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Autore: papavero radioattivo    08/04/2015    3 recensioni
― DAL CAPITOLO PRIMO. ―
«Sascake?» ripeté Itachi, quasi confuso.
«Sascake» gli fece eco Asami, «Sasuke è un piccolo cupcake, non vedi?» continuò, indicando il più giovane, «ha la faccia da cupcake. Non esistono i cupcake in Giappone?» continuò.
«E tu dai nomignoli alle persone appena le conosci?» domandò Itachi, particolarmente divertito
.

Itachi ha ottenuto l'affido di suo fratello minore e si è trasferito a Londra per lavoro. In questa nuova città, completamente diversa da Konoha, Sasuke si porta dietro i suoi quindici anni appena compiuti ed una grande rabbia nei confronti del maggiore, che lo ha costretto a lasciare i suoi amici e la sua vita senza dargli nemmeno tante spiegazioni in merito.
Frustrato e spaesato, Itachi dovrà fare i conti con Sasuke e con una città che non conosce. Il mutismo del fratello, inoltre, non aiuta la situazione, facendo diventare il clima in casa pesante ed invivibile.
È nel marasma quotidiano che Itachi incontra Asami, una ragazza dai tratti orientali che non conosce una sola parola di giapponese ma si definisce inglese al cento per cento.
Senza volervo, il più grande degli Uchiha è finito sulla strada che lo condurrà al suo Ikigai, alla sua ragione per vivere.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Itachi, Nuovo Personaggio, Sasuke Uchiha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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capitolo

S E C O N D O

 

Non è un appuntamento.

 

 

 

Calmati, Itachi. Continuava a ripeterselo, gettando il cellulare nel sedile passeggero, osservando con ansia il semaforo rosso davanti a lui.

Aveva chiamato Sasuke per dirgli che aveva visto un dojo mentre andava al lavoro,  e che forse poteva interessargli. Magari avrebbe parlato, si era detto, cercando di essere ottimista. E invece cos’era successo? Quell’ingrato quindicenne gli aveva chiuso la chiamata in faccia e mandato un messaggio poco dopo, scrivendo che la cosa non gli importava, che il karatè non rientrava nei suoi interessi. Itachi pensò, per un momento, di rispondergli per le rime e sparire fino a tarda notte, per vedere cosa sarebbe successo.

Ma la verità era che non sarebbe successo un bel niente – si sarebbe solo abbassato al livello di bambinaggine di Sasuke, e non era un prezzo che era disposto a pagare.

Respirò a fondo mentre il semaforo diventava verde, concentrandosi sulla strada piuttosto che ripensare al mutismo insensato di Sasuke. Nel momento in cui schiacciò il pedale per ripartire, un tonfo arrivò da dietro e la cintura premette contro il suo sterno, impedendogli di andare a finire con la faccia sul volante.

Un clacson gli riempì le orecchie e la serie di macchine in coda gli sfrecciarono davanti.

Ci mancava solo il tamponamento.

Respirò ancora più a fondo di prima, pregando tutti i kami che conosceva di dargli la forza e la calma di risolvere tutto senza problemi e il più velocemente possibile. Slacciò la cintura e spense la macchina, lì, in mezzo alla strada, ignorando le lamentele in inglese del resto del mondo, concentrandosi sulla sua conoscenza della lingua per patteggiare una soluzione veloce ed efficace che avrebbe giovato entrambi.

Certo, è colpa mia che non sono partito subito si disse in inglese, preparandosi la frase, l’urto non è stato tanto forte, no? Possiamo tranquillamente vedercela tra di noi, senza assicurazione. Gli sembrava perfetto.

«Itachi!» la voce di Asami gli sembrò quasi sollevata che fosse lui la sua vittima. La vide corrergli incontro e per un momento ebbe l’impressione che gli sarebbe saltata addosso. «Mi dispiace per la macchina» gli disse, chinandosi ad osservare la piccola ammaccatura, a suo dire quasi inesistente, che nemmeno si notava.

«Non preoccuparti» sospirò, tirandosi in giù la maglia, infilando poi le mani in tasca, «Va bene così. Ce la risolviamo tra di noi, okay?». Gli aveva fatto piacere vedere Asami, davvero, ma era ancora inviperito dal comportamento senza senso di Sasuke, e non riusciva a concentrarsi su quanto – per dirne una – fosse carina anche in tuta e con i capelli legati, e che di certo gli avrebbe fatto piacere vederla in un’occasione più tranquilla. Senza fratelli lunatici o tamponamenti.

«Mi piace come ragioni, Itachi» disse lei, tirandogli una leggera gomitata sul braccio, «Per questo ho intenzione di offrirti la cena, che ne dici?».

E la macchina?. Per un momento Itachi si chiese cosa avesse detto, se il suo pensiero corrispondesse a quello che poi gli era uscito dalla bocca o se Asami avesse semplicemente capito male. Guardò lei, fiduciosa in un sì, e poi la quasi inesistente ammaccatura. Beh, mettere a posto la macchina di certo non rientrava nelle sue priorità, e una cena fuori senza Sasuke perennemente con il broncio non poteva fargli altro che bene.

«Una cena può andar bene» disse poi, accennando un sorriso, e le labbra di Asami si arricciarono appena.

«Bene!» affermò felice, «se tutti quello che ho tamponato nella mia vita ragionassero come te, a quest’ora avrei abbastanza soldi per comprarmi l’Islanda!» disse, ed Itachi non capì fino in fondo se stesse scherzando, oppure se fosse davvero così avvezza agli incidenti in auto.

 

  -――-

 

Itachi si allacciò le scarpe seduto sul divano, sotto lo sguardo fisso di Sasuke che si era auto-nominato madre nevrotica e apprensiva della situazione.

«Quindi è un appuntamento?»  gli domandò incrociando le gambe, cambiando con un certo disinteresse il canale della televisione.

Il più grande gli sorrise alzandosi, scompigliandogli i capelli con il palmo della mano, «No, non è un appuntamento» rispose, dirigendosi verso la penisola della cucina, «Ti ho lasciato la cena nel microonde, è già impostato, devi solo farlo partire» lo informò, recuperando poi la giacca leggera. «Chiuditi dentro, porto le chiavi» aggiunse mentre se la infilava, «E se chiaman―».

«Se chiama qualcuno dell’Akatsuki gli dico di cercarti sul cellulare, lo so» lo anticipò lui, stendendosi sul divano e strappandogli un piccolo sorriso.

Itachi si sentiva un po’ in colpa a lasciarlo a casa da solo, ma aveva quindici anni, oramai era autosufficiente, e preoccuparsi era praticamente inutile e stupido.

   «Se entro le undici non sono tornato vai pure a letto» si limitò a dire, e poi lo salutò mentre usciva di casa, chiudendosi la porta alle spalle.

Dire che non era in apprensione sarebbe stata una bugia, dopotutto non lo aveva mai lasciato da solo, soprattutto dopo la morte dei loro genitori. Si era sempre comportato più come un padre e una madre, piuttosto che come un fratello, anche quando li avevano affidati ai loro zii.

Shisui era sempre stato più bravo con Sasuke, lo faceva ridere, sapeva farlo divertire, mentre lui si limitava a rimbeccarlo su ogni cosa, e a controllare che avesse fatto tutti i compiti, e che non si facesse male quando giocava in giardino.

Forse avrebbe davvero dovuto lasciarlo a Konoha, con lo zio Kagami e la zia, forse non era stato saggio battersi per il suo affidamento, ma oramai lo aveva fatto, e per quanto il suo fosse stato un mero atto di egoismo, teneva a Sasuke più di ogni altra cosa.

Era lui ad avere bisogno di Sasuke, non il contrario.

Salì in macchina lanciando un’ultima occhiata all’ammaccatura, certo che in qualsiasi caso avrebbe avuto il tempo per riparla più avanti, quando la sua vita avrebbe preso una piega più tranquilla, e la retta della scuola di Sasuke sarebbe stata saldata, e poi mise in moto cercando di ricordare le spiegazioni di Asami per raggiungere casa sua.

Guidò nel traffico, maledicendo Londra, il fatto che fosse stato costretto a trasferirsi per lavoro, e le pessime spiegazioni di Asami, e quando finalmente trovò la via ed il numero civico parcheggiò davanti alla palazzina, mandandole un messaggio per avvisare che la stava aspettando.

Sorprendentemente non ci volle molto prima che la ragazza uscisse dalla portineria con la mano alzata in segno di saluto, aprì la portiera e poi si accomodò sul sedile passeggero, poggiando la borsa nera in pelle fra le gambe.

«Ciao!» sorrise radiosa poggiandosi allo schienale, «Scusami, ma stavo dando da mangiare a Guinness» ammise sotto lo sguardo confuso di Itachi. Probabilmente la stava prendendo per pazza, se non lo avesse già fatto quando si erano incontrati in quel ristorante, «La mia gatta» spiegò, mettendo le mani avanti, «È incinta, e se non le doso le porzioni di cibo si mangia anche la ciotola» scherzò, rubando un sorriso al ragazzo che la guardava.

«Adesso ho capito perché avevi tutto quel cibo per gatti nel carrello» replicò, e lei annuì sorridendo.

«In realtà ne ho due, un maschio e una femmina, ma dal momento che fra qualche mese nasceranno i piccoli mi sto attrezzando» gli disse, certa che probabilmente quella era la ragione principale per cui aveva ventidue anni ed era single. Avrebbe fatto la fine di quelle vecchie che tengono i gatti morti nel freezer, e per quanto amasse gli animali l’idea non l’allettava affatto. «E tu? Hai lasciato il tuo cupcake a casa da solo?» domandò, cercando di cambiare argomento.

Itachi annuì, «Sì, ha la cena nel microonde e tutto quello che gli serve» le rispose, tenendo le mani sul volante, «Un po’ come i tuoi gatti» aggiunse, strappandole una risata.

Asami si ricompose in fretta, sistemandosi la maglia e i pantaloni, «Comunque ti porto in un bel posto, stasera» o almeno, quello che per lei era un bel posto, «Tu ci porti» si corresse poi, dato che era lui quello che guidava, «Ed io ti dico la strada».

Itachi mise in moto seguendo le indicazioni della ragazza che, come un perfetto navigatore satellitare, gli riferiva la strada con frasi come “a destra” oppure “alla rotonda prendi la seconda uscita” fra un discorso e l’altro.

«E dimmi un po’, Itachi» riprese dopo l’ennesima indicazione, «Che ci fate voi due, soli soletti a Londra?» chiese, sperando di non essere troppo invadente.

Il ragazzo rimase concentrato sulla strada, senza guardarla, «Sono qui per lavoro, e dal momento che Saske è affidato a me, siamo qui entrambi» spiegò, continuando a guidare.

Asami non si sentì di domandargli perché fosse affidato a lui, non si conoscevano abbastanza, e in più immaginava da sé il motivo per cui si fosse fatto carico del suo fratellino. «Posso chiederti che lavoro fai?» continuò a tartassarlo, decidendo che era quella la cosa più logica da dire.

«Lavoro per un’azienda ottica» le disse, rivolgendole un sorriso, «E tu? Cosa fai?».

Asami poggiò il gomito al finestrino, guardando fuori «Oltre a tamponare i bei ragazzi con la macchina?» domandò retorica, maledicendosi subito dopo della stronzata che aveva appena proferito, «Insegno karatè in un dojo, a sinistra!».

Itachi mise la freccia all’ultimo, svoltando di colpo e beccandosi gli insulti e le strombazzate del clacson dell’autista dietro di loro.

«Siamo arrivati, è quello là, il posto» comunicò, slacciandosi la cintura e aspettando che Itachi parcheggiasse.

Il ristorante era un semplice all you can eat giapponese, non molto grande, con un nastro al centro sul quale giravano piattini colorati e decorati. Asami gli fece strada con un sorriso, parlando con il cameriere che mostrò loro un tavolo per due, invitandoli ad accomodarsi.

«È un bel posticino, ci vengo spesso  a cena» disse, sfilandosi la giacchetta nera ed appendendola alla sedia, «Il proprietario è un mezzo parente di mio padre, credo» continuò, spiegando il tovagliolo e poggiandoselo sulle gambe, «Ma fra dinastie e tutto il resto non ci capisco niente, sono praticamente per il novantasette percento inglese per quanto riguarda la cultura e queste cose».

Itachi la seguì sistemando il cappotto sullo schienale, «Quindi tuo padre è giapponese» chiese, e sebbene la domanda suonò più come un’affermazione , Asami annuì.

«Anche se è nato qui, quindi non molto, in realtà» rispose, afferrando un piattino lilla dal nastro, «Ma è molto legato alle tradizioni e queste cose» aggiunse, separando le bacchette con un sonoro clack, prima di afferrare il sushi che aveva nel piatto.

Itachi la imitò sorridendole, servendosi a sua volta, «Anche mio padre era molto tradizionalista» le confessò, usando quel verbo al passato che le confermò che lui e Sasuke erano orfani. Lo guardò prendere del pollo con le bacchette, in un movimento così naturale che la fece sentire una cretina.

Erano anni che mangiava nei ristoranti giapponesi, e ancora non aveva capito come si tenessero quei due dannati bastoncini!

«È buono come in Giappone?» la domanda le uscì spontanea, era la cosa più logica che potesse chiedergli dopo il “Insegnami ad usare queste due cose”, ma non le era sembrato il caso di prendersi così tanta confidenza.

Il ragazzo portò il bicchiere alle labbra e poi arricciò appena il naso in una leggera smorfia che rese ancora più dolci i lineamenti del su viso, «Ci siamo quasi».

«Io non sono mai stata in Giappone» confessò, senza che qualcuno glielo avesse chiesto, non sforzandosi nemmeno un briciolo di reprime  il suo problema di prolissità. Parlava solo lei, doveva stare un po’ zitta.

Ecco trovato il secondo motivo per cui era single.

«Voglio dire, sono stata ad Okinawa, ma Okinawa non è né Giappone né Cina, è solo una cosa a metà, più Giappone, forse, ma comunque non lo è» farneticò mentre Itachi  ridacchiava, portandosi un altro po’ di pollo alle labbra.

Il modo in cui Asami gesticolava mentre parlava gli fece temere che potesse accecare qualche cameriere con una delle bacchette, «E non ti hanno insegnato come si tengono le bacchette?» domandò, allungando la mano libera per sistemarle le dita sui due bastoncini.

Asami arrossì, forse per la prima volta da quando si erano incontrati, «… così» le disse, mostrandole come si faceva, e poi tornò composto, mentre lei lo fissava con l’aria confusa. Provò a prendere un’alga, ma a metà strada gli cadde sul pavimento, facendola scoppiare in una risata.

«Si è suicidata piuttosto di vedermi usare le bacchette in questo modo» scherzò, tornando poi ad usarle come aveva sempre fatto, cioè nel modo più sbagliato possibile. «E Sasuke? Si sta ambientando?» gli chiese, cambiando argomento, più che altro per far parlare un po’ anche lui.

Itachi sospirò scuotendo il capo, «No, ma non ha grossi problemi con la lingua, è un ragazzino intelligente e sveglio» spiegò, come a voler dire che non era un problema di comunicazione, quanto di una semplice crisi adolescenziale, «Gli mancano i suoi amici, suppongo» aggiunse, ma in realtà non sapeva nemmeno lui quale fosse il problema. Lui non voleva parlarne, e forzarlo avrebbe solo peggiorato la situazione.

Guardò Asami inclinare appena il capo, le sue labbra dipinte di un rosa pallido si inarcarono appena, «Potresti dirgli di venire a fare karatè al mio dojo» propose, come se dandogli qualcosa da fare avrebbero potuto risolvere almeno in parte il suo mutismo e i suoi comportamenti dispotici, «Così non fa il triste asociale a casa».

Non era un’idea così pessima, ma il problema fondamentale era che Sasuke non voleva saperne di fare nulla, se non di starsene chiuso in camera sua a leggere.

«Se riesco a convincerlo» e non sarebbe stata un’impresa facile, per niente, «Ti faccio sapere per messaggio, tanto il tuo numero lo ho» le disse, preparato psicologicamente al fatto che Sasuke gli avrebbe risposto con dei versi gutturali senza un senso. «È che ultimamente non parla molto, siamo passati dallo scrivere sui fogli, ai mugolii insensati, e mi sto chiedendo se non fossero meglio i fogli, a questo punto» confessò affranto e rassegnato, recuperando un piatto di sushi dal nastro.

Asami ridacchiò coprendosi la bocca con il dorso della mano, «Quanto scommetti che in una settimana te lo rimetto in riga?» parlò poi, bevendo un sorso d’acqua, «Niente torture medievali, lo giuro» si premurò di aggiungere, come se stesse cercando di rassicurarlo sul fatto che non avrebbe legato Sasuke tirandolo per le gambe e le braccia.

«Gli parlerò…» le rispose, ed il discorso Sasuke morì lì.

La cena continuò indisturbata fra i commenti e le domande di Asami, e quando ebbero finito e si alzarono dal tavolo insistette – come aveva promesso – per essere lei a pagare, «Prendilo come una parte del risarcimento per l’ammaccatura della macchina» gli disse, e poi uscirono e salirono in auto.

«Che cosa spinge una ragazza ad insegnare karatè?» le chiese d’un tratto Itachi, concentrato mentre guidava, ed Asami si strinse nelle spalle.

«È l’unica cosa che mi resta di mio nonno, l’unica cosa che ho della mia cultura» spiegò, sistemandosi meglio sul sedile, «E poi mi piace prendere a calci la gente, è una buona valvola di sfogo» aggiunse con un sorriso, spostando lo sguardo fuori dal finestrino. «Mi fa sentire in pace con me stessa, e poi non guarda al sesso e all’età, tutti possono impararlo, esistono maestri di settant’anni che ancora si allenano» ammise, sistemandosi poi i capelli lunghi su una spalla, pettinandoseli con le dita, «Solo che al giorno d’oggi viene insegnato male da molti, quindi passa per lo sport violento che in realtà non è» concluse, poggiando la testa al sedile.

Itachi la guardò per una frazione di secondo, sforzandosi di restare concentrato sulla guida: era una bella ragazza, indipendente e simpatica, sprizzava vitalità da ogni singolo poro, come un piccolo sole che riscalda il minuscolo microcosmo che gli sta attorno.

Era stato fortunato a conoscere una persona come lei, così disponibile in tutto, forse un po’ espansiva, ma nessuno era perfetto.

«Siamo arrivati, la tua gatta ti aspetta» le disse, accostando l’auto davanti alla portineria della palazzina, «Grazie per la cena» e Asami fece un gesto con il braccio, come a voler cacciare una mosca fastidiosa.

«Te l’ho detto, e il risarcimento per la sfortuna di essere stato colpito dalla mia pessima guida» sorrise aprendo la portiera, «Fammi sapere per Sasuke» aggiunse, alzando poi la mano in segno di saluto, «Buonanotte e grazie a te» concluse, chiudendo poi lo sportello dell’auto, avviandosi verso l’entrata del palazzo.

 

  -――-

 

Itachi entrò in casa togliendosi il cappotto, accendendo la luce del soggiorno.

Sasuke dormiva sul divano, con un libro aperto sulla pancia e lo sguardo rilassato. Non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che lo aveva visto riposare così, senza quell’incubo ricorrente in cui i loro genitori venivano uccisi uno dopo l’altro.

Gli sembrò di sentire di nuovo la deflagrazione di quei proiettili, nella sua testa, mentre le sue mani tappavano erroneamente le labbra di Sasuke e non i suoi occhi.

Non doveva gridare, e non lo aveva fatto.

Gli sfiorò i capelli leggermente in disordine con una carezza, indeciso se spostarlo o lasciarlo lì, a passare la notte sul divano.

Non voleva disturbare quel sonno piatto, simile all’acqua del lago di Konoha. Non voleva essere il bambino che lanciava il sasso, distruggendo quella pacifica quiete che avvolgeva ogni cosa. Si sedette sul pavimento, sfilandosi le scarpe e la maglia, osservando il suo petto alzarsi e abbassarsi lentamente, con una regolarità che gli rilassava ogni nervo. Lo aveva protetto per tutti quegli anni, come si custodisce un fiore estremamente raro e prezioso, sotto quella campana di vetro che lui tentava di distruggere.

Forse lo odiava per questo, lo avrebbe fatto per sempre, ma poteva accettare anche questo, anche di essere odiato pur di dargli una vita felice e serena.

Si alzò recuperando una coperta, avvolgendolo in quella, fino alle spalle, e poi poggiò delicatamente la fronte contro la sua.

«Buonanotte, Saske» mormorò piano, con un filo di voce, avviandosi poi verso la camera da letto.

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Che dire? Beh, non c’è molto da dire!

Le cose tra Itachi ed Asami si stanno muovendo, pian pianino

Lasciamo a voi le varie considerazioni, informandovi solo che gli zii di Itachi e Sasuke sono Kagami e sua moglie e che, quindi, Shisui è il loro cugino.

Scusate per la pochezza delle note, ma oggi è una giornata un po’ impegnativa ;)

 

Ringraziamo il seguito che Ikigai ha ricevuto già dall’inizio… non ce lo aspettavamo affatto!

Noi ci rivediamo il 15 aprile con il terzo capitolo

Alla prossima e grazie mille per aver letto ;)

 

papavero radioattivo





   
 
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