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Autore: stagionidiverse    11/07/2015    5 recensioni
E se quella sera a Tropicolandia fosse stata Ran a scoprire per puro caso il traffico degli Uomini in Nero?
Tratto dal capitolo 3
Tirò un buffetto sulla guancia della bambina. “I mocciosetti laggiù mi hanno detto che ti chiami Irene. Ti va di venire a cena da me stasera? Non ti nascondo che mi manca tanto mia figlia… e tu mi ricordi lei da piccola!” esclamò, prima di scoppiare in lacrime. Si asciugò le guance sulla manica del vestito. Irene, terrorizzata, si voltò verso il detective adolescente, il quale si teneva con fare sconsolato il volto fra le mani.
"Mi dispiace Goro, ma domani è il suo primo giorno di scuola e deve rip-"
“Un momento, detective da strapazzo che non sei altro! Non è che assomiglia così tanto alla mia adorata Ran perché in realtà è vostra figlia?”
A quelle parole Shinichi Kudo quasi svenne.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Irene Adler

 

Immagini confuse. Ran si stropicciò gli occhi. Con sorpresa realizzò di essere sdraiata sul selciato a pancia in su; aveva un ginocchio ferito che grondava parecchio sangue e si sentiva incredibilmente pesante, come se ogni giuntura si fosse arrugginita e ogni arto si fosse addormentato con lei. Perché era quello che era successo, no? Un colpo di sonno, nulla di più.

Ma quel ginocchio…

Realizzò improvvisamente che non si ricordava affatto come e perché fosse finita distesa per terra a Tropicolandia. Giusto, di quello era sicura: si era recata al luna park con il suo migliore amico Shinichi  Kudo quel pomeriggio. Con uno sforzo sovrumano che le costò una fitta di dolore alle tempie, cercò di ricostruire il corso degli eventi di quella giornata. Aveva avuto bisogno di un bagno, avevano chiesto informazioni e poi aveva promesso a Shinichi che avrebbe fatto presto… Cavolo. Chissà per quanto tempo aveva dormito. Lui probabilmente la stava ancora aspettando nella piazza grande. Poi aveva percorso la stradina e all’imboccatura del vicoletto aveva visto… aveva visto degli uomini vestiti di scuro che si scambiavano qualcosa. Un brivido le attraversò la spina dorsale. Poi era crollata dal sonno. O almeno, così presumeva fossero andate le cose. La testa le doleva. Si passò una mano fra i capelli appiccicosi. Appiccicosi? Scossa da fremiti, si portò la destra davanti agli occhi. Urlò. Ben due cose la spaventarono: come si può immaginare, la mano era completamente coperta di sangue, che aveva iniziato a colarle sul polso. Ma era anche molto piccola e sproporzionata rispetto al suo corpo di diciassettenne.

Mio dio! Cosa è successo?

Sentì dei passi di corsa provenire dal principio della stradina. Impaurita, si nascose in fretta dietro un cespuglio e cercò di controllare il respiro. Nello scatto perse metà dei vestiti. Rimase solo con la felpa blu che aveva indossato quel giorno, che copriva il suo esile corpicino giusto fino al graffio sul ginocchio destro. Anche le scarpe erano enormi, così si ritrovò a correre scalza. Il cespuglio soverchiava la sua intera figura e notò, con panico crescente, che questo non sarebbe stato possibile se lei avesse raggiunto il suo solito metro e settantadue.
“Ran! Ran”

Shinichi? Shinichi!

Il ragazzo raccolse sbarrando gli occhi i pantaloni sporchi di sangue dell’amica e le scarpe distrutte dal fango e dalla sporcizia. Ma cosa cavolo era successo? Si guardò attorno ma non scorse nessuno. Digrignò i denti stracciando quasi gli indumenti che teneva in mano.
Ran, alla vista dell’amico, non poté che corrergli contro urlando ancora più forte, sebbene con un mormorio sommesso - che lei mise a tacere quasi subito - la sua coscienza, nel barlume della poca razionalità rimasta, le intimasse di tenere lontano Shinichi da questa storia, perché sicuramente si sarebbe messo ad indagare e con tutta probabilità si sarebbe ficcato nei pasticci.
“Shinichi! Aiuto!” Le parole le uscirono come fastidiosi versacci squillanti. Quello si voltò di scatto. Una bambina di - a occhio e croce - sette anni correva verso di lui. Aveva il volto tumefatto, la testa insaguinata e una sbucciatura sul ginocchio. Indossava una giacca blu che le sfiorava la metà coscia. Inspiegabilmente, quella bambina era la copia esatta di Ran alle elementari: se la ricordava bene. Indossava la stessa giubba che l’amica portava quel pomeriggio, ed era priva esattamente dei capi che aveva trovato sul selciato. Riuscì a riconoscere nel tono stridulo di lei anche lo stesso timbro di voce.
Si avvicinò pallido alla ragazzina. “Ran?”
“Sì, sono io! Aiutami!” 
Iniziò a piangere ancora più forte, singhiozzando e asciugandosi ogni tanto il viso con le mani sporche di terra. Lui le cinse i polsi e le distese le braccia sui fianchi.
“Stai calma e cerca di spiegarmi”

 

*

“Indagherò, te lo prometto. Ma tu, per ora, cerca di mantenere la tua identità segreta. Non raccontare nulla a nessuno, nemmeno a Kogoro”
Nelle tenebre, Villa Kudo era ancora più affascinante. Soprattutto la biblioteca, alla luce della luna, assumeva connotazioni quasi mistiche, favoleggianti. Sembrava la sala da ballo di un castello. Ran si era cambiata, aveva indossato dei vestiti di Shinichi che questo conservava dalle elementari - mia madre si affeziona a tutto, così aveva tentato di giustificarsi - e si era seduta su una poltroncina di velluto di fronte al caminetto. Shinichi la scrutava da dietro la scrivania di mogano lucido. 
A quelle parole, ecco che la coscienza di Ran fece di nuovo capolino.
“Non voglio che tu indaghi, ti metteresti solo nei guai! E mi spieghi come giustifico la mia assenza a mio padre? Lo sai com’è fatto… senza contare che non posso neanche telefonargli, perché sentirebbe che la mia voce è diversa! E sono già le dieci di sera!” sbottò, alzandosi in piedi e quasi cadendo. Accidenti com’era alta quella poltrona! 
Shinichi soffocò un risolino, poi la sua espressione torno seria. “Non importa se sia coinvolta o meno una persona che…” si morse la lingua, diventando color peperone. “… conosco, è dovere di un detective porre fine ad ogni ingiustizia. Quanto a Kogoro, scrivigli un messaggio dicendo che sei andata a dormire da Sonoko. Per piacere, non dirgli che sei qui” Questa volta fu il turno di Ran, che arrossì. “Domani andremo dal dottor Agasa e vedremo se ha qualche invenzione utile a migliorare la situazione”
Rassicurata, la ragazza bambina annuì. “Shinichi” disse “Questo vuol dire che dovrò tornare alle elementari?”
Lui sospirò e sorrise. “Immagino di sì” Poi però si riscosse. “Adesso pensiamo alla tua finta identità. Dirò che sei la figlia di una coppia amica di New York e che sei venuta a trovarci. Mia mamma e mio papà in questo momento sono in America. Tuo padre, metà giapponese, vuole che sperimenti la vita qua a Tokyo. Così ti hanno mandato da me. Ma adesso, pensiamo alle cose essenziali: dovremmo trovarti un nome”
Si alzò e si mise gironzolare per la stanza tonda, tirando ogni tanto in cerca di ispirazione qualche libro fuori dallo scaffale, mentre Ran sparava nomi a raffica.
“Akemi? Fujiko? Hiromi?”
Lui scosse la testa. “No! No! Ricordati che sei americana” 
Fu più veloce dell’amica. Si battè una mano sulla fronte. “Ma certo! Irene! Ti chiamerai Irene! Come Irene Adler!”
Ran sbuffò, tirandogli un calcetto su uno stinco.  “Possibile che anche in queste situazioni non pensi altro che ai tuoi cavolo di romanzi?”
Dentro di sè, però, gioiva: Irene Adler era la donna che Sherlock Holmes amava.

 

*

Le invenzioni del dottor Agasa si erano rivelate molto utili. Più di tutte, una in particolare: un microfono cambiavoce, che le permetteva di riacquistare il suo vecchio timbro da ragazza matura. La novella Irene lo teneva nascosto dentro un fiocchetto che le adornava i capelli. Il dottore le aveva anche procurato degli occhiali finti dalla montatura molto spessa, in modo che i suoi lineamenti fossero almeno un poco nascosti nel caso avesse dovuto incontrare persone, come i suoi genitori, che avevano presente benissimo Ran all’età di sette anni. Shinichi l’aveva iscritta alla Teitan. Al momento di compilare i moduli, il detective aveva optato per un classico cognome anglosassone: ecco quindi che l’identità di Irene Smith era ufficialmente completa. Quel pomeriggio avrebbe incontrato i bambini di cui Agasa si prendeva cura per fare amicizia prima del grande giorno. Le era sembrato tutto facile quella mattinata, ma quando all’ora di pranzo aveva dovuto avvisare Kogoro si era risvegliata dal bel sogno. Si era inventata di essere stata presa contro ogni sua aspettativa ad uno stage di karatè in Francia: purtroppo aveva letto l’e-mail in cospicuo ritardo e quindi era dovuta improvvisamente partire. 
“Ma se non sei neanche passata a fare le valigie!” si era lamentato, quasi affogando nelle sue lacrime da ubriaco, il padre.
“Lo so, lo so, ma l’aereo era da lì a un’ora! Hanno detto che uno dell’agenzia passerà entro la settimana a prendere le mie cose” Fra qualche giorno dovrò sicuramente ingaggiare Agasa per interpretare il ruolo del fattorino, aveva pensato.
Lasciatasi alle spalle le lagne del padre, mentre Shinichi svolgeva alcuni esercizi di fisica, si riposava sul divano. Nascosta da qualche cuscino, ogni tanto lanciava di soppiatto qualche occhiata all’amico, che aveva il volto serio serio di concentrazione. Il ciuffo gli ricadeva dolcemente sulla fronte. Era sempre stato il sogno di Ran passare così tanto tempo con lui - anche in silenzio - ma il fatto che fosse tornata bambina complicava le cose. Come avrebbe potuto il detective desiderare una scolaretta delle elementari? Come avrebbe potuto baciarla, quando il solo pensiero di un simile gesto nelle condizioni in cui si trovava al momento le dava il voltastomaco? Si trattava pur sempre, almeno all’apparenza, di un’innocente ragazzina di sette anni. Fra loro due si era inserito un limite fisico. Prigioniera di un amore ormai condannato a restare platonico, Ran si girò dall’altra parte e chiuse gli occhi, prossima alle lacrime.

   
 
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