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Autore: coldnight    17/04/2015    8 recensioni
Austin Reed ha imparato ad amare la musica sin da quando era un marmocchio; sin da quando camminava a gattoni e gemeva tentando di dire parole senza senso. La musica era il suo sole, il venticello fresco che scompigliava i capelli e l'aria buona che entrava nelle sue narici.
Non temeva la pioggia, i tuoni od i lampi, ma non gli piacevano le nuvole. Grigie o bianche che fossero. Non le amava specialmente se erano lattee o sembravano lucide. Gli ricordavano le mozzarelle, e lui odiava le mozzarelle.
Austin Reed ha diciannove anni e infondo vorrebbe saper sognare. Sa parlare - fin troppo - e si regge sulle proprie gambe meglio di quanto egli stesso possa credere. Ama il sole, il vento, la pioggia. Ma si ritrova ancora ad odiare le mozzarelle e le nuvole, quelle nuvole fastidiose che non gli permettono di vedere.
[Momentaneamente sospesa]
Genere: Fluff, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo dieci: Immortals.
 
“I’ll try to picture me without you but I can’t
'Cause we could be immortals, immortals
Just not for long, for long
If we meet forever now, pull the blackout curtains down
Just not for long, for long
We could be immortals, immortals,
Immortals”
 
   L’assenza di una persona cara causa una ferita irreparabile, e questo lo sapevano bene entrambi, mentre si guardavano negli occhi. Avevano visto le chiazze ormai secche delle uova sparse per il marciapiede che Nathan voleva tanto far vedere loro. Si erano persino messi a ridere, vedendo la faccia schifata di Natalie. Quel bambinone biondo non sarebbe mai cambiato, mai. Il sorriso genuino e lo sguardo limpido. Vederlo triste era davvero strano. In un modo o nell’altro lui sapeva brillare. Da bambino pareva quasi un angioletto, con i capelli d’oro e gli occhi oceano. Eppure era un tale casinista. Correva da tutte le parti, scendeva e saliva le scali a velocità impressionante e delle volte ci rotolava fino a farsi veramente male. Però al posto di piangere rideva: era divertente capitombolare da lassù. Austin scosse la testa, vedendo i suoi compagni dall’altra parte del fiume, in particolare il ragazzo preso in considerazione che stringeva tra le braccia la sua ragazza. Prese a guardare Rachel, al suo fianco, con le ginocchia al petto e la testa poggiata ad esse. Avevano intenzione di andare al cimitero, così lei avrebbe spiegato, gli disse. Quella passeggiata sarebbe stata strana, se lo sentivano. Rivangare i ricordi, ricomporli, sentirli. Se avesse dovuto raccontare di come si sentiva dopo che suo madre venne a mancare probabilmente non avrebbe saputo cosa dire.
   « Pronta? » chiese, porgendole una mano. Lei annuì, accettandola con un sorriso mesto in viso. Tremava leggermente a dover raccontare tutto così, di getto. Però le sembrava giusto. L’aveva baciata, e sentire il suo sapore nelle labbra le fece credere che quello fosse il momento giusto. Conoscendo Austin da mesi aveva capito che non era un ragazzo semplice. Probabilmente se l’avesse visto da lontano l’avrebbe spacciato per omosessuale. Le venne da ridere, segnandosi a mente che in un momento meno delicato avrebbe voluto fargli quella confessione per godersi le espressioni del suo viso. « Posso prenderti per mano? » chiese poi. Il malpelo allacciò le dita a quelle della ragazza, leggermente teso. Non sapeva cosa diamine aspettarsi. Gli altri li aspettavano sempre nella solita panchina, li salutavano con la mano e poi: « Non fate robacce, siete in un cimitero! » Nathan intervenne. « Coglione » commentò Austin, preoccupato che Rachel non se la fosse presa. Con sua sorpresa la trovò a ridacchiare. « Oh, non preoccuparti. So di essere al sicuro insieme a te » gli fece l’occhiolino e gli parve di sentire le guance colorarsi un poco. Come al solito si diede del cretino.
     Dopo aver camminato un po’ Rachel si fermò su una lapide bianca, con raffigurato il volto di un bambino. Leggendo la data di nascita e morte Austin capì avesse dodici anni. Rachel si sedette, invitando lui a fare lo stesso. Prese un respiro profondo, dopo di che i suoi occhi si inumidirono. « Lui è » si fermò un secondo. Austin strinse più forte la sua mano, chiedendosi se non fosse abbastanza. Vide gli occhi neri puntarsi nei suoi, una domanda celata al loro interno. « No » rispose, con voce ferma. « Non mi faresti mai pena, Ray » aggiunse. La ragazza sospirò ancora, per poi proseguire. « Lui è Aaron. Era il mio fratellino. Parlare di lui fa tanto male, ma so che ti sei aperto molto con me. Hai cercato di distrarmi dal buio e.. e tutte quelle cose. Ti ringrazio tanto per questo, Austin » gli accarezzò i capelli, scompigliandoglieli un poco. « Soffriva di SLA, Sclerosi Laterale Amiotrofica. Inizialmente è arrivata quando aveva sei anni. Credo che tu sappia cosa comporta questa malattia, in ogni caso è neurodegenerativa. Porta ad una degenerazione di precisi neuroni e che portano alla paralisi totale. Io l’ho visto prosciugarsi poco a poco, Austin » nonostante il tono fosse quello freddo, di sempre, una lacrima era scesa fino alla guancia.
     « Non ci sono cure, ma la medicina sta andando avanti. Si fa di tutto pur di tenere in vita il paziente, solo che poi arriva un momento in cui bisogna mettere fine. Credo che la morte gli abbia fatto bene, lui ora sta bene. Anche se vorrei averlo qui. Sai, aveva la fissa di darmi i baci sulla fronte. Vedeva che papà lo faceva sempre con la mamma in segno d’amore, e dato che io ero la sua sorellina doveva proteggermi e quindi darmi amore » strinse forte i pugni, al ricordo delle sue labbra pallide toccare la sua fronte e poi sorriderle flebilmente. Dopo gli anni era lei che doveva inchinarsi al letto per concedersi quel dolce tocco, ma non importava, lui c’era. « Rideva molto, Aaron. Ad ogni battuta squallida di Sebastian, anche quelle in cui avrei tanto voluto picchiarlo a sangue » abbozzò un sorriso, ed Austin ne fu felice, perché in mezzo in quelle lacrime non c’era niente di meglio. L’avvicinò un po’ di più a sé, in silenzio. Non c’era nulla da dire, bastava ascoltare, e la ragazza gliene fu grata.
     « Gli siamo sempre stati vicini, io e Sebastian. Anche se credo che quello che abbia sofferto di più sia lui. Voleva insegnargli a giocare a calcio, a suonare qualche strumento, a svagarsi e a fare il buffone proprio come lui. Poi però le visite mediche ci misero in pericolo della malattia, e man mano la sua massa muscolare andava via a seccarsi. Era fine di suo, d’altronde era solo un bambino, eppure vederlo così inerme in quella carrozzina lo faceva sembrare proprio… malato » sussurrò le ultime parole, stringendo le palpebre. Rivide gli occhi scuri del suo fratellino scrutarla, mentre in viso aveva un’aria assente, quasi morta. Non muoveva nulla, i polmoni artificiali, il dolore che cresceva nel petto. E lei che le stava vicino, in qualsiasi modo possibile. « Gli parlavamo il più possibile, lui veniva a dormire sempre nella mia stanza e a volte ci veniva pure Seb. Ci abbracciavamo stretti e parlavamo della giornata trascorsa. Lo portavamo spesso in giro per permetterli di osservare il mondo e tutto ciò che aveva intorno. Abbiamo fatto una vacanza per vari paesi europei e abbiamo cercato di farlo divertire il possibile.
     Quando era cominciata la salita per restare in vita avevo tredici anni e Sebastian quindici. Ci eravamo messi a vendere oggetti e cianfrusaglie varie che non avremmo più usato, a volte anche i giocattoli vecchi di Aaron. Vendevamo limonate e muffin, cercavamo di ricavare soldi il più possibile, creavamo campagne per poterlo tenere in vita il più possibile. Eravamo in pochi, ma in un modo o nell’altro ci siamo arrangiati. Eravamo abbastanza fieri del lavoro svolto, e siamo riusciti a tenerlo in vita un altro anno. Mi è morto tra le braccia, durante un’ennesima visita all’ospedale. Sebastian era uscito per prendere dell’acqua, e io ho sentito i battiti rallentare sempre più. Ormai non teneva più gli occhi aperti, sembrava morto eppure per me, per noi, non lo era. Affatto. Lui era con noi, la sua presenza anche se dolorosa da comprendere era inevitabile. E anche se i suoi amici non se la sentivano di andare a trovalo lui aveva noi. Come noi avevamo lui » fissò l’immagine nella lapide: l’espressione delicata e tranquilla. Si ricordava perfettamente quando scattò quella foto: era seduto nella sua sedia, tranquillo, in silenzio. Faceva così male.
    « Si sente in colpa, lui » proseguì, riferendosi al fratello maggiore. « Pensa che se non fosse andato a prendere quell’acqua probabilmente sarebbe riuscito a chiamare qualcuno in tempo per salvarsi. Ma ormai era un dato di fatto: Aaron sarebbe dovuto morire, e prima ti ho detto che probabilmente Sebastian è quello che ha sofferto di più proprio per questo motivo. Lui non aveva ancora realizzato l’idea di perderlo. Non era ancora maturato a quel punto e semplicemente non poteva realizzarlo. Quella canzone che ha suonato l’altro giorno la suonava sempre per lui. E lui ascoltava, si sforzava sempre di tenere gli occhi aperti, anche solo una fessura, anche se non poteva, mentre l’ascoltava. E Sebastian dopo l’esecuzione piangeva come un matto, perché non era giusto. Era piccolo, e dolce. Era la persona più buona del mondo, e allora perché a lui? » strinse ancora più forte le nocche, facendole sbiancare, mentre Austin le faceva poggiare il capo sulla sua spalla. Le diede un bacio sulla tempia, così vicino a dove era Aaron a darle i baci, che le venne da singhiozzare. Arpionò la schiena del malpelo in un abbraccio disperato, rimanendo in silenzio, con le lacrime che rigavano ininterrottamente le guance.
    « Aaron suonava il pianoforte, aveva cominciato poco prima di ammalarsi. Diceva di amare quello strumento perché riusciva a fare qualsiasi cosa, parole sue. Ed effettivamente è così. A me non piaceva l’idea di suonare uno strumento, ma se adesso sono qui è solo per lui. Durante le esibizioni se suono è solo per immaginarmi il suo volto che sorride, le sue grida di gioia e il suo sguardo dolce. Mi manca così tanto » bisbigliò sulla sua spalla, sperando che l’altro avesse capito ogni parola. « Sono dell’idea che dimenticare sia una brutta cosa, in ogni caso. E non mi comporterei mai come ti sei comportato tu per quanto riguarda la storia del violino. Prendila come una provocazione, ma davvero, secondo me dovresti ripensarci. Non sei un debole, anzi. Cerchi di nascondere i tuoi problemi aiutando gli altri ma a mio parere dovresti anche cercare di essere tu, l’aiutato. So che detto da me potrebbe essere considerata una presa in giro, ma se ho quest’aspetto serio, questo tono serio, questo sguardo altrettanto serio, è solo per il suo ricordo. Lui non poteva muovere un muscolo della faccia, e allora non lo muovo nemmeno io. So che è una cosa stupida, ma in un modo o nell’altro è come se fosse più vicino a me » concluse, guardando Austin negli occhi.
     « Facciamo così » disse lui, sfregandosi le mani nelle cosce avanti e indietro, in segno di agitazione. « Tu piantala di avere quella faccia da morto. Io sono sicuro che lui non vorrebbe che tu smettessi di ridere come ha fatto lui. Anzi, se fossi in Aaron me la prenderei tantissimo, perché è come se ti stessi confrontando con lui, con uno sfortunato che ha dovuto patire chissà quali pene dell’inferno. Tu puoi muoverti, ridere, gonfiare le guance, sollevare le sopracciglia, puoi persino sbattere le ciglia per attrarmi! » la vide sorridere, e di nuovo un peso si liberò dal cuore. « Puoi muovere arti e caricare pesi. Lui non poteva fare niente di tutto questo, quindi dovresti usufruire di questi doni proprio perché lui non ha potuto. Così come io dovrei suonare il violino, per far capire a mio padre quanto potrei sorprenderlo, una volta che lo rincontrerò » sollevò le spalle con fare impacciato, e Rachel non poté far altro se non baciarlo delicatamente. I loro sapori si mischiavano un’altra volta, e gli stomaci si contraevano dolorosamente. Un dolore stranamente piacevole. Avrebbero voluto rimanere così, stretti l’uno all’altra, sempre.
      Quando si staccarono per riprendere fiato Austin la baciò sulla fronte, delicatamente, proprio come faceva Aaron. « Va bene, minore degli Holden, adesso mi occupo io di lei se non ti spiace » esclamò rivolgendosi alla foto del bambino raffigurato. A Rachel parve quasi che il sorriso del fratellino si fosse allargato un po’ di più, a quelle parole. Baciò delicatamente la lapide, per poi dirigersi verso l’uscita. « Un giorno di questi ti porto anche da mio padre, francamente adesso non ho voglia di altre depressioni. Sono storie che vanno ricordate, ma con i giusti tempi. Parlarne troppo fa sentire male davvero. Adesso vorrei solamente che quello spaccacoglioni di Nathan ci rallegri un po’ » le passò un braccio attorno alle spalle, stringendola a sé. Rachel sorrise, rivolta verso il cielo. Sorrise genuinamente perché finalmente era riuscita ad aprirsi con qualcuno che non fosse Sebastian. Probabilmente più avanti avrebbe raccontato la sua storia anche alle sue nuove amiche, ma ci sarebbe stato tempo per tutto: aveva ancora un anno e qualche mese a disposizione. La scuola stava per finire e i saggi da preparare erano vicini: si sarebbe dovuta concentrare al massimo, per lui, per lei.
    Continuò ad osservare il cielo sperando che in un modo o nell’altro Aaron la stesse guardando. Era felice, lo era davvero. Non riusciva a smettere di sorridere. Probabilmente l’indifferenza e la serietà non le erano mai appartenute davvero, e la teoria di Austin non faceva una piega. Prese a guardare quello che ormai considerava come il suo ragazzo. Già, il suo. Aveva voglia di scoprire ogni cosa su di lui, conoscerlo bene, capirlo, sentirlo in ogni modo. Sperò di fare sempre il giusto, di sentirsi più libera dopo essersi tolta quel grosso peso. Di saper brillare proprio come faceva Aaron, di essere invincibile come lui, e di non dimenticarlo mai perché se le persone non vengono dimenticate non muoiono mai e poi mai. Di tenerlo immortale, dentro sé. 




Spazio autrice:
lo so, lo so, sono per l'ennesima volta in ritardo. Sabato scorso sono partita in gita per Torino e non ho avuto il tempo di scrivere nulla perché mi preparavo bene per la verifica di tedesco (è andata benone, mi sono assicurata un nove, anche se a voi non importa nulla), mentre appena sono tornata a casa - martedì - mi sono presa la febbre e adesso sono sotto antibiotici, areosol e via dicendo dato che anche una bella tracheite ha deciso di venirmi incontro. La mia salute potrebbe essere considerata come un castello fatto di carte, e già.
In ogni caso, il capitolo. Finalmente si scopre che succede a Rachel, qual è il suo problema, la sua assenza. Mi sono immedesimata molto nel suo personaggio perché anche se non allo stesso modo ho perso un fratello anch'io. Pensavo fosse dura all'inizio ma poi il tutto è venuto da sé. Spero di non essere stata ripetitiva o noiosa con le descrizioni o sensazioni. Ribadisco che a mio parere sono importanti per far capire meglio il personaggio, ma se dovessero dar fastidio non esitate a dirmelo.
Potrebbero esserci errori di qualsiasi tipo dato che ho ancora un mal di testa martellante e una nausea assurda a furia di tossire, quindi quando sarò più lucida vedrò di correggere.
Spero che non sia una cagata, nonostante ci siano molti dialoghi.
Bene, io mi dileguo. Scusatemi ancora per il ritardo.
Un bacio, Haruka.
   
 
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