurro intenso, ed era davvero grazioso.
“Dice a me?”

E aveva anche maniere educate: una caratteristica non scontata per le strade di New Orleans. Gli si avvicinò, sfoderando uno di quei sorrisi smaglianti che avevano irretito più persone di quante ne ricordasse.
“Vedi qualcun altro?”

Il ragazzo si guardò attorno e rabbrividì nel notare che quella traversa era del tutto deserta. Era appena arrivato in città con i pochi risparmi di ben cinque anni e stava cercando un qualsiasi locale per mostrare il suo talento, ma era solo riuscito a perdersi.
“No.”, rispose, esitante, “Sa per caso indicarmi la strada per Bourbon Street?”

“Se vuoi, ma potrei anche avere di meglio da offrirti.”, disse Lucien senza accennare a far sparire il sorriso, “Perché non tiri fuori la chitarra e mi fai sentire che sai fare?”

“Qui?”

Lucien spalancò le braccia, accomodante.
“Siamo nella città della musica. Si suona ovunque e a tutte le ore.”

L’altro esitò ancora un istante, pieno di timore e di incertezza, poi si sedette sul gradino dell’entrata di un negozio chiuso e tirò fuori la sua vecchia chitarra semiacustica dalla custodia.
Cominciò a suonare e a cantare una versione maldestra di Henry Lee¹ che risultò essere misera e priva della benché minima interpretazione, per quanto ci fosse un po’ di sentimento. Senza contare che scegliere un duetto da cantare in solo era davvero una pessima idea.

“Splendido.”, mentì Lucien, dopo avergli concesso un breve applauso, “Come ti chiami?”

“Jonathan.”, rispose il giovane, affrettandosi a metter via lo strumento.
C’era qualcosa nell’altro che lo metteva a disagio. Appariva distinto in quel completo grigio fumo, ed era bello, molto bello, per quanto avesse già superato la trentina, ma nonostante questo c’era una luce predatoria nei suoi occhi scuri.
“Può dirmi dov’è Bourbon Street?”, domandò di nuovo, ficcando le mani nelle tasche dei jeans consunti.

“Tu suonerai per me, stanotte.”, ribatté Lucien, fermando con un cenno uno dei calesse che venivano usati per lo più dai turisti. Era un mezzo imponente, di legno verniciato di nero e intarsiato con gradevoli decorazioni.
“Sali.”

E Jonathan, per quanto titubante e spaventato, non poté fare a meno di accettare l’invito. Quasi inconsapevolmente si accomodò sul divanetto della carrozza e si rese conto di averlo fatto solo quando il mezzo era già in marcia da tempo. Lo sconosciuto gli sedeva di fronte con le gambe accavallate e un braccio mollemente appoggiato allo schienale. Continuava a sorridere e questo, se possibile, lo allarmò ancora di più. Sarebbe bastato un attimo per balzare giù dal calesse e scappare via, eppure una forza che non riusciva a spiegarsi sembrava tenerlo ancorato a quel divanetto.

“Allora, Jonathan, da dove vieni? Il tuo accento non è del sud.”

Fu per un labile istante, ma il ragazzo ebbe come l’impressione che i suoi occhi avessero brillato come quelli di un gatto, quando erano passati sotto all’ennesimo lampione a gas. Deglutì e si rimproverò: era vero che, durante il pomeriggio, aveva visitato un paio di quei negozietti voodoo che si incrociano in ogni strada, ma l’aveva fatto per curiosità. Lui non credeva a quelle cose.

“Da Portland.”

“Maine?”, domandò Lucien.

“No, Oregon.”

“Un bel viaggio. Cosa ti porta a New Orleans? Sei qui per restare?”

Jonathan si mosse nervosamente sul divanetto, torcendosi le mani per il nervosismo. Stava sudando molto e sentiva che non era colpa dei quarantadue gradi di quella notte. Avrebbe tanto voluto farsi una canna per stemperare la tensione, ma non aveva nulla.
“Starò qui per un mese. Era il mio sogno venire a suonare dove tutto è cominciato. Questa città è la patria del Blues, del Soul, del Jazz…”, spiegò, “Magari potrei avere la mia chance, ottenere un ingaggio...”

“La tua chance è già arrivata.”, rispose Lucien, sfilandosi un bigliettino da visita dal taschino della giacca grigia.

Jonathan lo prese e si sentì ancor più a disagio quando, sfiorate le sue dita, si rese conto che erano gelide.
“Lucien Laurent, agente. 333 Rue de la Perdition.”, bofonchiò a mezza voce, “Di che si tratta?”, chiese, ora più interessato che spaventato.

“Per il momento ancora di nulla. Come ti ho detto: suonerai per me, questa sera. In un piccolo circolo. Da domani, se sarai interessato, stileremo un contratto ed io ti troverò degli ingaggi in altri locali. Posso trovarti anche dei musicisti d’appoggio.”

“Quanto… quanto devo pagare per questo? Non ho soldi. Cioè, ho solo quelli per pagarmi l’appartamento e comunque non sono molti.”

“Questa sera è un giro di prova gratuito. Se domani mi interesserai ancora, prenderò una percentuale del 25% dalle mance che riceverai ad ogni ingaggio. Tutto sommato mi appare una proposta abbastanza onesta.”

“S-sì, penso di sì… perché io?”

Lucien sorrise ancora una volta.
“Ho un certo sesto senso, ma se preferisci una risposta più professionale: sei giovane, di bell’aspetto, se poi sei anche talentuoso. Basterà tirarti un po’ a lucido per poter fare di te un prodotto vendibile non solo a qualche bettola, ma magari persino ad un’etichetta discografica. Ma è prematuro parlare di questo.”

“Non sono il prodotto di vendita di nessuno. E non mi piace affatto la piega che sta prendendo questo discorso, signor Laurent.”

L’altro non fece una piega.
“Ah, gli ideali! Sono una gran bella cosa, Jonathan, ma un messaggio dev’essere venduto perché qualcuno lo ascolti. Nessuno da peso alle cose gratis, men che meno se a donarle sono degli emeriti sconosciuti. Hai bisogno di qualcuno come me.”

Il ragazzo rimase in silenzio per qualche istante, incerto.
“Proveremo questa sera, ma se sento un’aria che non mi piace, me ne vado, chiaro?”

“Ci mancherebbe.”, annuì Lucien, per poi rivolgersi al conducente della carrozza: “Svolta a sinistra e fermati a metà viale, siamo arrivati.”

Jonathan guardò con rinnovata paura gli alberi dalle lunghe frasche che stavano ai due lati di quell’ennesima strada deserta. Si erano spostati parecchio dal Quartiere Francese e quando guardò l’orologio notò che erano già le 22.30, era trascorsa un’ora e mezza.

“Non preoccuparti.”, lo rassicurò Lucien, scendendo dalla carrozza, “Ti riaccompagno io a casa, dopo.”

Lo seguì, sempre più incerto, e si preoccupò all’udire il cavallo nitrire di spavento, quando il suo inquietante anfitrione gli passò vicino.
Lucien si voltò verso il ronzino, e questo mosse qualche rapido passo indietro, prima di impennarsi e stramazzare al suolo, ribaltando la vettura. L’animale aveva il petto scosso dall’affanno e il cocchiere era nel panico.

“Andiamo.”, sentenziò Lucien, posando una mano sulla schiena del giovane per indurlo a camminare, “Non sono un nostro problema.”

“Cos’è successo al cavallo?”, domandò Jonathan, continuando a voltarsi indietro.

“Quelle povere bestie vengono sfruttate allo stremo. Non è troppo strano che, di tanto in tanto, ne muoia qualcuna per la fatica.”

“A me è sembrato terrorizzato, non stanco…”

“Siamo arrivati.”, lo ignorò Lucien, scostando un basso cancello in ferro battuto che apriva la strada al lungo vialetto di una grande villa padronale sudista. Era un’abitazione imponente, costruita in legno e alta tre piani.

Jonathan si strinse nelle spalle e la guardò con timore. Quel posto faceva paura. Un alito di vento scostò le frasche delle piante rampicanti che pendevano dalle facciate, e non poté fare a meno di udire il tintinnio di decine e decine di collane variopinte, lasciate lì appese dal Mardi Gras².
Lucien lo anticipò sulla veranda e picchiò tre colpi col battiporta. Una bella donna di colore aprì l’uscio e salutò calorosamente il suo anfitrione.

“E tu chi sei?”, domandò al giovane.

“Jonathan Tompson, piacere.”

“Un nuovo talento, eh? Lucien, ha sempre buon occhio. Io sono Chantal. Venite, la festa è appena cominciata e siete i benvenuti.”

L’ambiente all’interno era ricco ed accogliente. Un grande salone ben illuminato si apriva al di là del piccolo corridoio dove Lucien lasciò la giacca del completo. C’erano una ventina di persone di etnia mista, tutte vestite in modo distinto ed elegante. Jonathan si sentì un pesce fuor d’acqua ed era sul punto di comunicare la sua intenzione di andarsene quando si accorse di esser rimasto solo.
Chantal lo raggiunse e lo prese a braccetto.
“Ci serve qualcuno che ci allieti la serata.”, disse, conducendolo verso la vetrata di fronte a cui era stato allestito un piccolo palco, “Lascia pure a me la tua chitarra, la metterò nell’ingresso. Puoi usare la nostra.”, aggiunse, sfilandogli la custodia da sopra alla spalla.

Jonathan sbarrò gli occhi quando mise a fuoco la Gibson semiacustica modificata che lo aspettava sul supporto accanto all’asta del microfono.

“Offriamo solo il meglio ai nostri musicisti.”, sorrise la donna, prima di allontanarsi.

Esitante il ragazzo sollevò lo strumento e lo soppesò quasi con reverenziale timore. Stava stringendo un sogno tra le dita, uno strumento che non avrebbe mai potuto permettersi in tutta la vita. I suoi occhi vagarono per la stanza alla ricerca di Lucien, ma l’uomo sembrava essere svanito nel nulla. Non era al buffet, né al bar, né insieme agli altri invitati che facevano gruppetto vicino ai divanetti.
Decise di sedersi comunque sullo sgabello e, sfilatosi il plettro dalla tasca, vibrò le corde per assicurarsi che lo strumento fosse accordato.

“Ehm… buonasera a tutti.”, salutò, avvicinando la bocca al microfono, “Non ero preparato per questo ma, insomma… spero comunque di offrirvi una buona serata.”

Ci fu un breve applauso da parte di qualcuno dei presenti, al termine del quale si decise a cominciare a suonare. Non erano molti i pezzi che ricordava a memoria, ma erano sufficienti per cominciare. Al limite, durante una pausa, sarebbe andato a prendere le partiture nella custodia.
Suonare lo tranquillizzò e, ad ogni nuovo brano apprezzato dal pubblico, la sua autostima si rinvigorì un po’. Aveva terminato il settimo pezzo e cominciato l’ottavo, una sua cover di The night they Drove Old Dixie down³, quando, sollevato lo sguardo, scorse di nuovo Lucien: era appoggiato al bancone del bar e stava sorseggiando un drink. Era sicuramente attraente in camicia e cravatta, quasi magnetico. E, cosa che lo mise ancor più in imbarazzo: lo stava fissando con intensità.
Quando lo stridere della chitarra gli palesò che aveva sbagliato un accordo decise di distogliere lo sguardo. Proprio mentre un alto uomo di colore, in giacca, tuba e occhiali scuri raggiungeva Lucien.


“Hai trovato una creaturina davvero graziosa, questa volta. E queste illusioni! C’è lo zampino di Chantal, ma tu, Lucien, sei davvero il mio agente migliore.”

“Mi avevi garantito un periodo di sosta.”, ribatté l’altro, voltandosi, “Sono stanco, Samedi.”

“Avrai il tuo riposo quando io lo deciderò. Ma adesso basta con questo strazio. Sarà anche vezzoso, ma suona da schifo. Mettiti al lavoro.”




Un gemito di dolore sfuggì alle labbra di Jonathan, quando riaprì gli occhi. Era a letto, nel suo letto. O, per meglio dire, in quello del pidocchioso monolocale che aveva affittato per l’intero mese. La testa gli doleva terribilmente e non aveva idea di come si fosse conclusa la serata, né di come fosse rientrato. Si tirò a sedere e caracollò giù dal letto di corsa, raggiungendo il bagno per miracolo, prima di rimettere anche l’anima.
Ansante crollò in ginocchio abbracciato alla tazza. Non era mai stato un campione di assennatezza nella vita, quindi non era la prima volta che si ritrovava in quella condizione, ma quel malessere non l’aveva mai provato prima, neanche dopo le più terribili sbronze.
I ricordi cominciarono lentamente a riaffiorare, anche se lenti e parziali: aveva suonato per quasi due ore, poi Lucien e Chantal lo avevano invitato al piano di sopra, in una saletta più piccola, dove avevano bevuto e fumato qualcosa, forse crack. Ed ecco spiegato il perché si sentiva di merda. Si rimproverò come molte altre volte aveva fatto a Portland e pregò che Thomas, il suo ragazzo, non venisse mai a saperlo.

“Cazzo, Thomas!”, imprecò, sbattendosi una mano sulla fronte.

Si rialzò e si diede una ripulita sommaria al lavandino, prima di tornare nell’altra stanza e rovistare tre le sue cose ammassate, in cerca del cellulare.
Trentadue chiamate perse.
Si affrettò a richiamarlo.
“Pronto, amore! Oddio, scusa non ho davvero sentito il telefono! Che? No. No! Non mi sono fatto di nuovo, lo giuro. La voce, ah, è così solo perché ho bevuto un pochino, sai?, ieri ho incontrato un tizio, un agente e…”, bene o male gli raccontò quel che era successo, inventando buona parte del fine serata.
“Mh, il tizio si chiama… aspetta.”, raccattò i jeans, arrotolati nell’angolo basso del letto e tirò fuori il biglietto da visita, “Lucien Laurent. No, non l’ho googlato. Ho te per questo. Dai, mi ributto a letto. Sono un vero rottame. No! No, non dovrai venire qui a raccogliermi col cucchiaino. Sto bene, Thomas, non cominciare a fare la chioccia! Ti amo anch’io.”

Chiuse la comunicazione e gettò il telefono sul comodino, prima di lasciarsi cadere sul letto a peso morto.
La testa continuava a mandargli violente fitte, nonostante questo, riprese sonno non appena chiusi gli occhi.
Strani sogni costellarono il suo riposo. Un violino suonava in sottofondo, poi corpi, tanti corpi nudi, l’ebrezza del piacere, la perversione dell’essere dominato e posseduto innumerevoli volte, poi il dolore e il rosso del sangue. Il suo? Quello altrui?
Scattò a sedere quando il suono insistente del campanello ruppe il suo sonno. Ancora sconcertato da quell’incubo si avvicinò alla porta e la socchiuse appena per ritrovarsi di fronte il sorriso di Lucien.

“Sei di nuovo in piedi.”, l’udì commentare.

Jonathan si fece da parte, lasciandolo entrare.
“Che è successo ieri notte? Come sono tornato qui?”

“Ti ci ho portato di peso, dopo che ti sei addormentato alla festa. Hai qualche problema a gestire droga e alcool, dico bene?”, rispose Lucien, passando un dito sulla libreria polverosa.

“Io…”

“Non prendermi per un moralista: non me ne importa nulla, fintanto che resterai sobrio mentre lavori. Prima e dopo puoi fare quel che preferisci.”

“Che altro è successo? Non ricordo assolutamente nulla e non mi è mai successo, signor Laurent.”

“Ieri notte mi chiamavi Lucien.”

Un brivido scosse la schiena del giovane.
“Qualunque cosa abbia fatto con te è stato...!”

“Temo che tu abbia frainteso. L’unica che è rimasta ferita, e solo nell’orgoglio peraltro, è stata Chantal, quando le hai non troppo carinamente riferito che fotti solo con gli uomini. Parole tue. Per quel che mi riguarda, non mescolo sesso e lavoro. Ma penso di non sbagliare se ipotizzo che tu abbia fatto ben più di un pensiero su di me. Forse lo stai facendo persino adesso.”

Lucien gli si avvicinò, fermandosi ad un passo da lui. Jonathan serrò i pugni, e si maledì, perché per quanto cercasse di negarlo quel bastardo era estremamente attraente.

“Ti sbagli.”, sbottò a fiato corto.

Quello che l’altro gli rivolse fu più simile a un sogghigno che ad un sorriso.
“Poco importa. Qui c’è la lista dei locali in cui suonerai in serata.”, disse, mettendogli in mano due fogli e tornando verso la porta.

“Non voglio lavorare per te.”

“Dovevi pensarci prima di firmare il contratto, ieri sera. Te ne ho stampata una copia. Fatti una doccia e raditi, ti aspetto in macchina.”



Non andarono in nessun’altra casa assurda e questo rincuorò non poco Jonathan che suonò splendidamente per tutta la sera, come non aveva mai fatto nella vita. Ma era troppo emozionato dagli applausi e dal barattolo delle mance che si riempiva sempre di più ad ogni nuovo locale per rendersene conto.

“Non mi sembra andata male.”, commentò Lucien, quando furono di nuovo in macchina.

“Trecentocinque, trecentosei, trecentosette… trecentosette dollari e ottantanove centesimi!”, gioì il ragazzo, finendo di contare i soldi, “Non avevo mai fatto così tanto solo con la musica! Quant’è la tua parte?”

“Circa ottanta dollari, ma per il momento puoi tenerteli. Consideralo un incentivo. Sono solo briciole, sono ben altri gli incassi che mi aspetto di ottenere con te.”

“Bhe, grazie, amico. Senti, siamo partiti col piede sbagliato. Cristo, ti ho persino accusato di…”

“Tutto dimenticato.”, lo interruppe Lucien, accostando di fronte al palazzo scalcagnato dove l’altro aveva trovato alloggio.

“Senti… ti va di salire? La casa l’hai vista, è un casino, ma una birra posso comunque offrirtela.”

L’altro si limitò ad annuire ed insieme raggiunsero il secondo piano dello stabile.

“Merda, il frigo è rotto!”, imprecò Jonathan, “Non me n’ero accorto. Birra calda?”, domandò, grattandosi la nuca per l’imbarazzo.

“Ti prego, no.”, rispose Lucien con una risata, prima di sfilarsi la giacca e sedersi sul letto sfatto.

“Da quanto fai questo lavoro?”

“A volte mi sembrano secoli.”

Il cellulare di Jonathan trillò brevemente e il ragazzo controllò il messaggio. Era di Thomas, che a Portland si era appena alzato.
“Ho fatto qualche ricerca. Lucien Laurent sembra un fantasma, non ha un sito, una pagina Facebook. Niente di niente. Non mi piace.”
Si rimise il telefono in tasca.
“Ti ho googlato e non ho trovato nulla su di te. Sulla rete non esisti.”

Lucien sorrise.
“Sono un tipo all’antica. Non mi piacciono i computer, preferisco lavorare alla vecchia maniera e prendere direttamente contatto con i proprietari dei locali.”, allungò una mano e sfilò una piccola agendina nera dalla tasca interna della giacca, “Ho tutto qui.”

“Quando andiamo in Bourbon Street?”

L’altro sbuffò.
“Quella strada è sopravvalutata. Roba per turisti, se vuoi ti ci porto, ma ne resterai molto deluso. È caotica, frivola e piena di ubriachi a tutte le ore. Se New Orleans puzza di fogna e vomito, Bourbon Street è molto peggio.”

“Ma potrei fare più soldi.”

Lucien si rialzò e reindossò la giacca.
“Non essere veniale. Ci vediamo domani sera alle nove.”

“Di mattina?!”, esclamò Jonathan, spaventato all’idea di doversi alzare da lì a tre ore.

“Ho detto sera. Non lavoro di giorno.”

Si chiuse la porta alle spalle e scese in strada, animato da un bisogno che non sentiva così vivo da molto tempo. Aveva sete, una sete incontenibile. Colpa di quel ragazzino, probabilmente. Gli piaceva. Certo, come al gatto piace giocare con il topo, ma l’idea di non poterlo neppure sfiorare per non venir meno al suo stesso codice lavorativo, o piuttosto ad un bizzarro senso di fedeltà, lo rendeva frustrato. Era un ricordo quello che lo aveva scosso. Niente più che una pallida somiglianza, ma, a quanto pare, era stata sufficiente.
Salì in macchina, deciso ad ignorare la sensazione e tornare a casa, quando vide una ragazza camminare da sola sul marciapiede.
Accostò e abbassò il finestrino.

“Ti serve un passaggio?”, le chiese con voce suadente.

La giovane esitò un poco, ma Lucien già sapeva che avrebbe accettato. Ammaliare le menti era uno dei suoi tanti talenti, se tali potevano essere definiti.
Quando si fu seduta in macchina non si preoccupò neppure di poter sporcare i sedili in pelle e si avventò su di lei.
Sentire il sangue scorrere nella sua gola, una volta che le ebbe affondato i canini aguzzi nella giugulare gli fece provare un antico brivido di piacere. C’era sempre qualcosa di erotico nel nutrirsi della vita di qualcun altro, anche se non si sentiva così voglioso da tanto, troppo tempo.
Frustrato lasciò andare il corpo ormai esanime della sciagurata e colpì il volante con una manata, rendendosi conto di essere tutt’altro che sazio. Nonostante questo resistette alla tentazione di tornare da Jonathan e mise in moto.
Mancava poco meno di mezz’ora all’alba, il che voleva dire che avrebbe dovuto tenersi il cadavere di quella stupida in macchina sino alla sera dopo. E con quaranta gradi di notte.

“Merde!”




Thomas sedeva di fronte ad uno dei computer della sala multimediale dell’ateneo con ben poca voglia di studiare e molta preoccupazione per Jonathan. Se era vero che l’aveva appoggiato nella sua folle idea di partire per New Orleans, era anche vero che se n’era profondamente pentito. Non stavano insieme da molto, ma ci erano voluti mesi per raccattare i pezzi del suo compagno e riportarlo ad una precaria condizione di sobrietà.
Sbuffò, cliccando sulla barra di ricerca di Google, e digitò ancora il nome di Lucien Laurent. Solo dopo si accorse che il professor Morris era alle sue spalle. Si voltò per dirgli che faceva parte di una ricerca, ma non aprì neppure bocca quando vide il suo volto sbiancare. Era un uomo bizzarro, Richard Morris, solitario e taciturno. Non aveva una moglie, né delle frequentazioni, cosa che infondeva speranza in molte audaci studentesse che lui non considerava affatto.

“Che sta facendo, O'Neal?”, lo sentì chiedere con tono basso, quasi minaccioso.

Thomas lo osservò meglio: si era irrigidito e teneva i pugni serrati con tanta forza che le nocche gli si erano sbiancate.

“S-solo una ricerca per il mio ragazzo, ma se le serve questo terminale…”

Il professore gli voltò le spalle tanto bruscamente che la sciarpa di seta che portava sempre al collo schioccò nell’aria. Thomas raccattò frettolosamente i libri che aveva sul tavolo e lo rincorse.
“Professore! Professore, si fermi!”

“Nel mio ufficio.”, ribatté lui senza rallentare.

“Che sta succedendo? Conosce Lucien Laurent?”, insistette Thomas, allungando il passo.

L’altro non rispose e spalancò la porta del suo ufficio, facendogli cenno di entrare. Con il panico negli occhi si guardò intorno, spaventato, prima di chiudere l’uscio e sedersi alla scrivania.
“In che modo hai a che fare con lui? Dove lo hai conosciuto?”, andò dritto al punto, aprendo il cassetto centrale e stringendo in mano un sacchettino di velluto nero.

Il giovane fissò l’insegnate con rinnovato panico. Era inusuale scorgere anche solo l’ombra di una qualsivoglia emozione sul suo volto. Era una delle cose che rendevano quell’uomo sulla quarantina bello e affascinante al tempo stesso, ma Thomas non aveva una cotta per lui, per quanto avesse ammesso con Jonathan che un giro con il prof se lo sarebbe fatto volentieri, all’occasione.
No, Thomas in quel momento aveva solo paura.

“Gliel’ho detto: è per il mio…”

“Come e dove?”, lo interruppe di nuovo Morris, e, in quella circostanza, l’accento del sud che aveva tanto a lungo cercato di cancellare tornò fuori, incontrollato.

“Jonathan ha conosciuto questo strano tizio a New Orleans. Gli ha detto di essere un agente, o qualcosa del genere. Lei lo conosce? È pericoloso?”

L’uomo si alzò e recuperò un volume dalla libreria alle sue spalle e glielo spalancò davanti agli occhi.
“Assomiglia a questo?”, domandò, puntando il dito sulla foto di un ritratto antico.

Thomas sbatté le palpebre, sconcertato.
“Ma che sta dicendo?”, esclamò, “Perché mai dovrebbe assomigliare a un tizio dell’800?”

“Risponda alla domanda!”

“Non lo so! Io non l’ho ma visto! Vuole spiegarmi?”

“No. Fuori, O'Neal.”

Il ragazzo non se lo fece ripetere e uscì dall’ufficio senza neppure prendere i libri. Lasciò l’ateneo di corsa e salì in macchina, diretto all’aeroporto.
Morris invece, rimase seduto a lungo alla scrivania, incerto su cosa fare. Con mani tremanti rovesciò il contenuto del sacchettino sul libro e fissò con insistenza le pepite d’argento brillante che ricoprivano il volto di Laurent. Ne prese uno, lo soppesò tra le dita, prima di stringerlo nel pugno.
Cinque, gliene restavano solo cinque.




“È libero?”, domandò Jonathan, avvicinandosi al taxi.

Il tizio al volante annuì e lui si accomodò. Teneva stretto tra le dita un foglio di giornale con un trafiletto sulla morte del cavallo che aveva portato lui e Lucien a quella strana villa, solo una settimana prima.
Era stato un vero caso il fatto che gli fosse volato praticamente in faccia mentre usciva di casa per andare a comprare qualcosa da mangiare.
Disse l’indirizzo al tassista, dopo averlo guardato, poi lesse le poche righe. Il cocchiere era sotto processo per maltrattamento di animali, ma lui ricordava bene quel che era successo. Il cavallo stava bene, sembrava in forze e in salute. Si sentiva un po’ un idiota ad imputare la colpa della sua morte a Lucien, ma qualcosa nella sua testa gli suggeriva che, per quanto assurda, non fosse un’idea del tutto campata per aria.
Con nervosismo guardò fuori dal finestrino, domandandosi in quale casino fosse riuscito a cacciarsi, quella volta.
Inoltre non sentiva Thomas dalla sera prima, altra cosa ben strana.

“Siamo arrivati.”, gli disse l’uomo.

Pagò senza fiatare e scese dalla macchina. I soldi, grazie a Lucien, non erano più un problema, ma qualcosa continuava a non quadrargli in quella faccenda. Si incamminò lungo il marciapiede, sorprendendosi, ancora una volta, di come New Orleans potesse apparire una città fantasma, alle volte.
Lungo quella via alberata non c’era anima viva. Forse perché erano le tre del pomeriggio e faceva un caldo davvero infernale, ma era comunque inquietante.
Avanzò piano, guardando con attenzione sia a destra che a sinistra per ritrovare la villa, ma, giunto alla fine della strada, si rese conto di non averla incrociata.
Tornò indietro, e fu per puro caso che posò lo sguardo sulla cancellata in ferro battuto. La ricordava lucente, riverniciata di fresco, e invece ora era verdastra d’ossidazione e smangiata dalla ruggine.

“Oh mio Dio…”, gemette, guardando verso la villa.

Le finestre erano sbarrate, il giardino era pieno di erbacce e di rifiuti. Persino la facciata era tutta scrostata e uno sbiadito cartello “IN VENDITA” penzolava storto sulla porta scalcagnata.
Sembrava disabitata da decenni e prossima al crollo.

Il sangue gli si gelò nelle vene e, da principio, pensò di essersi preso un abbaglio. Ciò nonostante, scavalcò il cancelletto e corse sulla veranda. Spinse con delicatezza l’uscio socchiuso, e il suono sinistro delle collane appese al balcone lo fece rabbrividire.
Prima di fare qualcosa di molto stupido, cercò di chiamare Thomas, ma aveva il cellulare spento, quindi, dopo avergli mandato un sms, mosse passo all’interno.
Il corridoio era quello che ricordava, identico, se non fosse stato per il parquet rovinato, la polvere e le ragnatele ovunque.
Raggiunse la sala in cui aveva suonato e, ormai non c’erano più dubbi: era proprio la stessa villa.
Affannato dal panico salì le scale per il piano superiore e subito il tanfo gli fece salire la nausea. Si disse che doveva tornare indietro, ma il desiderio di sapere sbaragliò la paura, quindi con mano tremante, aprì la prima porta sulla sinistra. Sbarrò gli occhi alla vista di un corpo gonfio, in putrefazione da giorni. Non perse tempo a cercar di capire se fosse un uomo, una donna o chissà cos’altro e corse fuori da quella dannata casa il più velocemente possibile.




N.d.A.: Questa storia partecipa al contest Darkness del forum di EFP. E' una minilong di due capitoli e spero che  vi piaccia più di quanto piaccia a me, ovvero ben poco. La mia gratitudine e le mie scuse a chi la sta leggendo. Il bellissimo banner in apertura è di Nemainn che, a sua volta, partecipa al contest. La ringrazio davvero tantissimo per questo splendido regalo.

1) Henry Lee, canzone di Nick Cave & The Bad Seed
2) Mardi Gras, una festa di New Orleans, rassimilabile al nostro Carnevale.
3) The night they Drove Old Dixie down canzone dei The Band

 

   
 
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