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Autore: madelifje    09/08/2015    4 recensioni
Kajdena sapeva che non avrebbe dovuto lasciarsi coinvolgere. Una ladra balbuziente esiliata dal popolo ignjs non è fatta per questo genere di cose. La sua vita era già abbastanza miserabile anche senza le spie, i pirati, le leggende, i complotti, le maledizioni, le profezie scomode, le alleanze discutibili e gli omicidi.
Avrebbe dovuto scappare quando ancora poteva farlo.
Prima di finire nel posto sbagliato al momento sbagliato, cercando di scappare dalle schiere della Caccia Selvaggia.
Prima che la sua migliore amica ricevesse l'avvertimento che le avrebbe cambiato la vita.
Prima che uno degli otto consiglieri venisse brutalmente ucciso e Alles finisse sull'orlo della guerra.
Prima, perché adesso è tardi.
-
«Un uomo mi ha seguita, oggi. Come faccio a sapere che non l’hai mandato tu?»
«Lo sai e basta», disse Nioclàs con un sorriso. E il lampo di paura che attraversò gli occhi di quella ragazzina bionda glielo confermò.
-
Kaj deglutì, chiamando a raccolta tutto il poco coraggio che possedeva. La situazione era anche più assurda del previsto. Doveva fuggire, possibilmente in fretta. Perdi tempo
«Q-quest’agenzia non ha un n-nome?»
«Ce l’ha», disse pacatamente Occhi Verdi, «"Agenzia"».
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte prima: L’Agenzia





La Guerra è finita. Alles ne è uscito sanguinante e sconfitto, ma le sue genti potranno finalmente vivere in pace.
Questa mattina sono stati firmati gli ultimi trattati, nella sala concili della Torre dei Consiglieri, nella città di Frey.
Sono state stabilite le seguenti condizioni di pace: un rappresentante del popolo elfico presenzierà a tutti gli effetti nel concilio, incluso il diritto di voto – diamo il benvenuto a Jahriel – i territori che distano oltre sessanta miglia dalla costa di Alles sul Mare delle Nuvole saranno d’ora in avanti amministrati dagli elfi; infine, per tutti i territori eccetto la città di Frey, ogni sera alle sette passeranno le schiere elfiche.
L’esercito demoniaco – in parte proveniente dal Mondo Inferiore – si presenterà in tenuta da guerra, avvolto da una nebbia rossa, e sarà autorizzato a saccheggiare i territori che incontrerà al suo passaggio.
Viene istituito un coprifuoco per gli abitanti delle quattro Terre, per preservare la loro sicurezza.

Queste sono le condizioni imposte dagli elfi. In sede non ufficiale, i consiglieri sostengono che un giorno il nostro mondo risorgerà.

– dagli annali della Torre dei Consiglieri, a cura dell’Intendente Iago Vreic






Capitolo uno – Le regole del gioco

 
 
 
Prendere l’ascensore non era stata una buona idea.
Gli altri la stavano aspettando sul tetto del palazzo, ma Kaj aveva l’impressione che non ci sarebbe mai arrivata.
Quella sera l’Empire Plaza Hotel di Frey era più affollato del solito. L’ascensore si fermava a ogni piano per far salire ricchi uomini e donne che chiacchieravano animatamente, mentre Kaj sentiva quelle voci concitate provenire dalla tromba delle scale e si sentiva male. La stavano raggiungendo. Schiacciò ancora il tasto dell’ultimo piano, ormai inutilmente.
Quando arrivarono al trentesimo livello, le persone che aspettavano di salire erano cinque, di cui una con le stampelle. All’interno dell’ascensore erano già in sei. Non ci sarebbero mai stati e avrebbero perso un’infinità di tempo per decidere chi dovesse salire. La mano di Kaj si avvicinò al tasto di chiusura delle porte. Dal fondo del corridoio spuntarono due uomini vestiti di nero che la guardarono dritta in faccia. La mano di Kaj schiacciò quel pulsante.
«Ma cosa fa?» domandò una delle donne nell’ascensore.
«Fermatela!» gridò uno degli uomini in nero. Grazie agli dèi non fecero in tempo e le porte si richiusero.
La ragazza allora si voltò verso i propri compagni di viaggio, con un sorrisetto amaro. «Tra tre piani dovete scendere tutti. Possibilmente in fretta».
«Ma noi-»
«È un consiglio da amica, non una richiesta», puntualizzò Kaj.
“Phoenix, che fine hai fatto?”
Le persone sull’ascensore la guardavano allibite. Kaj ordinò loro di spostarsi, poi prese la rincorsa, appoggiò un piede sulla parete per darsi la spinta e si aggrappò alla botola sul soffitto. Un attimo dopo stava guardando gli altri passeggeri – sempre più sconvolti – dalla buia gabbia dell’ascensore. Appoggiò la preziosissima valigetta di cuoio e socchiuse la botola. Forse a quegli uomini non sarebbe venuto in mente di controllare là sopra.
Per fortuna nessuno aveva prenotato l’ascensore per i successivi sette piani, cosa che diede a Kaj un certo vantaggio sui suoi inseguitori. Quando finalmente loro salirono, al quarantesimo, trovarono la cabina vuota. Kaj, sopra di loro, aveva paura persino a respirare.
Phoenix?”
Gli uomini si guardarono intorno. Come facevano a non sentire gli assordanti battiti del suo cuore? Credeva di svenire da un momento all’altro. Si piegò in avanti e guardò giù da uno degli spiragli della botola socchiusa.
«È scesa», disse uno di loro. Gli altri imprecarono nella lingua comune. Erano di Frey. Il più alto dei cinque, quello che a pelle le sembrava più intelligente, colpì la parete dell’ascensore con un pugno.
«A quest’ora starà già tornando giù dalle scale di emergenza…»
«Oppure sta salendo», replicò qualcuno. Il cervello di Kaj lavorava in fretta. Se fosse piombata addosso a uno di loro, avrebbe avuto a suo favore l’effetto sorpresa. Dubitava però che sarebbe riuscita a scamparla contro cinque uomini. Prima aveva commesso un errore madornale e adesso temeva che loro se ne potessero accorgere. Decise di aspettare, sforzandosi di respirare silenziosamente. L’uomo più magro propose di scendere, sostenendo che fosse impossibile scappare dal tetto. Poverino, pensò Kaj, quasi con tenerezza. Gli altri accolsero positivamente la sua idea e fecero per scendere dall’ascensore; ma quello più alto, che alla fine era davvero l’unico con un briciolo di cervello, rimase indietro.
«Ehi», li richiamò, «qualcuno ha prenotato l’ascensore per l’ultimo piano».
Indicò il quadro dei pulsanti, dove il numero 62 era illuminato. Kaj si sentì morire.
Avrebbero guardato su, avrebbero notato la botola e allora per lei sarebbe stata la fine.
“Phoenix, si può sapere che diavolo succede?”
«Magari l’ha fatto per distrarci», ipotizzò qualcuno. Kaj sperava che la sopravvalutassero abbastanza da crederci. Il tizio più alto propose di dividersi. Tre sarebbero scesi e due, tra cui lui, rimasti in ascensore.
«Saliamo», disse al suo compagno dopo che gli altri se ne furono andati. Kaj infilò una mano negli stivali ed estrasse il suo fedelissimo pugnale, che era ancora inutilizzato. Poi si alzò e valutò le opzioni. Lo spazio tra l’ascensore e le pareti della gabbia era troppo stretto per anche solo pensare di infilarcisi. Il tetto sul quale si trovava non offriva molti nascondigli. Però loro non potevano mica salire tutti insieme, giusto? Forse aveva qualche possibilità, a patto che non si mettessero a sparare…
L’ascensore salì di due piani. 
Sono in due. Puoi farcela. Se apri la botola e finisci sulla testa del primo, ti dovrai occupare solo di uno di loro. E, se lo cogli di sorpresa, puoi riuscirci. Non hai altre alternative.
Fece il respiro più profondo della sua vita, serrò le dita intorno al manico del pugnale e aprì la botola già socchiusa con un calcio. Poi, mentre da sotto arrivavano esclamazioni di sorpresa, saltò.
Atterrò sulla schiena dell’uomo più alto, il quale non riuscì a reggere anche il suo peso e crollò a terra. Le porte si aprirono proprio mentre lei si lanciava sull’altro ed entrambi finirono nel corridoio dell’hotel. Kaj fu la prima a rimettersi in piedi. Corse in direzione delle scale, scivolando appena sugli stivali col tacco, mentre gli altri due si lanciavano all’inseguimento.
«Sono sulle scale, preparatevi!» urlò la ragazza, iniziando a salire.
“Ricevuto. Ma che fine avevi fatto?”
Le facevano male le gambe e la milza pulsava, ma non poteva nemmeno pensare di fermarsi. I due uomini erano più lenti di lei e perdevano anche tempo a urlare agli altri di raggiungerli tramite l’auricolare.
Dopo quella che sembrò un’eternità, finalmente le scale finirono. Kaj si buttò a peso morto contro la porta antipanico che dava sul tetto e un secondo dopo il vento provocato dallo zeppelin le stava scompigliando i capelli corvini. Salì in fretta la scaletta  e crollò da parte ai suoi colleghi, mentre Klaus gridava al pilota di partire.
«Hai la valigetta?» domandò allora Lambert.
Kaj annuì, ancora a corto di fiato, e il ragazzo sorrise.
«Bel lavoro, Jozic».
 
 ***
 
Era passato un mese dalla festa di Boran Matic, trenta lunghi giorni che Dilara Eirdottir aveva trascorso convincendosi sempre di più che quel Nioclàs fosse pazzo. Le aveva rovinato quello che − a sentire Lorcàn − era stato l’evento dell’anno, riempendole la testa di storielle assurde che l’avevano terrorizzata e le avevano rovinato il sonno. Perché proprio di storielle si trattava, dato che in quasi cinque settimane non era successo assolutamente niente di strano.
Certo, si disse la ragazza mentre usciva dal suo appartamento, non è successo niente di strano perché non c’è proprio nessuno che ti sta cercando.
Si stava recando in centro perché – udite udite – Kajdena Jozic l’aveva invitata a pranzo. La sua migliore amica, che sembrava mettere il naso fuori casa solo per lavorare, l’aveva chiamata sul comunicatore quella mattina, chiedendo se avesse da fare a mezzogiorno. Inizialmente Dilara credeva che stesse scherzando, ma l’altra aveva ribattuto che no, assolutamente, era serissima. Non se l’era fatto ripetere due volte.
Ultimamente Kaj le era sembrata più felice del solito. Non aveva ricevuto spiegazioni per questo improvviso cambio di umore, se non  di “aver capito che la sua situazione non le impediva di essere felice”. Dilara non ci credeva. Erano passati quasi quattro anni da quando “la situazione” era diventata ufficiale – anni che Kaj aveva passato in un isolamento autoimposto – perciò un cambiamento così improvviso grazie a una motivazione così stupida semplicemente non stava in piedi. No, Dilara era convinta che ci fosse dell’altro, tipo un fidanzato segreto.
Evitò per un pelo di scontrarsi con un uomo biondo che indossava una bizzarra giacca blu elettrico e salì sul tram, controllando quante fermate mancassero prima di arrivare in centro.
Il vagone era quasi vuoto. Dilara riuscì a trovare un posto libero e si sedette, provando immediatamente un incredibile sollievo ai piedi. Forse aveva esagerato a mettere i tacchi. Per ammazzare un po’ il tempo, decise di leggere il giornale. Il titolo diceva: “Il Gran Maestro vaya in visita alla Torre dei Consiglieri, dopo quasi quindici anni”. Stando all’articolo, era stata invitata anche la Somma Sacerdotessa del Monastero laekur, che tuttavia aveva rifiutato. Dilara non faticava a crederci: Ilaenys non si sarebbe scomodata tanto facilmente. I laekur venivano sempre accusati di essere sciovinistici  ed era una cosa che la mandava in bestia. Che male c’era a essere orgogliosi del proprio popolo? Lei era fiera di essere laekur, nonostante i suoi genitori si fossero trasferiti da tempo nella città indipendente di Frey. La sua migliore amica era ignjs, questo non faceva di lei una persona dalla mentalità aperta?
La ragazza alzò gli occhi al cielo. Non sapeva nemmeno perché stesse pensando a certe cose, la politica non era proprio nei suoi interessi. Il tram aveva quasi raggiunto la sua fermata. Dilara infilò il giornale nella borsa e si alzò.

 
*** 
 
Faceva fin troppo caldo per essere ottobre. Jalena e Darko ci erano abituati, essendo della Terra Ignjs, e in quel momento Rosaleen li invidiava tantissimo. Si faceva aria con un foglietto che si era trovata in tasca e sperava che l’incontro formale finisse presto, o lei si sarebbe sciolta come ghiaccio al sole. Quelli messi peggio erano sicuramente i guardiani, obbligati a rimanere immobili sotto il sole cocente nelle loro pesanti uniformi scure. Avrebbe sicuramente offerto loro un sorso d’acqua, se non fosse stato completamente fuori luogo.
L’unico all’apparenza per nulla toccato dal caldo era l’elfo. Rosaleen aveva sempre considerato Galion, il membro elfico del consiglio, come un regalo di guerra. Non era assolutamente di nessuna utilità alla politica di Alles: raramente prendeva parola durante i concili e i suoi interventi non erano mai mirati a fornire consigli o proposte. Forse era proprio per quello che cora Rosaleen ne aveva una paura maledetta. Galion non interveniva, non suggeriva, non si mostrava in pubblico. Semplicemente osservava. Galion osservava e, se lo faceva, era perché qualcuno gli aveva ordinato di riferire.
«Saranno qui tra cinque minuti, signori». L’Intendente aveva detto la stessa identica cosa diciassette minuti prima, tutti gli altri iniziavano a perdere le speranze. Senan fece una smorfia e roteò gli occhi in direzione dell’Intendente. Rosaleen provò a soffocare una risata, ma fallì, facendo sì che lo sguardo indagatore dell’uomo si posasse su di lei.
«Cora Rosaleen, signora?»
«Nulla, Intendente, mi scusi».
Grazie a dio, in quel momento un’automobile nera e lucida comparve all’inizio del lungo vialetto. Mentre l’attenzione generale si spostava sulla macchina, Senan fece in tempo a lanciare a Rosaleen un’occhiata di scuse.
Il Gran Maestro vaya si era portato una ventina di persone come seguito e tutte scesero dalla macchina prima di lui. Il vecchio rifiutò l’aiuto del maggiordomo e raggiunse da solo l’Intendente, che lo aspettava con un sorriso a trentadue denti. Era basso e magro, con i capelli rasati ma una folta barba bianca che nascondeva parte della bocca. Quando si avvicinò per stringerle la mano, Rosaleen incontrò due occhi scuri e luminosi. Decise che il Gran Maestro le piaceva.
Era probabilmente l’uomo più potente di tutta la Terra Vaya. Il popolo dell’aria credeva nella potenza di un’energia, L’Energia, l’atmay. Il Gran Maestro era l’unico in grado di far confluire l’energia in qualcosa di concreto, mentre per tutti gli altri fedeli – come li chiamava Eyros, con una punta di disprezzo – era limitata a un livello spirituale. Quell’uomo non lasciava la città di Meegha da quindici anni, eppure quell’anno aveva accettato l’invito nella Torre dei Consiglieri, a Frey.
«Gran Maestro», intervenne l’Intendente, «tutti e otto i Consiglieri di Alles ed io le diamo il nostro più caloroso benvenuto. Siamo onorati di averla qui. Ad accoglierla ci sono cor Aryun e cora Saesha, della Terra Vaya; cor Darko e cora Jalena, Terra Ignjs; cor Senan e cora Rosaleen, créhl; infine cor Veigar e cora Eyros, i consiglieri laekur. Qui con noi c’è anche Galion, il rappresentate del Mondo degli Elfi».
Il Gran Maestro si affrettò a dire che l’onore era tutto suo e i saluti formali si protrassero ancora per un po’. Non aveva ancora finito il giro delle strette di mano: dopo aver salutato con particolare calore Saesha, si rivolse a Veigar. Qui si bloccò. «Gli unici già in carica al tempo della mia ultima visita erano i consiglieri Aryun e Saesha, eppure il vostro volto mi è familiare. Ci siamo già incontrati?»
Fu Eyros a rispondere, dopo aver appoggiato una mano sull’avambraccio del compagno. «Al tempo della sua ultima visita, Gran Maestro, Veigar ed io vivevamo già nella Torre dei Consiglieri come apprendisti. È probabile che ci siamo incontrati in quell’occasione».
Il Gran Maestro si accarezzò la barba per un istante, poi sorrise. «Suppongo abbia ragione lei, cora. Se mi permettete, sono molto stanco…»
Il gruppo si avviò verso l’ingresso della Torre. Il Gran Maestro rallentò il passo, lasciandosi superare, e attese fino a quando un’altra figura non fu scesa dall’automobile. Era una ragazzina minuta con lunghi capelli scuri e lisci. Corse fino al Gran Maestro e gli si affiancò, leggermente a corto di fiato.
«Che dici», il Gran Maestro le sorrise, «ce l’avranno preparato, un banchetto di benvenuto?»
Rosaleen fu tentata di andare a presentarsi, per scoprire chi fosse la nuova arrivata, ma percepì Senan passarle accanto sussurrando “Che tipo, eh?”.
Sorrise, assolutamente d’accordo.
Quando si fu voltata di nuovo, la ragazzina non c’era più.
 
 ***
 
Dilara non sapeva nemmeno perché stesse perdendo tempo arrabbiandosi. Non era forse scontato? Non succedeva forse ogni maledetta volta? Era colpa sua che continuava a sperare in un qualche cambiamento.
Kaj aveva chiamato all’ultimo secondo per rimandare il pranzo. Doveva lavorare. Davvero? Peccato che fosse successo anche la volta prima. E quella prima ancora. Dilara si era stancata.
Quasi quattro anni prima, Kaj era stata bandita dalla comunità ignjs. Le avevano colorato di grigio il tatuaggio sul collo e l’avevano sbattuta fuori. Si era trasferita a Frey perché rimanere in mezzo al popolo del fuoco sarebbe stato umiliante e, da allora, i contatti con la famiglia erano stati minimi. Sua sorella si sarebbe sposata tra pochi mesi e l’unica ad andare alle nozze sarebbe stata Dilara. Il punto era che i Jozic avevano anche fatto lo sforzo di invitare Kaj, ma lei non si sarebbe mai presentata.   
Della causa scatenante Kaj non aveva mai voluto parlare. Era successo in una fredda sera di novembre, Dilara stava leggendo a casa sua, quando era arrivata la chiamata sul comunicatore. Kaj piangeva e “È finita”, “M-mi hanno cacciato”, balbettava. Dilara non aveva capito, non subito. Aveva chiesto spiegazioni e l’altra aveva imprecato.
“Sono stata b-bandita!”
Si erano conosciute due anni prima durante una gita scolastica di Kaj nella città autonoma di Frey e mai, mai, Dilara aveva sentito la ragazza ignjs piangere.
“Oh dea. Oh dea! Kaj, che cazzo hai fatto?”
Fuori pioveva. Così forte che Dilara non credeva che i vetri delle finestre avrebbero retto: vedeva già una pozza d’acqua vicino a quella della cucina. La voce di Kaj si perdeva nella pioggia e lei pregava di aver capito male. Perché, se non fosse stato così, sarebbe stata veramente la fine. Avrebbe dovuto lasciare la sua casa, la città, la scuola, l’Ordine dei senka plesak – Oh dea, non l’Ordine! – tutto.
Fuori continuava a piovere e Dilara aveva capito bene.
Kaj a quel punto aveva singhiozzato.
“Vengo a Frey. Non posso stare q-qui”. E aveva chiuso la comunicazione.
Anche nei quattro anni seguenti, non c’era stato verso di farsi raccontare cosa fosse successo.
Kaj si era trasferita a Frey, nella zona povera della città, e aveva cominciato lentamente a isolarsi. Usciva solo per lavorare, non parlava con nessuno, non scriveva a nessuno, aveva paura a mostrarsi in pubblico perché il suo tatuaggio era grigio e si vedeva.
Adesso, Dilara era stanca. Non era lei quella senza amici, non era obbligata a compiere degli sforzi. Era stata comprensiva. Era merito suo se Kaj aveva conosciuto Hilma e Lorcàn, se a volte veniva invitata alle feste e se…
Si accorse di avere raggiunto un parco. Non si era neanche accorta di stare vagando senza meta per la città. Era l’ora di pranzo eppure in giro non c’era quasi nessuno. Dilara individuò un grande albero in cima a una collinetta, stabilì che sarebbe stato il posto ideale per leggere e mangiare il suo panino e iniziò la scalata. Decisamente non aveva le scarpe adatte per una scampagnata, ma era così immersa nei suoi pensieri che non le importava di rovinarle. Una ventina di imprecazioni contro Kaj dopo, aveva raggiunto la cima. Lasciò cadere la borsa vicino alle radici dell’albero e si sedette. Ai piedi della collina c’era un uomo che portava a spasso il cane. Poco più in là, una ragazza discuteva animatamente con qualcuno tramite il comunicatore. Fatta eccezione di loro e Dilara, nel parco non c’era nessuno. La ragazza distese le gambe in avanti e aprì il libro.
 
Non saprebbe dire quanto tempo fosse passato. Forse si era addormentata, forse quel bel romanzo d’amore l’aveva coinvolta troppo, chi poteva dirlo. Sta di fatto che, quando distolse lo sguardo dalle pagine ingiallite, ebbe un brutto presentimento. A volte le succedeva. Una specie di brivido lungo la colonna vertebrale, una strana vibrazione nell’aria, Dilara non sarebbe stata in grado di descriverlo. Li aveva sempre ignorati, dopotutto non significavano niente, ma, per qualche strana ragione, quel giorno decise di non farlo. Appoggiò il libro e diede uno sguardo attento a ciò che la circondava. C’era un silenzio quasi innaturale, rotto solo dal fruscio delle fronde sopra la sua testa. All’inizio pensò di essersi lasciata suggestionare troppo. Era sempre stata una persona molto paranoica, ma nell’ultimo mese era addirittura peggiorata – grazie, Nioclàs.  Poi però lo vide.  
Ai piedi della collina. Fermo. Le mani in tasca. Una sigaretta tra le labbra. Lo sguardo perso nel vuoto. Vestiti quasi eleganti, assurdamente fuori luogo in quel parco.  È un semplice passante. Anche tu indossi un paio di tacchi, che razza di ragionamenti sono. Vai a casa, che è meglio.
Dilara gli gettò un’ultima occhiata, storcendo il naso alla vista della giacca blu elettrico, si alzò, raccolse le sue cose e si incamminò nella direzione da cui era venuta.
Un passo. Tre, cinque, nove, quindici.
Quell’uomo indossava un’orrenda giacca blu elettrico.
Blu elettrico.
Dove l’aveva già vista?
Diciotto passi.
Si bloccò.
Aveva già visto un uomo con un’orrenda giacca blu elettrico quella mattina, in stazione, quando ci era andata a sbattere contro.
Con il cuore che batteva a mille, Dilara si voltò. Fu attraversata dalla testa ai piedi da una vampata di calore, perché ai piedi della collina non c’era più nessuno. Lo sconosciuto era circa quattro metri dietro di lei.
Da qualche parte nella sua mente comparve l’immagine di Nioclàs, l’ultimo pensiero razionale prima che l’istinto prendesse il sopravvento.
Si accorse di aver aumentato il passo solo quando i piedi iniziarono a fare male. Sfilò i tacchi e cercò di farli stare nella borsa. L’erba era umida sotto i suoi piedi scalzi. In seguito ringraziò di essersi fermata, perché, se non l’avesse fatto, non avrebbe mai sentito i passi svelti alle proprie spalle. Passi di qualcuno che non stava solo camminando.
E allora Dilara iniziò a correre.
Si dirigeva verso il cancello, cercando di mettere più distanza possibile tra lei e quell’uomo, con i piedi nudi che calpestavano sassi e la borsetta, scivolata lungo il braccio, che sbatteva fastidiosamente contro il ginocchio. Andava piano, troppo piano. Aveva la gola secca e la milza che pulsava, ma non poteva assolutamente rallentare. Il rumore dei passi dell’uomo diventava sempre più vicino, spaventosamente vicino, mentre passava sempre meno tempo tra un colpo sul terreno e l’altro. Il cancello le apparve davanti come un miraggio. Si precipitò fuori, schivò una macchina e si fiondò in un pub. Rimase sulla soglia del locale, completamente senza fiato e scalza. L’uomo con la giacca blu non si vedeva.
Dilara riuscì a trovare il coraggio di uscire da lì solo dopo un’ora e un quarto.
 
***
 
Il sole aveva raggiunto lo zenit e Kaj era sul punto di morire di caldo. Ogni muscolo del suo corpo stava lavorando. I piedi rimanevano ancorati alla roccia mentre le mani cercavano appigli sempre più in alto, poi i ruoli si invertivano. A volte la ragazza si fermava, solo per gustarsi quella fantastica sensazione con un sorriso deliziato stampato sulle labbra. Non era una vera montagna, quella che stava scalando, ma pazienza.
Gli incontri avvenivano sempre in luoghi pubblici. Lambert lo reputava più sicuro e dover raggiungere la base ogni volta per Kaj era scomodo. Viveva nella Colluvies, lei.
Così lui aveva iniziato a raggiungerla in palestra, al pub o al parco. Le si affiancava e iniziavano a parlare come due perfetti estranei che scambiano due chiacchiere o come due amici, non era importante. L’unica cosa che contava era che gli altri non sospettassero nemmeno il vero argomento di quelle conversazioni.
Quel giorno Kaj aveva scelto la parete da arrampicata.
Era alta centro metri, difficoltà media, circondata da vetrate che davano su un parco e fatta di vera roccia. Kaj la adorava. Spesso andava ad arrampicarsi di notte, quando le lampade a etere illuminavano la parete quanto bastava per non cadere. Era uno dei suoi posti preferiti al mondo.
«Ciao, Jozic».
Il piede destro mancò l’appiglio, Kaj scivolò e si ritrovò appesa solo per una mano. Con un colpo di addominali riuscì a trovare la presa e per un po’ rimase immobile, schiacciata contro la roccia, a riprendere fiato.
«Non. Farlo. Mai. P-Più», scandì.
«Avresti dovuto vederti», sghignazzò Lambert. Kaj si voltò in direzione della voce e gli mostrò il dito medio. Il biondino se ne stava seduto su uno sperone roccioso che Kaj avrebbe potuto giurare di non avere mai visto, circa due metri alla sua destra.
«Non ti fa impressione?» domandò, mentre la ragazza trovava una sporgenza su cui sedersi. «Essere sospesa a cento metri d’altezza senza neanche una protezione? Sapere che basterebbe un niente per farti cadere giù? Sarebbe una morte rapida, sai, probabilmente non-»
«Smettila, mi metti ansia», borbottò lei. «P-Piuttosto, perché mi hai fatto venire qui? E ti sei anche presentato in ritardo...»
«Mi hanno trattenuto alla base». Lambert minimizzò l’imprevisto con un gesto della mano e Kaj corrugò la fronte. «Ti ricordi la sera in cui ci siamo conosciuti?» Lei annuì. «Ti ho parlato di un progetto per cui ci serviva il tuo aiuto. Bene, supera questa missione ed entrerai ufficialmente nella squadra».
Non immaginava da quanto Kaj stesse sperando di sentire quelle parole.
«Presentati questa notte alle nove e mezza all’Ellerton. Adesso ti va qualcosa da bere?»
 
 ***

Dilara chiuse la porta del suo appartamento con quattro giri di chiave. Quella sera avrebbe trovato una scusa per dormire da Hilma, a sei isolati da lì, ma prima doveva fare una cosa.
Ritornò con la mente alla festa di Boran Matic. Rivide le vetrate, Hilma e Lorcàn che la salutavano, se stessa che ballava. Cercò di focalizzarsi sui propri vestiti: gonna nera morbida, corpetto senza maniche, guanti lunghi.
Dovette buttare all’aria mezzo armadio prima di trovare la gonna, quella a cui aveva fatto cucire una tasca interna, e recuperare il biglietto che le aveva dato Nioclàs. Era stato lavato insieme alla gonna, perciò alcune cifre non erano leggibili, ma era la sua unica possibilità.
Ad esempio, il secondo numero era un uno o un sette? Provò col sette, ma la segreteria apparteneva a tale Mary Anne. Procedette così fino a quando non fu sicura di tutte le cifre, quindi nascose il proprio numero e armeggiò con le manopole del comunicatore fino a comporre un messaggio.
Dobbiamo parlare. Vediamoci stasera alle nove alla stazione centrale – Dilara
Solo dopo realizzò di non avergli mai detto il proprio nome.



 
 


Ecco qua il primo capitolo :)
È arrivato in ritardo perché ero in vacanza e senza computer, spero che non vi abbia deluso. 
È ambientato un mese dopo gli avvenimenti del prologo. Kaj ha iniziato a lavorare per l'Agenzia, nonostante non abbia ancora ricevuto le risposte che cercava. Dilara ha cercato di ignorare gli avvertimenti di Nioclàs fino all'ultimo, ma adesso non è più possibile. Infine, incontriamo Rosaleen.
Due precisazioni:
- Non so se avete notato, ma ho tolto l'avvertimento steampunk. La storia è nata come steampunk, ma poi - come al solito -  ha preso una sua strada e un corso piuttosto indipendente dalla mia volontà. Ho tolto l'avvertimento per essere più sicura, perché per ora non riesco a inserirla in una categoria
- Il capitolo inizia con un "documento". Credo che sarà sempre così, per aiutarvi a orientarvi in Alles e per aiutare me con una sorta di fonti scritte :) 
Continuate a farmi sapere cosa ne pensate, questo progetto è davvero ma davvero importante!
A settimana prossima,

madelifje
  
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