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Autore: fuoritema    02/02/2015    3 recensioni
Esiste una spessa linea di demarcazione tra una ribelle e un pacificatore, come ripassata più e più volte con una penna. E quelle poche volte che qualcuno la oltrepassa, non faranno mai parte della “storia”, ma continueranno a vagare finché qualcuno non le raccoglierà, strappandole al vento.
***
«Non sai nulla della paura, peekeeper.»
Rimasero zitti fino a che il silenzio non fu insopportabile e le parole furono abbastanza per colmarlo.
«So quanto basta per capire che sei terrorizzata» rispose Noah, abbassandosi al suo livello. Quell’aria altezzosa che aveva assunto le faceva venire voglia di prenderlo a pugni. Così, forse, gli avrebbe tolto quel sorriso sardonico dalle labbra.
«Non lo sono. Che cazzo sei venuto a fare qui?» gli chiese Rebekah, sputandogli quella domanda in faccia come aveva fatto tante volte Ford con lei.
«Ehi… calma… Volevo solo vedere come stava una Volpe in cattività.» L’occhiata che gli lanciò la rossa fu più eloquente di qualsiasi maledizione. Non avrebbe dovuto. Non poteva. Provò a scagliarsi contro di lui, i pugni serrati in un vano tentativo di colpirlo, ma le catene la fermarono e un gemito di dolore uscì dalle sue labbra.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Canti di Rivolta'
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Note iniziali:
 
Comincio con lo spiegare che questa storia è direttamente collegata a “No one can catch the motherfucking Fox”. Se volete proseguire la lettura nonostante tutto, vi metto una piccola sintesi della storia di Rebekah Martin, personaggio principale della long.
Anche conosciuta come "Volpe del distretto nove", è il capo di una banda di ribelli del distretto nove, che distruggono spesso e volentieri i granai dei grandi proprietari terrieri. Il problema sorge quando viene catturata mentre cerca di recuperare un accendino lasciato sulla scena del crimine(?). A questo punto viene condannata a partecipare ai 67esimi Hunger Games (perché Snow è un simpaticone e la vuole ammazzare a tutti i costi). Prima della Mietitura, però, si ritrova a passare due/tre settimane in cella, e la storia parla proprio di questo.
 

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(IV)
I'm only a crack in this castle of glass.
 
 
 


L’ennesimo sbuffo di aria gelida entrò nella cella. Rebekah non poteva vedere l’esterno da quelle sbarre, ma il vento poteva entrare e trasformare i suoi respiri in nuvolette bianche. Le avevano persino impedito di sentire l’odore del grano, di muoversi – tranne che nello spazio quadrangolare della stanza – di sentirsi viva sul serio, e non sepolta viva.
La ragazza si strinse le mani sotto la camicia ormai logora, cercando invano di scaldarsi con l’accendino che una volta portava in tasca. Ma non c’era più: loro gliel’avevano portato via. E quel “loro” comprendeva anche il pivello che l’aveva protetta come fosse stata una bambina indifesa, anche se un rifiuto sarebbe stata la risposta più possibile. Non avrebbe accettato l’aiuto di una qualsiasi altra persona. Si era spesso chiesta come fosse riuscito ad entrare nella sua vita, a venire accettato come un compagno di sventura – pur essendo un Pacificatore – e riuscire a tirarla su dall'abisso in cui era sprofondata. L’aveva osservata a lungo, prima posando lo sguardo sui suoi occhi, sulle sue mani e lei gliel’aveva lasciato fare anche se quelle occhiate la svuotavano. Ogni momento che passava con quel pivello le toglieva un po’ della Volpe in cui Gabriel l’aveva trasformata. Senza la corazza del buio e il calore del fuoco, quella copertura era destinata a dissolversi nell’aria.
Dall’esterno sentì gli sbuffi di Noah, costretto per l’ennesima volta a fare il turno di guardia mentre avrebbe voluto dormire – un altro dei problemi di essere l’ultimo arrivato. Si domandò come mai si fosse lasciato inviare in un distretto in culo al mondo, dove le uniche cose che potevano dare fastidio alla Capitale erano delle spighe di grano e un mucchio di ribelli che non era appoggiato neppure dal popolo. Il nulla assoluto, insomma, ma la Capitale non la pensava così. Qualsiasi comportamento anormale doveva essere soffocato sul nascere, e i suoi resti calpestati finché non ne fosse rimasto più niente.
 

«Ciao.»
«Che vuoi, Ford?»

Stralci della conversazione che stava avvenendo fuori le arrivarono alle orecchie: la voce di Noah appariva ferma, eppure nel suo tono era percettibile un leggero tremolio, quasi avesse paura di qualcosa. Dalle sbarre della porta Rebekah riuscì a vedere la sua espressione e non poté fare a meno di sorridere: non era stato capace di celare a lungo quella sua faccia da trota, il pivello. Appoggiò la schiena al muro della cella – facendo bene attenzione a farlo con delicatezza, sebbene sentisse ormai solo un leggero fastidio là dove c’erano le cicatrici – e si rigirò il cappello tra le mani. Non ricordava bene come lo avesse riavuto indietro: forse a darglielo era stato proprio Noah, dopo averlo strappato dalle luride mani di qualche altro Pacificatore come lui, o forse lo aveva rubato lei. La seconda ipotesi era di certo la più appagante, convenne tra sé e sé.
Passò le dita sulla tela grezza di cui era fatto, pulendolo dalla polvere che lo ricopriva quasi interamente. In alcuni punti il tessuto era sfilato, la visiera era un po’ sgualcita, ma averlo tra le mani la faceva sentire ancora il capo dei Ribelli e non una ragazza con un labbro spaccato, relegata nelle carceri del Nove dal abbastanza tempo giusto per perdere sé stessa. Era rimasta solo un’ombra, la vera Volpe se n’era già scappata tempo prima, quando Noah le aveva disinfettato le mani e lei gliel’aveva permesso.
 
Tese l’orecchio.
 
«Io? Niente. Volevo solo chiedere al mio amicone come andava la guardia notturna» rispose Ford con un sorriso che assomigliava più a un ghigno. Poteva quasi vederlo, Rebekah, e provò l’impulso di scagliarsi contro di lui per toglierglielo dalle labbra. Un bel calcio alle parti basse sarebbe bastato, si disse.
«Va bene. E adesso smamma.» In quei giorni, Messer Pecora aveva smarrito del tutto la sua sicurezza. Rispondeva in modo evasivo, parlava poco e chiudeva i loro discorsi con una facilità esasperante. Ha le mestruazioni, sicuro. Ma gli ovini potevano averle? La domanda le strappò l’ennesimo sorriso forzato – quello di chi non aveva neppure un buon motivo per essere divertito.
«Non così in fretta. Volevo controllare di persona.» Viscido. Talmente viscido da affogare nel suo viscidume. Avrebbe voluto urlargli quella parola, sentire il rimbombare dell’eco sui muri per tutto il corridoio. Avrebbe voluto vedere la sua reazione pur conoscendola già, e ripensare a quel momento come a una vittoria; ma soprattutto, intuire dalle occhiate che le avrebbe lanciato Noah che lui era del suo stesso parere.
«Hai controllato, no? Che vuoi fare?»
«Io? Volevo solo congratularmi con la prigioniera per il casino in cui mi ha cacciato.»
Ah, dunque era lei il motivo della sua graditissima visita. Che novità! Dal primo momento che l’aveva vista, Ford sembrava averla presa come il suo capro espiatorio per eccellenza – un pensiero condiviso, tra l’altro – e cercava sempre di farsi affidare compiti che riguardavano il cavarle parole di bocca. Sapere che lei era intoccabile doveva avergli dato una grande delusione, ma il Pacificatore non si era rassegnato a lasciarla in pace. Le cicatrici che aveva sulla schiena erano opera sua. E delle battutine che la ragazza non era riuscita a trattenere.
 
«Prova ad alzare le mani su di lei e…»
«Mi metti in punizione, amorino
 
Un colpo. Due. Ora riusciva più a sentire solo qualcuno degli insulti che saettavano dalle loro bocche, ancora seduta con calma per terra: si scoprì a parteggiare per Noah, quando intuì che uno dei due doveva essere stato messo a terra. Aveva partecipato ad abbastanza zuffe per capire quando era finita, e dai suoni si notava chiaramente che uno dei due si era arreso. Non ci fu neppure bisogno di intuire chi fosse.
Perché diavolo cadeva sempre nei trucchetti più stupidi?
Rebekah scattò in alto, tendendo le mani verso la finestrella che dava sul corridoio per vederli. Eppure non riuscì ad aprire gli occhi: si rifiutò di guardare ciò che aveva, anche se involontariamente, provocato. Si limitò a sentire, ancora appesa con le braccia alla grata, il suono di altri pugni che si abbattevano sul corpo di Noah. Come se l’altro li stesse rifilando a lei, un groppo alla gola le scese fino allo stomaco, facendola quasi piegare in due. Quanto avrebbe resistito[1]? La domanda le rimbombò nella testa, mentre tirava un pugno alla porta per distrarre Ford, mentre gli occhi del pivello incontravano i suoi per il tempo giusto a farle capire che le era grato. Continuò finché le ferite sulle sue mani non si riaprirono e l’odore del sangue le invase le narici. Forse così si sarebbero accorti che lei era ancora viva, ma quando si sentì cadere sul pavimento della cella capì che aveva perso la sua battaglia.
Di nuovo.

 
*


«Ragazzo?»
La rada barbetta di Noah le pizzicò la guancia, facendole rispondere alla domanda con qualcosa che somigliava più ad un grugnito che ad altro. Inizialmente doveva essere una battutina, ma la posizione in cui si trovava non era la migliore per parlare.
«Te l’ho già detto. Sono una ragazza» sbuffò, senza decidersi ad aprire gli occhi. Aveva le mani ancora strette a pugno, contratte, ma il sangue era sparito. Non una goccia, sostituita da un dolore sordo e persistente alle nocche. Schiuse gli occhi con calma, ritrovandosi quelli blu del ragazzo davanti, e avvicinò il suo viso a quello dell’altro, ridacchiando quando Noah si staccò da lei in modo brusco. La osservò dall’alto, un taglio vicino all’orecchio incerottato alla bell’e meglio, come per accertarsi che fosse sveglia sul serio.
«Sei un’idiota, ragazza» le disse con tono serio, calcando la voce sull’appellativo che le aveva rifilato. Mai, in quel mese, l’aveva chiamata così e Rebekah gli rispose con uno sguardo altrettanto serio, decisa a fargli abbassare lo sguardo per l’ennesima volta.
«Sei una stupida, stupida, stupida ragazza.»
«E perché mai lo sarei? Sentiamo.» Avrebbe incrociato le braccia, se le catene non l’avessero costretta a tenere le mani unite. «E queste?» aggiunse, indicandole con un cenno del capo. Le mosse leggermente, le tirò, poi gli rifilò un’occhiataccia che Noah interpretò come una richiesta di spiegazioni.
«Le mettiamo ai detenuti che ci creano problemi.»
«Questo lo sapevo già, genio» rispose sardonica, appoggiando la fronte contro quella del ragazzo. Spinse la testa leggermente più avanti, allontanandolo di qualche centimetro.
«Allora perché lo chiedi? – gli angoli della bocca del giovane si alzarono in un sorrisino – Non mi sembra che chi prende a pugni la porta della cella si possa definire un detenuto calmo e sottomesso.» Il suo sguardo vacillò sulle nocche della giovane, da cui stava già ricominciando a scorrere un filo di sangue, prima di posarsi sui suoi occhi.
«Ti sei incantato?» gli chiese, ghignando quando si accorse che Noah stava arrossendo. «Non capisco proprio perché tu puoi farmi radiografie alla faccia e io no.»
«Perché io sono bello.»
Rebekah scrollò le spalle. «E io sono la Fata Turchina» gli rispose per le rime. Era bello, per una volta, lasciarsi trasportare in discussioni così futili; in quei momenti smetteva di pensare alla cella, ai muri che parevano stringerla sempre di più e la puzza di disinfettante nell’aria. Dimenticava la Volpe, ormai scappata fuori nei campi di grano, e rimaneva da sola con Noah. Ancora non riusciva a spiegarsi quel malato potere con il quale il ragazzo riusciva a farsi strada nei suoi pensieri. Non riusciva a capire come facesse ad instaurare una conversazione sul nulla assoluto, in cui lei avrebbe parlato senza passare i suoi pensieri attraverso il setaccio del cervello. Lui era l’unico che riuscisse a capirla sul serio, lui capiva e basta.
«Strano, credevo fossi un ragazzo» rifletté ad alta voce, strappandole un sorriso. «Un ragazzo talmente stupido da distrarre Ford con dei pugni contro la porta» fece ancora, sedendosi davanti a lei. Separavano i loro visi dieci centimetri scarsi, mentre la sua gamba toccava quella della giovane.
«Ho impedito che te le desse sul serio. Scommetto che oggi le hai prese per la prima volta» lo punzecchiò Rebekah, tirandogli una leggera gomitata. Rise. «Tuo padre non ti ha insegnato a scegliere con più attenzione con chi batterti?[2]»
Il silenzio si sfasciò in milioni di schegge che ferirono Noah, e la ragazza lo vide dal sorriso forzato che esibì – anch’esso rotto dai ricordi. Aveva colto nel segno, pur non volendo.
«Tuo padre non è uno di quelli che insegna?» gli chiese, cercando invano di rimettere insieme una conversazione. Tentò anche di ristabilire un contatto visivo con il ragazzo, ma lui teneva gli occhi bassi. Gli toccò la gamba, poi gli girò la testa verso di sé, modellando la sua posizione come fosse stato una marionetta.
«No. E non ho voglia di parlarne.»
«Centro. Si è scopato tua madre e poi se n’è andato, o è rimasto per il tempo necessario a farti capire quanto fosse apatico nei vostri confronti?»
Per la prima volta, Noah le rivolse un’occhiata carica d’odio. Poi si scostò da lei, andandosene dalla cella con passi bruschi e pesanti. Avrebbero lasciato il segno, se ci fosse stata della neve, ma invece lasciarono un silenzio talmente pesate da gravare nella stanza per minuti interminabili. Solo in quel momento Rebekah si rese conto di aver esagerato.
Avrebbe dovuto scusarsi?
La domanda le torturò lo stomaco con insistenza, e continuò a farlo quando la ragazza poggiò la testa contro il muro. Si chiese se fosse malata, se quello fosse un semplice mal di pancia dovuto al poco cibo che aveva ingerito negli ultimi giorni. Si domandò quanto fosse passato dall’ultima volta che aveva toccato un vero pezzo di pane fresco, come quello che talvolta Axel le offriva mentre camminavano verso la recinzione, e una tenaglia le strinse lo stomaco con forza. Per la prima volta nella sua vita, si accorse di aver bisogno di qualcuno.
E quel qualcuno era Noah.

*


Scusami.
Lo sussurrò ai muri, gli occhi fissi sulla parete spoglia e le labbra serrate. Lo disse varie volte alle gocce che cadevano giù dal soffitto, bagnando il pavimento di acqua sporca, a sé stessa. E quella stupida, insulsa parola continuò a gravarle sulle spalle insieme al peso di una conversazione infranta così. Lui non le aveva chiesto quella domanda, non ne avrebbe neppure voluto parlare, e la sola risposta che era stato capace di darle era stata quella.
Quando la ciotola rotolò fino ai suoi piedi, arrivandole con precisione nella mano sinistra, Rebekah alzò lo sguardo. I suoi occhi, che prima fissavano le fughe tra le mattonelle, si posarono su quelli del Pacificatore. Noah rimase sulla porta, aspettando con un piede alzato per andarsene.
«Io-» iniziò con riluttanza. Mille parole le frullavano nella testa, ma non aveva il coraggio di pronunciarne neppure una. Incespicò sulla prima, un insulso balbettio di una frase lasciata a metà, poi scosse la testa. Ora non lo guardava più.
Da una qualsiasi persona si sarebbe aspettata un rifiuto, un’occhiata di sufficienza e lo sbattere di una porta ormai chiusa per sempre, ma lui non fece nulla. Gli importava sul serio di quelle scuse. Rebekah lottò con sé stessa perché la seconda parola uscisse dalle sue labbra in un rantolo strozzato che quasi neanche lei comprese.
«Cos'è, non parli più?»
No: non con te, almeno. Abbassò nuovamente la testa, gli occhi fissi sui suoi piedi come mai si era permessa di fare durante la sua vita. Diciassette anni buttati al vento, si annotò in mente, e anche tutti i momenti in cui aveva deciso di sfidare Ford. Il suo fuoco si era spento, ma lei non sarebbe rinata dalle sue ceneri come una fenice e non sarebbe volata via da lì. Delle sue ali era rimasto solo un ricordo – delle cicatrici laddove una volta sorgevano.
«Scusa» mormorò con voce talmente flebile da ritrovarsi a sperare che lui l’avesse sentita e di non dover quindi ripetere. Lo disse d'un sol fiato e, mentre Noah apriva la bocca per risponderle, aggiunse: «pivello
Gli angoli della bocca del ragazzo si distesero in un sorriso. «Non pensavo che l’avresti fatto» ammise.
«Non sono così orgogliosa» gli rispose infine, mentre la sua mente urlava scempio di azioni perché era esattamente il contrario.
«Oh sì che lo sei. Non ho mai visto nessuno più cocciuto di te» la prese in giro, evitando gli sguardi di fuoco che lei gli lanciava. Poi lo tirò verso di sé con il braccio serrato sui suoi pantaloni bianchi. Quasi lo fece cadere per terra, ma alla fine il pivello si sedette accanto a lei e le scompigliò i capelli – come non aveva mai fatto nessuno dalla morte di Gabriel.
«Ti detesto, Peekeeper» borbottò, «perché vuoi che mi scusi, perché sei sensibile fino all’inverosimile.» E mi ricordi che sono una ragazza.
«Forse è la cosa più dolce che tu mi abbia mai detto.»
Rebekah gli diede una leggera gomitata al fianco e rise, lasciando che il peso del suo “scusa” scivolasse via, lontano da quella conversazione. Si ritrovò a cercare la vicinanza con Noah, appoggiando il suo mento sulla spalla del ragazzo. Poi, colmarono la distanza che li aveva divisi fino ad allora – la distanza tra un Pacificatore e una ribelle – con le parole.

Era il terzultimo giorno che avrebbe passato in quella cella.




[1] L’ambiguità della frase è voluta, perché Rebekah si sta riferendo sia a Noah che a sé stessa.
[2] Citazione da “Il pianeta del Tesoro” (<3)

 
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Angolino dell’Autrice:
 
Comincio con il ringraziare Alaska, che mi ha gentilmente concesso di usare il suo Signor Roth e l’idea che un ragazzo possa essere mandato ai Giochi per mostrare agli altri cosa succede a ribellarsi al regime. Lei ne ha vari, di OC che sono andati nell’Arena per questo motivo.
La mia originalità in questi angolini sta morendo, juppy(?). Il fatto è che non so mai cosa dire, e finisco sempre per scusarmi per i tempi improponibili di attesa. In quest'ultimo mese non me la sono passata molto bene – lutto, compiti in classe a raffica, Aoristo – e non ho pensato né a pubblicare né a scrivere. Poi sto elaborando la mia prima originale per un concorso a scuola. Se volete farmi un piacere, passate a leggerla e magari lasciarci una mini-recensione (QUI). 
Come avrete notato, il rapporto tra Noah e Rebekah sta diventando sempre più stretto, complici tutti i miei tentativi di farli baciare andati a vuoto xD Scherzano, ridono, ma la stronzaggine di 'Bekah se ne esce tipo sempre. Sto pensando di aprire un'associazione per salvare il povero Messer Pecora dai continui maltrattamenti – e non sto parlando della zuffa che ha fatto con Ford ç__ç A proposito, prima o poi si prenderà la giusta rivincita, perché ho bisogno di dargli almeno una soddisfazione.
E niente... Giuro che non sparisco di nuovo, ma forse la prossima volta che mi farò vedere avrò un nuovo nick. Firmo con quello, nella speranza che non ci voglia molto.

Jiminy
  
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