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Autore: Ghevurah    05/02/2015    5 recensioni
Una piccola raccolta di altrettanto piccole storie. Storie d’amore e desiderio, possibili e impossibili, canoniche e non.
- Beren a Lúthien
- Thranduil a Thorin [NB: questo capitolo presenta l'avvertimento "dub-con" in relazione alla coppia Thranduil/Thorin]
- Maeglin a Idril
- Sauron a Melkor
- Faramir a Éowyn
- Túrin a Beleg
- Andreth a Aegnor
- Fingon a Maedhros
- Nerdanel a Fëanor
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Elfi, Maiar, Nani, Uomini, Valar
Note: Lime, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Fandom: Lo Hobbit
Rating: R
Personaggi; pairing: Thranduil, Thorin; Thranduil/Thorin
Avvertimenti: one-shot, violenza, what-if?, dub-con, slash, missing moments, lime
Genere: introspettivo, simil-erotico
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: scritta per il prompt Thorin Oakenshield/Thranduil, “Ci sono gemme nella montagna che anch’io desidero” .

Non avrei mai creduto di riuscire, un giorno, a scrivere una Thranduil/Thorin… E forse per questo il risultato lascia un po’ a desiderare, chiedo venia (soprattutto a te, mia cara Ali).


ATTENZIONE: (l'ho già scritto ma repetita iuvant) questo capitolo tratta di un rapporto sessuale in cui il consenso di una delle parti è dubbio (DUB-CON).












Le invettive di Scudodiquercia morirono dinnanzi all’alterità del suo sguardo, mentre le ombre del silenzio si allungavano fra loro come quelle delle sbarre. Al di là di esse, il viso del prigioniero era duro quanto uno sperone montano. Un vago sentore di disperazione aleggiava nei suoi gesti nervosi, quasi che i giorni trascorsi in quella cella stessero erodendo segrete speranze di vita.
Gli domandò cosa fosse venuto a fare, lì. Ma Scudodiquercia non rispose. Increspò le labbra in un sorriso tagliente, uno di quei sorrisi che si apprendevano guardando il cielo terso d’una mattina di battaglia, indovinando le grida dei feriti avversari nel coro di comuni strazi. Un sorriso che entrambi conoscevano.
 




Immagina le remote sale di Thrór, ove l’aria non è che un ricordo, snodarsi nelle profondità della terra. Languisce lì un’oscurità materica, unica sfida al chiarore dell’oro. Dune gemmate abbandonate alla corruzione, serpe nell’animo dei suoi abitanti. Una maledizione in grado di attraversare i secoli. Gli stessi secoli scivolati come acqua sulla sua pelle e rappresi nei labirinti della sua mente. Trae saggezza dalla loro impronta ma non solo. Poiché se la memoria della sua ascendenza valica il Belegaer 1, tendendosi all’abbraccio del crepuscolo2, le genti di cui è amico e sovrano instillano in lui la selvaggia imprevedibilità della foresta. Allora la saggezza dei Celbin3 è offuscata dalle ombre degli alti faggi, sovrastata dalle odi alle gelide stelle. Resta l’attaccamento a quella terra, scolpito dal tempo con tenace maestria; resta la rimembranza di fasti passati, l’odio e l’amore, così limpidi nella loro irruenta contrapposizione, nella loro violenza emotiva.




Quando avanzò fra le anguste mura della cella, il prigioniero si retrasse, lasciandosi ingoiare dall’ombra.
Lui lo osservò a lungo, pervaso d’una stasi che appariva intrinseca alla sua antica natura, infine fece un cenno col capo.
I due guardiani alle sue spalle si avventarono su Scudodiquercia, dimentichi della leggiadria usata nelle loro danze al chiarore delle stelle. Lo afferrarono e lo piegarono, costringendolo in ginocchio. Così, allontanato dalle pareti oscure della cella, il prigioniero apparve acquisire concretezza. Un creatura di tenebra strappata al grembo della propria progenitrice.
Poi vi furono nuove domande senza risposta. Maledizioni sibilate in una lingua sferzante come lame di vento, una lingua che lui udì insinuarsi sotto pelle e a cui desiderò rispondere con il sangue.




Egli non è come i sovrani dell’Ovest, arroccati su troni di rimpianti in attesa del profetico giorno in cui raggiungeranno i loro sogni perduti: bianche sponde meta di ogni aspirazione. Egli è diverso. Per questo può immaginare così vividamente la morsa oscura che corrode il Re sotto la Montagna. Per questo può sfidarne lo sguardo, obliato dalla cupidigia, contrapponendosi ad esso con occhi di liquido disprezzo. Per questo può tendere archi, incoccare frecce e intonare canti di guerra dinnanzi alle porte di Erebor. I suoi sudditi comprenderanno; conoscono l’animo del loro Re e vi possono scorgere tracce d’un antico affronto. Poco ha a che fare con la pretesa del tesoro celato nella montagna, poiché scaturisce dalla memoria di un'Era perduta. Un’irripetibile bellezza straziata da una guerra improvvisa, un grande sovrano spento da un gretto assassinio. E Scudodiquercia porta nel sangue le colpe di quell’orrore.




Nella prigione le fiaccole bruciavano d’ira consunta, quando ordinò alle guardie di lasciarli soli. Il prigioniero giaceva ancora in ginocchio, entrambi i polsi legati dietro la schiena, l’impronta ferale dell’ombra impressa sul corpo.
Egli allungò una mano sotto la luce delle torce, ed essa splendette d’un biancore sacrale. L’allungò e l’immerse nell’intarsio nero, sudicio, dei capelli di Scudodiquercia. Un istante, prima di tirare tanto da obbligarlo ad alzare il capo. Allora i loro occhi s’incontrarono. E lui vide quei fondi abissali schiudersi di sorpresa.
Sorrise, osservando i lineamenti del prigioniero indurirsi di nuovo. Ma non gli diede il tempo di ribellarsi.
Si chinò fino a percepire l’infrangersi del suo respiro sulla pelle, sibilando al suo orecchio quella stessa domanda che gli rivolgeva da giorni. Le sue parole, tuttavia, non apparvero nate per riceve risposta, e risuonarono pericolose quanto una sfida di morte.
Ora poteva avvertire quel pacato raziocinio, eredità della propria ascendenza, spegnersi nei recessi della prigione, fra le radici dei faggi, dove il lontano sciabordio del mare non giungeva.
Così fece scivolare la propria presa sulle spalle del prigioniero e con un movimento improvviso lo tirò in piedi, per poi spingerlo contro le pareti della cella.
Il capo di Scudodiquercia impattò dolorosamente sulla pietra umida, accendendolo d’una furia scalpitante. Eppure egli riuscì a domare ogni sua ribellione, mostrandosi belva dinnanzi alla belva. Scoprì le proprie zanne celate, svelando ciò che albergava nel suo animo: una creatura mutevole, sorta dal chimerico abbraccio della foresta e abbeveratasi di luce stellare.




Scudodiquercia era giunto alle sue aule con incedere sprezzante, lo sguardo ottenebrato da un proposito smanioso, le mani frementi di chi sarebbe persino disposto a prendere vite. Interrogato, gli aveva taciuto qualsiasi accenno alla propria impresa, ma era stato facile, per lui, scorgere lo strascico di lutti e gravami che si portava appresso. Sovrano depredato del proprio regno, costretto ad arrancare nel fango della rovina. Aveva intuito i contorni della sua brama, proiezione d’un agognato riscatto, e l’aveva indovinata farsi cieca e sorda, preannunciatrice del fuoco della follia.   
Vani erano stati i suoi tentativi di impedire un simile scenario. Condannando Scudodiquercia all’isolamento delle proprie segrete aveva alimentato quelle tenebre che si raggrumavano sul suo destino.
Rammenta gli occhi del prigioniero rifuggire la luce delle torce. Gemme di buio nel buio stesso, abissi di rimpianto e ambizione. Portava il tracciato del proprio sofferenza sulla pelle, nelle movenze afflitte eppure feroci: un predatore ferito e braccato sempre pronto all’attacco.
Così, una sera, egli aveva preso congedo dall'abbraccio delle stelle per scendere nelle profondità delle segrete, lì dove i faggi affondano le proprie radici.




Le sue mani artigliarono le braccia di Scudodiquercia e questi soffocò un lamento, cercando inutilmente di colpirlo. Allora lui lo voltò, addossandolo ancora alla parete. Una guancia premuta contro le sporgenze della pietra, il corpo in balia della volontà avversaria.
Osservò la linea dura delle sue spalle fremere d’un inquieto presentimento e si chinò per immergersi nel suo odore, l'odore acre di un essere mortale.
Gli afferrò di nuovo i capelli, approfondendo la presa affinché giungesse sino alla base del collo. Fece forza, guardando le proprie mani, pallide e lucenti, affondare in quella matassa scura; le sentì stringersi attorno alla carne, mentre sotto le dita un’arteria pulsava rabbiosamente.
Pensò di strangolarlo. Lì, tra le mura silenziose delle proprie segrete. Assaporando le sensazioni tattili del suo soffocamento, sprofondando nei ricordi.
Ma il prigioniero palpitava d’una furia vischiosa e insensata e a lui, improvvisamente, sembrò uno spreco porre fine a quell’agonia che era la sua caduca esistenza.
Ammorbidì la presa, scivolando con le mani lungo le sue spalle, percependo il brivido di sollievo che le percorse. Lo ascoltò tossire e inspirare avidamente l’aria rarefatta della cella, prima di abbandonarsi contro la parete. Allora, con un gesto lento, gli scostò i capelli dal collo, svelando uno strato di sudore che sfavillò come la superficie preziosa d’un gioiello. Lo percorse con dita curiose, mentre le membra sotto di lui venivano scosse da un altro fremito, questa volta languido e insinuante. Udì il suono d’una parola morire nel gemito roco che la seguì, e tanto bastò per accenderlo d’uno strano ardore. Una proiezione della foresta tesa al richiamo della sua indole più selvaggia.
Insinuò le dita sottili sotto il bordo della casacca, dove i marchi lasciati delle sue stesse mani scomparivano. Avvertì il prigioniero irrigidirsi, ma non gli permise di voltarsi. Lo sovrastò, invece, premendo il peso del proprio corpo contro il suo.
Arricciò la stoffa della casacca, graffiando la pelle superficialmente. Poi scese a lambire la schiena contratta. Ingaggiò un duello di tocchi e resistenze, scoprendo porzioni di pelle e muscoli che si definivano nel buio, sotto l’impronta gelida delle sue mani.
Disegnò tracciati di saliva dove prima aveva arrecato offese, assaggiò lacrime di piacere e sibilò parole di scherno. Ne ottenne una ribellione vaga e sconnessa in cui si crogiolò, udendo il respiro del prigioniero echeggiare un’appagante aritmia. Sfidò la sua tempra, l’irretì con l’incanto della seduzione per affondare, infine, nella promessa di quel corpo d’ombra.
Credeva di volere una parte della propria vendetta, ma quando Scuododiquercia si sciolse fra le sue mani, ogni altro desiderio o aspirazione annegò nel liquame d’un piacere tenero e crudele.




Mentre le spade vengono sguainate, Ithil d’argentei riflessi incontra il fulgore nascente di Anor. E le motivazioni di quella imminente battaglia sembrano dissolversi assieme con il manto notturno.
Eppure, Thranduil Oropherion, possiede una certezza: nel ventre di Erebor, depredata del proprio cuore, oltre agli smeraldi di Girion e a diademi d’argento, giacciono gemme oscure di ferale splendore. Gemme che anche lui desidera.
















 
Note:
1 (Sindarin) - Lett. “grande mare”, l’oceano che divide Aman dalla Terra di Mezzo.
2 (S) - Lett. “persone di luce”, termine usato per indicare gli Elfi non Avari.
3 - Il riferimento è dovuto a uno degli appellativi dei Sindar, ovverosia “Elfi del Crepuscolo”.


 
   
 
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