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Autore: Alsha    08/02/2015    3 recensioni
[undicesima classificata al contest "La Caduta dell'Inverno Boreale, ed altre storie"]
Svan è una valchiria.
O almeno, lo era. Ha perso il diritto di definirsi così quando è stata esiliata, anche se questo non sembra importare a nessuno.
D'altra parte la guerra è dura per tutti, e un nemico è uguale ad un altro, indipendentemente da quello che gli è successo.
Per questo vuole raggiungere il mare, per poter arrivare dove della guerra non importa a nessuno, dove può essere di nuovo libera.
Per tornare a volare.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Classificatasi undicesima su diciannove al contest "La Caduta dell'Inverno Boreale, ed altre storie - viaggio nel fantasy medievaleindetto da Deidaranna93 sul forum di efp.


 
Nota d'inizio capitolo: la razza a cui appartiene Hrìm prende il nome da Sleipnir, cavallo a otto zampe della mitologia norrena. Le valchirie invece sono una mia libera interpretazione delle ben più famose dee vichinghe.
 

CAPITOLO PRIMO: TERRA

Per quanto cercasse di ignorarla, aveva sempre avuto la sensazione che non sarebbe stata mai più davvero libera.

Doveva immaginare che ci sarebbero state delle conseguenze al rifiutarsi di combattere, ma non era mai stata tanto cosciente che sarebbe rimasta incollata al terreno fino alla fine dei suoi giorni come in quel momento, in cammino nel folto della foresta a farsi squassare da un diluvio di proporzioni epiche.

Si schiacciò contro il manto nero del suo sleipnir, Hrìm, e l’animale abbassò il collo, strofinandole il muso contro come a consolarla e tirandole via il cappuccio del mantello.

Una cascata di riccioli biondo platino si riversò sulle sue spalle e Svan sospirò, allontanando il muso di Hrìm con la mano che reggeva la corda che gli aveva legato attorno al muso a mo’ di briglie, mentre con l’altra risistemava il mantello sulle spalle.

Sapeva che tra i due quella che aveva bisogno di essere spronata probabilmente era lei, ma un po’ di motivazione all’amico di una vita non guastava di certo. Poco contava che l’amico fosse una specie di enorme cavallo nero dall’innaturale criniera grigio tempesta e con una spiccata intelligenza, che unita al suo smisurato ego lo rendeva estremamente geloso e protettivo nei suoi confronti.

Ripresero a camminare, l’uno accanto all’altra, e assieme ai loro passi riprese anche il rumore metallico che li accompagnava.

Erano quelle catene che le legavano le caviglie e gli anelli metallici saldati attorno a quelle di Hrìm assieme ai sigilli che recavano incisi a trattenerli entrambi sulla Terra, e, come se non fosse estremamente doloroso non potersi sollevare in volo mai, nonostante la lega fosse particolarmente leggera o forse proprio per quello, erano incantate in modo da fare un male atroce a chi le portava.

D’altra parte era al corrente di quello che succedeva a una valchiria che si rifiutava di eseguire un ordine, che si rifiutava di combattere.

Tra le valchirie era così, bisognava ubbidire e combattere, combattere e ubbidire, e nemmeno quando ci si ritrovava ad essere la più giovane comandante delle legioni al servizio della Regina ci si poteva permettere di contraddire, era la regola.

Almeno fosse nata maschio, non sarebbe stata obbligata a combattere ma avrebbe potuto passare una vita tranquilla, dedicandosi ai lavori di casa, curando i campi o le botteghe e tenendo d’occhio i figli fino a che non fossero cresciuti. Purtroppo non le era andata bene, ed essendo l’unica femmina della famiglia il suo destino era stato segnato.

Essendo figlia di una della stratega più valente che avesse mai servito la sua regina, era finita a far parte dell’elite militare così in fretta che non era riuscita ad adeguarsi a tutti gli obblighi e alle costrizioni del suo ruolo, e questo le era costato tutto.

Permettersi di contestare un ordine dai superiori era stata solo l’ultima di una serie di mosse che le aveva inimicato il Consiglio, l’assemblea a cui la regina si affidava praticamente per ogni cosa, dalle mosse militari al vestito da indossare per la parata. A Svan  era sempre sembrato che fossero i suoi membri a governare, e che la regina fosse solo un fantoccio nelle loro mani.

Vista la velocità con cui l’avevano accusata di tutti i fallimenti dei loro eserciti contro quelli degli umani e di diverse altre cose di cui la giovane ignorava l’esistenza, poteva asserire che era esattamente così.

Hrìm nitrì, aumentando un attimo l’andatura per arrivare sul sentiero di ciottoli che tagliava la foresta, poi picchiò un paio di volte lo zoccolo a terra per incitare la sua padrona a sbrigarsi.

Svan sollevò l’orlo del mantello e accelerò il passo per raggiungere il cavallo.

Oramai erano mesi che viveva sulla strada, impossibilitata dalla guerra che intercorreva tra le valchirie e gli umani a trovare rifugio.

Nei territori di confine in cui si stava muovendo, i suoi tratti somatici, capelli ricci e chiarissimi e gli occhi lilla, la identificavano subito come nemico, e anche quando riusciva a nasconderli tingendoli o fingendosi cieca in qualche modo il caso riusciva a far si che le catene con le inconfondibili rune che recavano incise la smascherassero.

Per non parlare di quella volta in cui erano riusciti addirittura a riconoscere la razza di Hrìm quando un ex soldato, di ritorno dal fronte per essere rimasto zoppo, aveva notato che quel cavallo aveva le zampe troppo lunghe, il corpo troppo snello e coda e criniera di un colore troppo strano per non essere uno sleipnir.

A quel punto si era rassegnata a far sparire quel poco che si trovava nei campi e a tentare l’elemosina ai bordi dei paesi più grandi. Per disonorevole che fosse, non aveva avuto altra scelta.

Quando aveva capito che in quei territori non sarebbe potuta sopravvivere ancora a lungo, aveva deciso che raggiungere i territori oltre il mare era l’unica speranza di far sparire le sue catene. A quel punto sarebbe andata così lontana che nessuno avrebbe avuto paura di lei, e magari avrebbe potuto avere una vita tranquilla come tanto desiderava.

A poche miglia avrebbe trovato la costa e forse da lì sarebbe potuta andare a farsi aiutare da qualcuno, sempre che facessero salire lei e Hrìm su una nave. Imbarcarsi clandestinamente era fuori discussione vista la presenza dello sleipnir, così come abbandonarlo era impensabile.

Una volta Legati, una guerriera e la sua cavalcatura non potevano separarsi a meno che non fosse necessario, e, visto che anche Hrìm doveva mettersi in salvo, lasciarlo non era un’opzione calcolabile.

Comunque bisognava concentrarsi su una cosa alla volta; raggiungere la costa era l’obbiettivo primario, preoccuparsi come salire su una nave nel bel mezzo della foresta era inutile.


 
°°°°°

Dopo quasi due settimane di foresta ininterrotta, un villaggio di taglialegna le era sembrato quasi un’allucinazione. Magari uno di quei funghi crudi che si era costretta a mangiare pur di non morire di fame era tossico, o magari aveva preso la febbre a furia di passare le sue giornate completamente fradicia.

Senza nemmeno pensare che qualcosa sarebbe potuto andare storto, incitò lo sleipnir ad avanzare verso le casupole di legno che spuntavano sotto gli alberi piegati, pronta a recitare nuovamente la sua parte di viandante cieca ed indifesa.

Sganciò dal cinturone che portava sotto al mantello un bastone di legno nodoso e consunto che le arrivava circa alla vita, tenuto appeso con un legaccio di cuoio dove un tempo portava la sciabola.

Il legno del bastone non avrebbe mai rimpiazzato la sensazione che le dava il metallo della sua arma, una bellissima sciabola con l’impugnatura dorata raffigurante un cigno, che però le era stata confiscata al momento della sua condanna. Secondo la procedura per gli esili come i suoi, la sciabola sarebbe dovuta essere fusa e trasformata in una nuova arma come ad annullarne la storia, ma visto il valore era certa che qualcuno l’avesse fatta sparire.

Senza contare quanto fosse riprovevole un atteggiamento simile, Svan trovava semplicemente orribile che la sua sciabola fosse nelle mani di qualcun altro. Era stata forgiata per lei da suo fratello, e questo ai suoi occhi rendeva inconcepibile che ad usarla non fosse lei.

Strinse con forza la presa sul bastone e iniziò a batterlo per terra, lasciando che fosse Hrìm a guidarla verso le case tirando le briglie ben strette nel suo pugno.
Tenne gli occhi socchiusi e attese di colpire la parete di una casa con il bastone per lasciare andare le briglie e iniziare  a bussare, ben consapevole che stava picchiando contro una finestra. Fingersi cieca l’avrebbe aiutata, almeno un po’.

Sentì la porta  aprirsi e con la coda degli occhi socchiusi vide una donnina con una crocchia di capelli scuri venirle in contro tenendo sollevato sopra la testa un cappello piatto di paglia intrecciata, di quelli usati dai contadini, per cercare di ripararsi dalla pioggia.

-Buon cielo, cosa succede? – domandò la donna appoggiando la mano libera sul braccio di Svan, che continuava a bussare alla finestra.

Solo allora la valchiria diede cenno di aver sentito e si voltò verso la donna.

-Perdonatemi, - sussurrò innocentemente allungando la mano a cercare nuovamente le briglie di Hrìm – pensavo di aver trovato la porta. Potrei ripararmi da voi? Avanzare per me è abbastanza difficile anche senza questo freddo e la pioggia.

La donna si portò la mano libera alla bocca, poi abbassò la testa e la prese sottobraccio per allontanarla leggermente, mentre portava Hrìm dietro la casa, probabilmente per legarlo, per poi tornare velocemente da lei per accompagnarla in casa.

-Vieni cara, vieni. Di questi tempi non è bene che una ragazza come te – e Svan seppe che si riferiva alla sua presunta cecità – passi la notte fuori al freddo nella foresta. È pieno di brutta gente da queste parti.

Forse in questo gli uomini differivano dalle guerriere dei cieli. Una valchiria non  avrebbe mai accolto uno sconosciuto in casa sua. Soprattutto perché i loro territori erano completamente isolati da quelli delle altre razze e uno straniero sarebbe sembrato subito sospetto.

Non aveva fatto in tempo ad entrare nella stanza che un uomo tarchiato con due braccia robuste da far paura aveva fatto irruzione nello stanzone e si era messo a inveire contro la moglie.

-Suvvia caro, - cercò di accomodare la donnina – è una povera fanciulla cieca, cosa vorresti fare, lasciarla fuori sotto questo temporale?

L’uomo emise un grugnito e uscì dalla casupola sbattendo la porta. Svan non ebbe il tempo di porsi domande che la donnina le aveva messo tra le mani un piatto di brodaglia di dubbia provenienza ma che dalla sua aveva il fatto di essere bollente.

Si ingozzò come una disperata, costringendosi a non pensare che stava finendo la cena di due persone e dispiacendosi per Hrìm che, legato fuori al freddo, nitriva lamentoso per reclamare attenzioni. La valchiria spesso non si capacitava di come lo stesso sleipnir che le aveva salvato la vita in battaglia più e più volte riuscisse a comportarsi come un bambino piccolo

Il taglialegna tornò diversi minuti dopo, seguito a ruota da un uomo anziano dallo sguardo severo.

-Ecco la straniera. – sentendo il taglialegna parare, la valchiria ebbe un sussulto.

-Chi c’è?

-Sono il capo villaggio. – la voce del vecchio era sottile e gracchiante, ma nel tono sembrava accondiscendente.

-Avete dei capi?  Non pensavo fosse in uso qui. – azzardò a voce bassa.

-Sono solo quello a cui resta meno da vivere tra tutti, bambina. Ora mostrami il tuo volto.

“Ma perché va sempre a finire così?!? E la fiducia nel prossimo, dico io?”

-Preferirei di no. Ho uno sfregio che …

-O qualcosa da nascondere? – era la prima volta che il taglialegna si rivolgeva a lei direttamente.

-Avanti cara. – si aggiunse la donna, tendendole la mano – Non succederà nulla.

“Lo dici tu …”

Strinse una mano sul bastone, rimasto tutto il tempo appoggiato accanto a lei, e portò l’altra mano al cappuccio, facendolo scivolare indietro.

-Misericordia. – sussurrò la donna prima di svenire piuttosto platealmente tra le braccia del marito che, evidentemente, voleva liberarsi di quell’impiccio per un po’ di sana violenza.

Svan raccolse il mantello e si precipitò di corsa in un’altra stanza. Il trambusto che seguì la toccò solo marginalmente mentre si chiudeva la porta alle spalle.

Un rapido sguardo alla stanza da letto in cui si trovava e pochi secondi dopo si stava arrampicando fuori dalla finestra. Perse la presa sugli infissi umidi e franò in avanti nella terra fangosa. Si mise subito a sedere e l’accolsero a pochi centimetri dal viso due occhi liquidi e il muso di un asino grigio, asino che venne spintonato di lato da un ben più imponente cavallo nero.

La ragazza saltò sul manto bagnato dell’animale e, cavalcando all’amazzone, si stese abbracciandone il collo. Hrìm partì al galoppo, e nonostante le bande con i sigilli saldati sulle sue zampe era più veloce di qualsiasi cavallo gli umani potessero possedere, soprattutto in un villaggio sperduto come quello.

Alle sue spalle, qualcuno doveva aver dato l’allarme perché si sentirono sbattere altre porte e volare insulti e pietre, e quando una di queste colpì Svan sulla scapola destra, lei si strinse di più al cavallo, quasi aspettandosi che questo si alzasse in volo come sarebbe successo senza i sigilli.

Non accadde, ma Hrìm continuò a galoppare fino a che l’unico rumore rimasto oltre allo scrosciare dell’acqua fu il rumore degli zoccoli del cavallo nero.
 

 
°°°°°
 
Hrìm  oramai stava galoppando da tre giorni quasi filati, quando la foresta si era interrotta definitivamente.

Gli sleipnir come lui raramente provavano fame o stanchezza, e lui aveva deciso spontaneamente di andare avanti per preservare la sua padrona. Non era al sicuro lì, e Svan aveva patito fame e sete abbastanza a lungo da non soffrire per qualche giorno ancora. Tra l’altro lei stessa aveva affermato che le poche pause fatte le erano bastate e avanzate.

Sul suo dorso, la ragazza dormiva profondamente nonostante fosse ormai mezzogiorno abbracciandogli il collo.

Il cavallo si fermò, gli occhi scuri fissi all’orizzonte, e iniziò a scrollarsi e a picchiare gli zoccoli per terra.

La valchiria sollevò il viso insonnolita, con i capelli ricci più arruffati del solito, e si strofinò gli occhi con una mano tirando un pugnetto stizzito sul dorso dello sleipnir.

-Ma ti pare il modo di svegliare la gente?

Il cavallo nitrì sdegnoso e finalmente Svan si decise a guardare all’orizzonte, dove un’enorme distesa d’acqua rifletteva il sole.

Finalmente era arrivata al mare.
 

 
°°°°°
 
Tutto quel brulicare di vita la sconcertò, in un primo momento.

Gli ultimi mesi erano trascorsi nelle foreste, per le strade più sperdute e nei villaggi più piccoli, dove era certa che non ci fosse nessuno in grado di riconoscerla.

Dopo lo sconcerto, però, giunse il dolore.

Vedere tutte quelle persone indaffarate, le famiglie e gli animali le ricordava casa sua.

Certo, nella città da cui proveniva e in quelle che aveva visitato non c’era tutto quel caos, anzi. L’ordine e l’uniformità erano essenziali per le valchirie.

Tutte le case della stessa pietra, tutte le persone vestite elegantemente, persino gli animali stavano tranquilli e silenziosi nei loro cortili. I bambini venivano educati per essere studiosi, guerrieri, artigiani, e non avevano tempo per il gioco, né in tempo di pace né in tempo di guerra.

Eppure Svan non poté evitare di pensare alla sua famiglia.

Sua madre era morta dandola alla luce, e aveva segnato il suo destino come generale, ma, prima di lei, aveva avuto due gemelli maschi.

Aden, da sempre appassionato alla lettura,  aveva seguito le orme di loro padre, intraprendendo la carriera di professore, mentre Clum era diventato armaiolo. Sarebbe potuto diventare un valente soldato, la pratica per quanto rara valeva ancora, ma aveva preferito stare nelle fucine a creare armi che spesso erano vere e proprie opere d’arte. La sua sciabola l’aveva forgiata lui, e forse proprio grazie alla bellezza quell’arma era diventato l’armaiolo di corte.

Chissà, magari aveva salvato la sua spada dalle grinfie di qualche membro del consiglio e adesso la teneva per ricordo. Non lo avrebbe mai saputo, non aveva avuto nemmeno il tempo di salutarli dopo la condanna e di sicuro non sarebbe mai riuscita a rincontrarli.

Le imprecazioni borbottate da uno gnomo che spingeva un carretto la distolsero dal ricordare e la fecero concentrare sul crogiolo di razze che era quel paese sul mare.

Mentre il tozzo essere si allontanava caracollando, le erano sfilati accanto un gruppo di lavandaie che contava anche giovani dai capelli rossi evidentemente di un’altra terra, un elfo con una sacca a tracolla e un piccolo della stessa razza per mano, un’amadriade con la pelle di corteccia e un druido avvolto in un mantello, che però si dirigeva verso il bosco.

Non aveva mai visto tanti esseri diversi nello stesso posto.

Certo, le era capitato di vedere elfi, da sempre alleati con gli uomini, militare tra gli eserciti degli umani, oppure di incrociare spiriti della natura, ma tutta quella confusione la disorientava.

Ci pensò Hrìm a svegliarla, strattonando le briglie.

Lo sleipnir aveva ragione, dovevano muoversi e trovare qualcuno che li traghettasse oltre il mare, dove avrebbe trovato di sicuro qualcuno disposto a rimuovere loro le catene, poi sarebbero stati liberi.

L’unico problema consisteva nel fatto che non avevano nulla da scambiare.

Svan sapeva che ogni cosa aveva un costo e traghettare qualcuno e il suo cavallo senza fare domande aveva di sicuro un costo molto alto.
 

Il porto era se possibile ancora più caotico del paese.

Venditori si sbracciavano per attirare compratori, poveri mendicanti si affiancavano a nobili prossimi alla partenza o, più raramente, di ritorno da un viaggio nelle terre del sud, mentre abili borseggiatori alleggerivano le tasche di chiunque pareva averle piene di qualcosa di valore.

Giovani forzuti caricavano e scaricavano merci dalle navi, gioia per gli occhi delle ragazze di passaggio, mentre vecchi pescatori aggiustavano le proprie reti sui piccoli moli di legno a loro destinati.

L’aria era satura di odori e suoni.

Il profumo delle pietanze offerte dai venditori ambulanti si mischiava a quello della salsedine, del pesce appena pescato, di un carico di spezie pronto a salpare, del profumo delle nobildonne che concitate controllavano che i loro numerosi bagagli venissero caricati adeguatamente e che redarguivano i marinai con i loro toni composti i quali si perdevano tra le grida dei bambini, gli apprezzamenti dei ragazzi alle giovani di passaggio e le relative risatine,  gli incitamenti dei capitani agli equipaggi,  gli inviti dei mercanti.

Se non fosse stato per tutti i nobili in partenza non si sarebbe mai detto che a poche centinaia di miglia da lì si stesse combattendo una sanguinosa guerra tra le valchirie e l’esercito degli uomini.

In tutto quel confuso andirivieni, Svan vide a colpo d’occhio un vascello mercantile prossimo alla partenza.

La nave dava l’impressione di averne passate tante ma di essere in grado di sopportare parecchi altri viaggi. Le vele erano grigiastre, consumate dal vento e dalla salsedine e riparate da grosse toppe colorate.

Avvicinandosi notò che anche lo scafo sembrava rattoppato, con alcune assi di legno più nuovo sullo sfondo di quello impregnato di pece e sale. Tra la polena a forma di arpia e il nome “Apokalypse” vergato in nero con grosse lettere regolari sembrava proprio che il capitano non solo volesse tenere lontani i mostri del mare ma anche eventuali clienti.

Qualcuno, però non si era fatto scoraggiare visto che diversi giovani salivano e scendevano dalla passerella ripetutamente caricando delle casse e dei sacchi a bordo.

Non proprio tutti.

Un giovane, invece di dare una mano, se ne stava appoggiato tranquillamente ad una pila di sacchi e si pavoneggiava con un gruppo di ragazzine tra cui si distinguevano le chiome rossa e bruna di due umane e lo sguardo confuso e ammirato di una ninfa delle acque. Era palese che i marinai lo conoscessero, viste le occhiatacce che riceveva, eppure non si schiodava dal gruppo di ragazze.

Hrìm le strofinò il muso sulla spalla, poi le diede una spintarella verso il ragazzo, sembrava averle letto nel pensiero.

Svan spinse i capelli indietro perché non si vedessero mentre lasciava scoperta la metà inferiore del viso.

Quella era una battaglia, ed evidentemente il punto debole della sua prossima conoscenza erano le belle ragazze e i complimenti. Non aveva mai prestato troppa attenzione al suo aspetto, ma aveva gli occhi grandi ed il viso regolare e pulito, quindi si poteva ritenere oggettivamente carina, nonostante le forme femminile fossero state trasformate nel corpo di un soldato da anni di allenamento.

La valchiria sperò vivamente che si accontentasse, perché non poteva sapere se sarebbe stata osteggiata anche in un punto di scambio come quello.

Prese un respiro profondo e avanzò verso il ragazzo cercando di tramutare il suo passo da soldato in quello di una ragazza affascinante.

Non le venne molto bene, quindi ripiegò su un sorriso malizioso e pregò la sua buona stella –era ora che si svegliasse dopo tutto quello che aveva passato- di riuscire ad attirarne positivamente l’attenzione nonostante l’aspetto e di ricavare più informazioni possibili prima di approcciarlo.

Avvicinandosi notò che forse tutta quell’attenzione femminile se l’era meritata. Era davvero di bell’aspetto, e forse il suo sangue non umano aiutava, visto che era palesemente un mezz’elfo.

I capelli rossi degli umani delle terre del sud erano striati di bianco, come quelli degli elfi, razza che ricordava anche nelle orecchie a punta e nella statura snella e muscolosa. La pelle era abbronzata e gli occhi color ghiaccio davano l’impressione che fosse distante anni luce, perso in chissà quali filosofici pensieri. Svan era certa che comprendessero solo la dolce compagnia che lo attorniava e una camera da letto molto comoda e lussuosa, cosa che di sicuro si poteva permettere dati i vestiti costosi che indossava. Di certo non era un marinaio, magari un mercante.

Visto che la sua presenza non sembrava sortire l’effetto voluto, lasciò che l’aspetto di Hrìm e il suo nitrire scocciato –quasi geloso, avrebbe detto- attirasse l’attenzione.

Così avvenne.

Il giovane smise di raccontare chissà quale impresa alle ragazze che lo attorniavano, e l’aria palesemente immodesta venne sostituita da uno sguardo affascinato.

Le fece cenno di avvicinarsi,  e visto il sorriso che aveva in volto doveva essersi accorto che era una ragazza.

-Bel cavallo. – esordì, lanciandole uno sguardo svenevole.

-Non immagini nemmeno quanto. – trillò, e a quel commento lo sleipnir smise di brontolare e si erse in tutta la sua magnificenza – Però è anche molto suscettibile, - lo rimbrottò ridacchiando – e si fa cavalcare solo a pelo e pretende sempre di avermi tutta per sé. Non immagini quanto sappia essere lunatico, vero?

Si era disabituata a parlare con la gente, e considerato che stava morendo di fame parlare come una contadinella innamorata non le andava proprio, ma se fosse riuscita ad accalappiarlo magari avrebbe rimediato anche un pasto e quel pensiero le ridiede subito la voglia di recitare.

-E come si chiama questa meraviglia?

-Si chiama Hrìm. – continuò accarezzandogli il collo e ignorando la frase d’abbordaggio. Bella e ingenua, cosa si voleva di più dalla vita?

-Non parlavo del cavallo. – il tono accondiscendete la rassicurò sul fatto che lui avesse pensato la stessa cosa.

Svan tentò una risatina che venne fuori un po’ gracchiante, e smise di accarezzare il cavallo.

-Io sono Svan.

Il mezz’elfo le prese una mano con gentilezza e, inchinandosi, le fece un elegante baciamano, mentre le ragazze dietro di lui fissavano la valchiria come se avessero voluto ucciderla con lo sguardo. La ragazza ringraziò il cielo che le streghe non perdessero tempo a vagare per i porti alla ricerca di ragazzi, perché altrimenti ce ne sarebbe stata di sicuro una lì davanti a lei pronta a trasformarla in uno scoiattolo. Contrariamente alle credenze, le streghe erano ragazze e donne dai gusti generalmente normali, e di sicuro a loro i rospi facevano schifo come a chi non aveva poteri.

-Io sono Dale. È un piacere conoscerti. – si rialzò senza lasciarle andare la mano, ma addirittura intrecciando le loro dita – Hai l’aria di essere stanca, vogliamo andare in un posto tranquillo dove mangiare qualcosa?
 

In una locanda poco distante dal porto, davanti ad un bel piatto di carne, Dale confermò buona parte dei sospetti di Svan.

Era il figlio di un mercante, amico del proprietario della nave, e doveva provvedere a scortare un importante carico di stoffe fino ad una città dal nome impronunciabile dall’altra parte del mare, poi, con il benestare del padre, avrebbe potuto seguire il volere suo e della madre, l’elfa della famiglia, e frequentare un’accademia di belle arti, perché, con falsa modestia, la informò di essere discretamente bravo a dipingere.

In mezzo a quel fluire di informazioni parzialmente inutili e non richieste, Svan riuscì a fare accenni al suo bisogno di un viaggio, usando come scusa una malattia che era anche il motivo per il quale non voleva togliere il cappuccio. Era riuscita a non far sentire le catene arrotolandole strette attorno ad una caviglia, ma così era stata costretta a muoversi con passi piccoli e traballanti, anche loro spiegati con quest’ipotetica malattia che, nonostante tutto, non sembrava aver scoraggiato il dongiovanni.

Evidentemente gli mancava una ragazza malata, misteriosa e appassionata di cavalli nella lista di conquiste.

-E quando avresti intenzione di partire? – domandò Dale a bruciapelo, interrompendo un’avvincente discussione sui lunghi viaggi a cavallo.

-Il prima possibile. – replicò tamburellando il coltello sul bordo del piatto ormai vuoto – Perché lo chiedi?

-Ti ho detto che il proprietario dell’Apokalypse è amico di mio padre, vero? – Svan annuì – Se ti dicessi che potrei mettere una buona parola per far viaggiare anche te? E anche per far trasportare il tuo cavallo, naturalmente.

-Sarebbe magnifico! – per la sorpresa lasciò cadere le posate e batté le mani, tirandosi addosso lo sguardo di metà della clientela della locanda.

Dale le regalò un sorriso sghembo, per la prima volta sincero, e le porse la mano.

-Andiamo a fare due chiacchiere con il capitano, milady. – lasciò cadere due monete sulla tavola e la prese a braccetto, accompagnandola fuori.

Per la prima volta sembrava andare tutto bene.

Per l’appunto, sembrava.

Fuori in strada stava per slegare Hrìm, quando un cane randagio che scappava da un inferocito venditore ambulante le si fiondò contro, facendole perdere l’equilibrio. Barcollò all’indietro destabilizzata dalla poca base d’appoggio che aveva dovendo tenere la catena arrotolata alle caviglie e si ritrovò a battere la schiena contro il muro. Nel tentativo di ritrovare l’equilibrio, si appoggiò ad un cavallo pezzato che era legato accanto al suo sleipnir ma quello si allontanò bruscamente e lei finì seduta per terra nella polvere davanti a Dale, con il cappuccio ancora su per miracolo ma con le catene in bella vista.

Nonostante lei le avesse nascoste subito sotto l’orlo del mantello, il giovane mezz’elfo non ci mise che un secondo a riconoscere l’origine dei simboli incisi. Rimase immobile con la bocca socchiusa, poi si riprese e scosse la testa.

-Mi dispiace. Non so cosa ti sia successo, ma non posso fare nulla per te.

-Dale, ti prego …

Ma, nel tempo che ci impiegò a rialzarsi, Dale si stava già allontanando a grandi falcate attraverso la folla.

Svan tolse la polvere dal mantello, ignorando la gente che si era raccolta attorno a lei e rimanendo come incantata a guardare il punto in cui il mezz’elfo si stava allontanando.

Hrìm nitrì scocciato e scrollando la testa sciolse il nodo lento delle briglie, poi afferrò tra i denti il mantello della valchiria, uno strattone e già si erano incamminati.

 
  
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