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Autore: TuttaColpaDelCielo    31/08/2015    3 recensioni
«Kore.» chiamò «Fanciulla.»
Nyx scostò i suoi veli d'ombra dal mio corpo, mi lasciò esposta sotto lo sguardo del suo signore.
«Ade.» sussurrai «Invisibile.»
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Demetra, Persefone
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La Fanciulla e l'Invisibile'
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Camminai, quella volta, senza che la corsa irrompesse. Avrei dovuto sfruttare il novilunio, quando né sole né luna potevano vedermi, ma sperai che anche quella notte durasse a lungo e che questo bastasse. Camminai e camminai, le gambe instancabili e il petto greve, odiandomi per la mia debolezza, per essere caduta nella trappola, e quei pensieri mi rallentarono il passo. Ma ancora camminai e camminai fino a scorgere le pendici del vulcano, in quella notte scura, e fu solo allora che osai enormità e stupidità.
«Invisibile.» chiamai. Il silenzio non rispose. Lasciai che la vita scorresse da me, allora, primavera infeconda: irrorai la terra morbida e circondai i semi sopiti, li nutrii, ma le profondità del sottosuolo inghiottirono il mio calore avidamente e per i fiori non restò più niente. Offrii all'Averno quella vita mancata, sottratta, negata. Quando chiamai ancora, sotto i piedi avvertii il tremore dello squarcio lontano.
In quel momento capii che avevo scelto. Che avevo riposto.
E non seppi quali fossero le opzioni, né quale fosse la domanda: vi fu solo l'angoscia nettissima dell'aver mosso l'ultimo passo, come il suono implacabile del catenaccio alla porta.
Da lì, potevo solo andare avanti.
Da lì, io ero Persefone.


L'Invisibile giunse e frenò i cavalli a un soffio da me, ma non tremai, quella seconda volta. Li guardai sentendomi piccolissima e adulta; alzai lo sguardo oltre i loro corpi frementi e trovai la kunée sul bordo del carro, e lì m'incagliai, senza osare altro, come chiedendomi lo sto facendo davvero? Davvero. La mano pallidissima che tratteneva l'elmo si mosse e io obbedii a quel gesto, camminai attorno al carro. Dietro trovai l'Invisibile già a terra, che mi scrutava e sorrideva di quel suo sorriso oscenamente feroce.
«Fanciulla. Ti-»
«Taci.» lo zittii «Andiamo e basta.»
Lui ringhiò una risata mentre mi stringeva a sé, forte, affondando con le dita nei miei fianchi. Mi sfiorò la tempia con le labbra, avvertii il suo sorriso sulla pelle prima che mormorasse: «Sei tu, Fanciulla, ma non esagerare.»
Dietro la minaccia, nel suo tono indifferente da sondare, trovai divertimento e condiscendenza per la ragazzina che ero, per le zanne da latte che snudavo nel tentativo di suonare imperiosa. Dovette piacergli molto, quel tentativo.
Mi sollevò per la vita, ignorando il mio sussulto di sorpresa: mi aggrappai alle sue spalle per non sbilanciarmi, gliele avvolsi avvinghiandomi a lui e scoprii che, sotto le creste d'ossa della magrezza eccessiva, l'Invisibile era solido quanto le querce centenarie. Indugiò un istante più del necessario, stringendomi tra le braccia, prima di posarmi sul carro. Sotto il mio sguardo oltraggiato lui inarcò le sopracciglia, come per proteste del tutto irragionevoli di fronte a un atto pienamente accettabile.
«Incivile.» borbottai.
L'Invisibile salì e mi strinse al suo fianco, affondò le labbra tra i miei capelli.
«Non esagerare.» ripeté, ma aveva il riso nella voce.
Lasciatami, riprese le redini. Non parlò più e nel silenzio, nel novilunio, al suo fianco e sotto i suoi occhi, fui Persefone.


Dovetti aggrapparmi al bordo del carro, non per gli scossoni o l'instabilità, ma perché nel vento che mi sferzava il viso capii che era vero, stava succedendo, io avevo deciso che succedesse. Quasi mi cedettero le gambe. Io che non avevo mai lasciato la Trinacria, io Kore ingenua e impressionabile, io? Io avevo deciso tutto quello?
Oltrepassammo campi silenziosi facendo appassire il grano, c'insinuammo tra le colline come volendoci annidare tra le ombre, ma non ci fermammo mai, mai, vento e freddo e silenzio e occhi lacrimanti, e asfodeli dietro di noi, fiori pallidi cresciuti al buio, mi riempii i polmoni dell'aria gelida della notte e risi fino a non avere più fiato, ero libera, libera, libera, mi terrorizzava e mi esaltava, e asfodeli dietro di noi, crescevano, sbocciavano, primavera livida e inquietante ma fertile, madre che partoriva deformità e gioiva nel sentirsi feconda. Erano tantissimi, un fiume candido, così tanti che l'Invisibile socchiuse gli occhi e strinse le labbra, mi sentii combattuta e schiacciata e quando tutto finì degli asfodeli c'erano solo resti secchi, dispersi dal vento. Spalcai le palpebre, sconvolta, e lui si scusò sfiorandomi i capelli con le labbra.
«Discrezione. La conosci?» commentò con un tono vagamente contrito – il che, immaginai, per il signore dell'Averno doveva equivalere al dirsi desolato.
Io risi ancora, senza riuscire a frenare quell'esplosione vitale del fiore dei morti. Scorsi il mare, lontano: luccichio tremolante sotto la luce delle stelle. In una manciata di respiri non fu più lontano ma davanti, l'Invisibile mi mormorò qualcosa che ero troppo entusiasta per ascoltare, e poi il mare fu sotto, e io gridai aggrappandomi al suo braccio mentre attraversavamo l'aria, respirai sale e terrore e oh quell'esaltazione che non avrei mai potuto dimenticare, era vita vita vita e sapevo che presto ci sarebbe stata morte, ci sarebbe stato ghiaccio, ma in quel momento volli solo trasformare il mio grido in una risata senza fine.
«No, non conosci la discrezione, pare.» sospirò l'Invisibile. Si divincolò dalla mia stretta, mi porse la kunée da tenere ferma sul bordo e con il braccio ora libero mi cinse la vita, per assicurarsi che non scivolassi. Mi lasciai stringere al suo fianco, posandogli il capo contro la spalla, sicura che no, non avrebbe lasciato che accadesse.
Respirai a fondo l'aria straniera, di cielo e di mare, e mi sembrò che avesse un odore diverso da quello della Trinacria. Non ero più lì, realizzai, non ero più a casa, quelle acque che erano state confini invalicabili s'increspavano sotto di me come in saluto. Soffocai l'ennesima risata contro la spalla dell'Invisibile, vi soffocai anche lo smarrimento e il timore. Solo avanti, mi ripetei. Salimmo ancora, l'aria si fece più fredda; se prima avevo rimpianto l'himation, ora lo agognavo reprimendo i brividi, stringendo i denti perché non sbattessero. L'altezza, la velocità folle, il corpo freddo dell'Invisibile congiuravano per congelare la mia ilarità – non mi dichiarai sconfitta.
Mi sporsi appena per vedere il mare, trattenuta dalla stretta all'improvviso più decisa, come ammonitrice. Mi stupii – velocità folle, dovetti ripetermi – nello scorgere la costa che si avvicinava, in basso, così in basso da darmi il capogiro, e capii perché mi avesse stretta più forte. Era Esperia? L'Ellade? Non ne avevo idea. Credevo ci saremmo abbassati, invece i cavalli continuarono la loro corsa nell'aria, sempre più fredda, sempre più sferzante. Mi irrigidii per non rabbrividire, ma la schiena si scosse comunque e l'Invisibile, senza una parola, mi lasciò per slacciarsi la clamide. Tentai di rifiutarla, stringendogli la mano come avevo fatto con Calligeneia – non era Calligeneia, scoprii. Mi posò a forza il mantello corto sulle spalle, zittendo con uno sguardo implacabile il mio mormorio di protesta falsissima; me lo allacciai alla gola con il capo voltato per nascondere il sorriso, poi avvolgendomi nella stoffa mi sporsi di nuovo, solo perché mi stringesse.
Sotto di noi non più acqua ma terra, prima morbidamente ondulata, poi irta di cime aguzze; e poi non più terra ma nubi, sagome vaghe rilucenti nell'oscurità, e poi di nuovo cime e poi colline e poi campi coltivati, grumi scuri che dovevano essere villaggi, e i marmi e le fiaccole di una città sconosciuta, gemme di fuoco nel buio, e, e, e, quando Eos infine squarciò il cielo io avevo le gambe deboli e il collo indolenzito e ne volevo ancora, ancora, vi prego ancora, ma non avevo più riso né parlato perché lo sentivo – lo sentivo, il gelo che si avvicinava, dita ossute protese a ghermirmi. Di nuovo cime, sotto di noi, candore contaminato dai riflessi rosati dell'aurora. Lo trovai bellissimo e orribile. Ma il gelo, il gelo, quel gelo mi chiudeva la gola e mi artigliava il petto, e io tentai di ritrarre il busto in risposta, ma l'Invisibile mi tenne ferma, contro di lui, davanti al gelo, violenza di dita che stringono, volli chiedergli di fermarsi, ordinargli di tornare indietro, urlargli che avevo cambiato idea e per favore basta non volevo non volevo non volevo ma lessi nei suoi occhi che già lo sapeva e che non sarebbe cambiato nulla. Solo avanti, Persefone. Verso il Ponto e l'inverno.


Fu lacerante. Mi spezzò il respiro e mi piegò le ginocchia, e non fu perché ormai il sole era alle nostre spalle, mezza notte e mezzo giorno in piedi a intirizzirmi, no più di mezza notte, non c'era stata la luna in cielo a scandire i ritmi del buio, ore e ore e ore e occhi lacrimanti e labbra secche e gambe che cedevano, dea sì ma anche il corpo immortale ha dei limiti; non fu per il lungo viaggio, per la stanchezza e la fame e la sete, per la certezza che ormai Demetra doveva essere folle di angoscia, e neanche per la vista della terra lontanissima, giù, che se fossi caduta mi sarei spezzata ogni osso e avrei trascorso l'eternità come un ammasso di carne maciullata. Fu perché nel vedere le coste meridionali del Ponto allontanarsi, nell'abbandonare quell'ultimo baluardo di fertilità, lo strappo giunse così secco da lacerarmi dentro strappandomi un urlo.
Non c'erano benedizioni.
Non c'erano preghiere e offerte e ringraziamenti.
Un nulla gelido mi avvolse, mi scavò dentro cercando la vita, per rubarmela, succhiarmela, perché oltre quelle coste – confine nettissimo – di vita c'era un disperato bisogno e un'ineluttabile assenza.
E io non volevo. Non volevo, non volevo, non volevo. Mi avrebbe inghiottita. Non volevo. Non volevo. E lo sentivo avvicinarsi, invece, no, ero io che mi avvicinavo, era il braccio di Ade che non frenava i cavalli, quanto dovevano essere esausti?, era la conseguenza inevitabile della mia scelta. Lo odiai, mi odiai, con una ferocia che non sapevo di possedere. E peggiorava, quel gelo: mordeva e scavava e annichiliva, brutalità di belva, affondava sempre di più e noi continuavamo ad andargli incontro, e il sole alto del meriggio non serviva a riscaldarmi, e l'aria fredda mi apriva i polmoni come lame, e il Ponto sotto di noi che scorreva scurissimo sussurrando non puoi più tornare indietro. Terrore. Gelo. Inevitabile, implacabile, già lo sapevo ma odiai Ade comunque. Non volevo. Non volevo. Gli affondai le unghie nel braccio. Non volevo e lui lo sapeva e mi ignorava, perché era troppo tardi ormai, troppo tardi, solo avanti, il sole non scaldava più e io non avevo mai avuto così freddo.


Presto scomparve anche il Ponto. Calammo insieme al sole, superato il meriggio e il mare scuro; sopra di noi non più azzurro cupo di notte vicina ma bianco, nubi compatte e densissime, come roccia a tagliare fuori il cielo. Filtrava luce opaca, che spegneva i colori di un mondo già spento – quasi non riconobbi la nuda terra, grigia, sabbiosa, non aveva nulla del bruno caldo dei miei capelli, pagai con un lamento l'addio alla fertilità mite delle coste e mi trovai nell'aria tagliente di gelo, sospesa tra grigio sterile e bianco, la desolazione mi voleva, mi chiamava, quando avevo smesso di aggrapparmi ad Ade? Non riuscivo più a toccarlo, era insostenibile, intollerabile, soffocavo. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, mille anni dopo, il grigio sterile aveva lasciato posto al bianco e dalle nubi piovevano trafitture di luce, schizzi di sangue al tramonto.
Il vento che mi sferzava cambiò inclinazione e ci abbassammo ancora, dolcemente, finché gli zoccoli non affondarono nel suolo cedevole. Il carro ricadde con più pesantezza, sussultai assecondando la scossa, rallentammo piano per non contrastare il movimento. Ci fermammo in mezzo al candore e al nulla che chiamava.
Impiegai un po' solo per allentare la stretta al bordo di legno, con le dita rigide e le unghie scheggiate, icore a grumi e striature scure. Non era mai stato pallido, il mio icore, né dorato né trasparente, ma rosso di vita morsa a fondo. Mi piaceva. Portai le dita alla bocca per suggere quel sangue immortale e velenoso, dolciastro. Sì, mi piaceva. Violenza caldissima contro il candore gelido. Inghiottii un grumo dall'unghia del pollice.
«Vieni.»
La voce di Ade mi strappò un sussulto, era l'Invisibile cercai di ricordare, ma quel pensiero non aveva senso, naufragò, la comprensione mi sfuggiva tra dita sanguinanti, vieni ripeté, mi sfiorò il gomito e io scattai di lato come un coniglio che sfugge alla tagliola, l'Invisibile, non aveva senso, silenzio troppo a lungo perché la sua voce potesse suonarmi familiare, restai a fissarlo a occhi sgranati mentre Ade ricambiava il mio sguardo e ritirava la mano. Si allontanò, scese, fu come tornare a respirare. L'aria gelida mi affondava nei polmoni come lame, apriva faglie e orridi. Perdita dolente inesplicabile, comprensione naufragata, l'assenza affondava più del freddo.
«Fanciulla.»
L'assenza mi spinse a rispondere al richiamo, mosse pochi passi al posto mio, gambe stanchissime rigide tremanti che incespicavano verso la sua voce. Ade non tendeva più la mano, e mi dissi distrattamente che ci voleva coraggio a tendere una mano e rischiare un rifiuto, lui questo coraggio non l'aveva, o forse non aveva la volontà di accettare un rifiuto ma neanche l'impazienza di forzare un assenso, e allora quella mano non la tese e lasciò che al bordo del carro ci arrivassi da sola. Ci volle un po', poi, più di quanto c'era voluto perché staccassi le dita, molto più di un po' in effetti, prima che io scendessi sul terreno, sulla neve, restai a fissarla per quel molto più di un po' e Ade non osò neppure affrettarmi a parole. Molto più di un po' restammo lì, lui a terra e io sul carro, il dislivello portava gli occhi alla stessa altezza e lui mi guardava ma io guardavo in basso, neve, bianco, terra pronta a drenarmi di vita pur di nutrire un solo fiore, ma poi pensai che per un fiore ne valeva la pena e saltai giù.
Incespicai e tremai sulle mie gambe rigidissime, neppure allora Ade tentò ancora di toccarmi, se lo avesse fatto sarei morta, lì, in quell'istante, lo sapevo, lo sentivo, non sfiorarmi perché di vita da offrire non ne ho più, sotto i miei piedi nudi la neve era gelida e umida, la terra ghiacciata e implorante, ti prego ti prego ti prego ti prego tipregotipregotipregotipregotipregoaiutami mormorava sommessa nella mia testa, risaliva dalla pelle alla mente, non urlava, no, ma quel bisbiglio era incessante e speranzoso ed esausto e io credevo che avrebbe preteso, invece no, chiedeva, pregava, io non ero mai stata brava a dire di no, e quella terra ghiacciata aveva la fiducia assoluta che un no non glielo avrei detto mai. Non c'era bisogno di forzare un assenso perché sarebbe arrivato comunque, forse più lento, è vero, ma la rapidità è ben poca cosa, quando si ha davanti l'eternità; e lo sapeva la terra, lo sapeva lui, per la prima volta lo seppi anche io, che sì quell'assenso sarebbe arrivato. Sì, sì, sì. La vita fluì da me come se volesse lasciarmi vuota, affondò sotto la neve a cercare i semi e li riscaldò, li cullò in un abbraccio che era la promessa del futuro, sì, sì, e quelli allora non germogliarono ma dissero va bene, aspetteremo, si scioglierà la neve. Sì, sì, sì.
Quando alzai lo sguardo, Ade era tornato l'Invisibile.
Allungò le braccia ad afferrarmi mentre mi accasciavo, troppo esausta per reggermi ancora in piedi, mi diede della sciocca perché che bisogno c'era di stancarmi così?, sì, sì, sì, non glielo dissi ma lo sapeva, doveva saperlo, mi aveva portata lì per quello, mi fece sedere sul bordo del carro ma io mormorai no, voglio stare sulla neve, fammi stare sulla neve, glielo ripetei finché quelle parole non persero di senso, l'idea di separarmene era intollerabile, l'idea di restarci era spaventosa e angosciante e stanchezza pura ma l'idea di separarmene era peggio, voglio stare sulla neve, fammi stare sulla neve, mi trovai distesa tra bianco e freddo e umido e lui mi guardava dall'alto seduto accanto a me ed era bianchissimo contro un cielo bianco di nubi e allora sorrisi. Mi addormentai così.

 
*

Mi risvegliai che non era ancora l'alba. Il cielo aveva un tono spento che non era nero e non era azzurro, schiarito da un lucore soffuso senza provenienza – succedeva di nuovo, ancora, ma quella seconda volta la notte non era trascorsa con saluti gioiosi ad Asclepio e angoscia inghiottita a forza. Era stato un millennio prima, mi pesava nelle ossa, l'angoscia era rimasta uguale, la gioia era diventata feroce. Fiumi di asfodeli. Gelo divorante.
E la terra indurita dal ghiaccio che ringraziava, e sperava, e attendeva sapendo che la vita resisteva. Che la primavera c'era ancora.
Non avrebbe dovuto, eppure mi sembrò un risveglio infinitamente migliore del primo, quello.
Mi misi a sedere, avvolgendomi le ginocchia con le braccia. Avevo un fianco intirizzito e l'altro ghiacciato, infradiciato dalla neve che si era sciolta sotto il mio calore. Ponderai per un istante la contraddizione di forzarmi un mantello sulle spalle e poi lasciarmi una notte sulla neve, e mi venne da ridere – suono arrochito ed esausto.
«Fanciulla.»
«Invisibile.»
Lo fissai dal basso nella luce che filtrava dalle nubi, spenta, grigia, eppure riflessa mille volte nei bagliori di neve fino a diventare abbacinante. Era vestito di bianco, notai, bianco bianco bianco occhi neri e solchi violacei e bianco. Bianco. Accecante. Mi alzai con le gambe rigidissime e mormorai che ero ancora stanca.
«Ti avrebbe trovata subito, se avessi toccato terra prima del Ponto.»
Era un modo poco contrito di scusarsi per il viaggio interminabile, ma lo accettai comunque con un cenno del capo. Sperai si fosse scusato anche con i cavalli, almeno – mi voltai a cercarli ma vidi solo i paramenti, orme sulla neve, li aveva lasciati liberi certo che sarebbero tornati. Non erano ancora stanchi di muoversi, loro. Io avevo i muscoli contratti e le labbra secche, le viscere torte dalla fame, mi sentivo pronta ad accasciarmi.
Doveva essere abbastanza evidente, perché l'Invisibile mi strinse un gomito. Attraverso la stoffa fradicia della clamide, le sue dita in confronto sembravano quasi calde.
«Non puoi restare vestita così.»
La contraddizione, di nuovo, mi strappò una risata sommessa. Per la notte era andato più che bene. Scossi le spalle e il movimento tirò la stoffa leggera del chitone, aderente alla pelle bagnata, affondando nelle ossa una stilettata di ghiaccio furibonda. Il collo bruciava, da quanto la massa aggrovigliata dei capelli lo raggelava.
«Va bene così.»
«Hai le labbra blu.»
«Va bene così.» ripetei. Di più, mi slacciai la clamide per porgergliela – la rifiutò, ovviamente. Ritentai: «Va bene così, davvero. Non ho freddo.»
«Non mentire.»
Rimase con le braccia nude mentre io tornavo ad avvolgermi in quel rifugio gelido, con una gioia sciocca e insensata, il compiacimento di sentirmi importante. Bagnato, il rosso diventava quasi nero, e mi piacque come spiccava contro l'azzurro scurito della mia veste – era il segno nettissimo della presenza.
«Andiamo.» mormorai, perché c'era poco tempo. Demetra mi cercava, lo sentivo tra i sussurri di supplica nella mia mente, Kore, Kore, Kore dove sei? Rispondi ti prego Kore Kore Kore ti prego. La neve mi avrebbe nascosta dalla terra fertile e le nubi mi avrebbero schermata dal cielo, ma per quanto? Rimpiansi di aver perso una notte a riposare, per riposare avrei avuto l'eternità, per quello avrei avuto un'occasione.
Sullo sfondo del cielo coperto, dell'aria tagliente che si stendeva piatta in quel deserto infinito, volute grigie di fumo si stagliavano nettissime, consolazione tiepida nell'ora di ghiaccio prima dell'alba.

«Andiamo.» mi fece eco l'Invisibile.

 
*

La fame aveva gli occhi di una madre con le guance scavate e il seno vuoto. Lo sentii piangere a lungo, il bambino, disperato ed esausto. Non avevo idea che in polmoni tanto piccoli potesse passare tanta aria.
Alla fame non importava niente della promessa del futuro, perché la fame era ora, adesso, subito. Vidi i crampi che mi torcevano le viscere riflettersi e amplificarsi mille volte in quell'indifferenza. I porri e le rape che scavavano nicchie di vita nel suolo ghiacciato, quelli sì, avrebbero ricevuto attenzione – ma l'inverno non era generoso di frutti.
Me ne andai che il bambino piangeva ancora, stretto al seno vuoto di sua madre. Spalancai la porta senza garbo, come un colpo di vento, ma uscendo me la riaccostai alle spalle dolcemente, perché quella donna non dovesse alzarsi a richiuderla. Forse non l'avrebbe neanche fatto. Non c'era disperazione, negli occhi della fame, solo rassegnazione vuota, accettazione sconfitta di quel che doveva succedere. Non pensava neanche più a pregare.
Lasciai orme a cui nessuno avrebbe fatto caso, trascinai i miei passi lontano, non vista, tremavo troppo scoperta e affondavo i piedi nudi nella neve, chissà se anche a vedermi non sarebbe stato uguale, avevano tutti occhi troppo vuoti. Sembrava che l'inedia avesse divorato qualcosa più profondo della carne.
Lo trovai in piedi nella neve, e in quel candore accecante nessuno lo avrebbe notato prima di essere a pochi passi di distanza. Lui, sì, si accorse delle orme nella neve e mi sorrise. Era un sorriso strano.
Mi sfilai la kunée, la lasciai cadere ai suoi piedi senza grazia.
Lui sorrideva.
Io avevo voglia di urlare.
«Perché.» chiesi invece, con un tono che non era domanda ma sibilo rabbioso. Mi stupii di sentire la mia voce così ferma.
«Sai perché.» e sorrideva, sorrideva, quanto avrei voluto sfregiargli quel sorriso assurdamente gentile «Ridondante.»
«Perché.»
«È predisposto.»
«No.»
Quello non mi valse neppure una risposta, solo sopracciglia inarcate, a evidenziare l'ovvio.
Sibilai: «In Trinacria, no.»
«Siamo oltre la Trinacria.»
«Fino al Ponto, no.»
«Siamo oltre il Ponto.»
«Perché.»
Sospirò, ma non abbandonò il sorriso. La sua voce suonava carezzevole quando infine mi rispose: «Perché l'inverno esiste, e se anche la dea delle messi sceglierà di risparmiarlo a qualche isola, continuerà ad esistere.»
«Posso risparmiarlo anche-»
«Non puoi.»
«Posso
Addolcì il tono: «È predisposto. È Demetra, la barriera contro il gelo, e anche quella barriera ha dei limiti. Fino al Ponto e non oltre.»
«E io? Non sono forse barriera contro il gelo?» sibilai. Mi mozzai il respiro pur di scavare sotto la neve, ammorbidire il terreno, risvegliare i semi. Il futuro, mi risposero loro, il futuro, arriverà il futuro.
...nessuna barriera contro il gelo. Solo la vita che ritorna.
Ma io volevo che la vita non se ne andasse mai.
«Doveva essere disabitato.» mormorai, e nei suoi occhi lessi la pena e qualcos'altro di più oscuro che non volli indagare «Doveva... me lo aveva detto. Ripetuto. I mortali si fermano al Ponto. I mortali non conoscono inverno. Me lo aveva detto.»
«Chi si compiace di lodi e ringraziamenti, Fanciulla, preferisce dimenticare le delusioni di cui è causa.»
Demetra, non potendo proteggere tutti i mortali dall'inverno, negava l'esistenza di quelli che lasciava esposti al gelo. Era un pensiero così assurdo che latrai una risata.
«Non è giusto
«Continuo a preferirlo al Caos.» ribatté, brusco all'improvviso, distruggendo il sorriso in un assottigliarsi di labbra.
Mi ritrassi.
In quel momento, sotto gli occhi nerissimi e taglienti e ancora assurdamente in pena dell'Invisibile, decisi che se inverno doveva essere, sarebbe stato un inverno generoso.
Cercai quel che c'era di buono per nutrirlo e custodirlo, perché questo facevo io, portavo alla luce la vita nascosta, mai come allora mi fu chiaro perché la primavera arrivasse dopo il gelo, non c'era altro modo, davvero, e combattere non avrebbe cambiato nulla. Ero nata per servire l'ordine del Cosmo, non il contrario, ma quel che non potevo piegare potevo assecondarlo e sfruttarlo e anche l'inverno ha i suoi frutti, basta saperli cercare. Nicchie di vita scavate nel suolo ghiacciato, porri e rape e anche l'inverno ha i suoi frutti, sì, e sarebbe stato generoso, lo decisi e l'inverno obbedì docile senza che neppure dovessi ordinarlo, come se non avesse aspettato altro, non ero barriera contro il gelo ma la mano che nonostante il gelo scava e libera i germogli dalla neve, ero vita che torna senza essersene andata.
Non abbassai lo sguardo un istante, come a sfidare l'Invisibile.
Lui tornò a sorridere di un sorriso diverso, non compassionevole, non gentile, ma di una malinconia dolente che mi fece male al cuore. Si chinò su di me, mi sfiorò i capelli con le labbra mentre sussurrava: «Sapevo che dovevi essere tu. Non poteva essere nessun altro.»
E poi, senza vederli, sentii che dalla neve si levavano corolle bianche, non asfodeli, non fiori di morte, ma promessa. Tornerà la primavera, torneranno i giorni lunghi. Si scioglierà la neve. Tornerà la primavera, giuro, giuro, tornerà, tornerò, l'inverno è nell'ordine del Cosmo ma così lo sono anch'io, tornerò, tornerò, sono già qui. Non disperate, tornerà la vita. Sentii la carne scaldarsi e non m'importò più del ghiaccio, delle vesti troppo leggere, perché d'inverno, scoprii, nascono i bucaneve.

 
*

Non avevo mai fatto un bagno caldo, da che ricordassi. Avrei dovuto fermarmi al chiuso, presso un tempio o una reggia, e attendere che qualcuno mettesse l'acqua sul fuoco, riempisse la vasca, mi ungesse di olii, e sicuramente avrebbero voluto districare il groviglio dei capelli e acconciarli, prepararmi al banchetto, farmi restare, ringraziarmi con sfarzo, e io avrei dovuto ringraziare a mia volta, e no, davvero, troppo, meglio acqua fredda di torrente e solitudine.
Immersa in una vasca di acqua bollente, dopo aver convinto le ancelle che per un istante potevano andarsene, decisi che la solitudine era meglio godersela al caldo. Lavai via la fatica e l'indolenzimento con un sospiro soddisfatto. Le contratture si rilassavano, il riposo ristorava, e avevo ancora le labbra sporche di briciole dalla focaccia inghiottita voracemente. Tra le mie gambe scorreva il segno dell'infecondità, disfava la culla preparata nel ventre, ma il calore scioglieva i crampi e le tensioni. Sì, molto, molto meglio.
Socchiusi gli occhi. Le due ancelle rientrarono, portando olii profumati e teli di lino, solerti disturbatrici della mia quiete. Eravamo a Eleusi, che potevo aspettarmi? Che mi riservassero meno di tutti gli onori? Nessuno voleva contraria mia madre ulteriormente. Avevano il volto tirato ma furono le preghiere a convincermi, sussurri discreti nella mia testa, non era me che i mortali dovevano placare ma qualcuno ancora mi si rivolgeva, fa' passare il freddo imploravano, fa' che finisca presto, fa' che tua madre deponga la sua ira, intercedi, convincila. Le ancelle chiedevano solo di poter compiacere una dea furiosa; ebbi la tentazione di avvertirle che sarebbe stato inutile, ma poi pensai che in fondo era anche quella una speranza e allora permisi docile che mi strofinassero la pelle con i sali, che mi sciogliessero i nodi tra i capelli. In un'altra occasione avrei scalpitato per muovermi; in quella, restai abbandonata nell'acqua bollente a godere dei miei privilegi. Avevo quasi dimenticato l'esistenza del calore. Sussultai quando mi toccarono il fianco, dove spiccavano segni violacei come dita impresse sulla pelle, ma ancora non protestai e nel mio silenzio morirono anche le loro scuse.
Mia madre era furiosa, di una furia che non le avevo mai visto negli occhi. Terrore cieco e istinto. Lo sentivo anche lì, tra vapore e tocchi gentili, nell'unico rifugio che forse era stato risparmiato appena più degli altri – lo sentivo, il soffio di ghiaccio della sua furia. Un inverno nato non dall'ordine ma dalla volontà di punire, ferire, annichilire: la barriera contro il gelo era crollata e ci schiacciava tra le macerie. La dea delle messi ritirava il proprio favore e quella era una perdita ben più dolorosa di qualche fiore non sbocciato.
Buffo che nelle liti divine a pagare fossero sempre i mortali.
Come poi Demetra sperasse di contrariare il signore dell'Averno con uno sterminio, quello mi era ancora oscuro.
«Devi... dovresti uscire, signora.» mormorò l'ancella più giovane.
Nessuno mi aveva mai chiamata signora. Ero stata lontana due giorni ed era cambiato tutto.
«Di già?»
«Non avremo più tempo di asciugarti i capelli, signora.»
Mi avvolsero nel telo tiepido prima ancora che potessi rabbrividire, fuori dall'acqua bollente. Restai seduta su uno sgabello mentre ancelle estranee asciugavano, ungevano, pettinavano una signora sconosciuta, e alla fine mi ritrovai con la pelle che sapeva di miele e nessuna idea di come fossi arrivata a quel punto.
Un refolo d'aria, porta socchiusa e riaccostata in fretta per non disperdere calore. Un'altra ancella, pensai fissandomi le unghie pulitissime, altri occhi a controllarmi, come se potessero impedire quello che era già successo. Alzai lo sguardo solo quando udii la voce familiare di Ciane: «I tuoi vestiti.»
«Credevo fossi in Trinacria.» mormorai.
«Lo stesso credevo di te.»
Mia madre intendeva andare a fondo, quindi. Non mi piacque.
Lasciai che mi vestissero con il chitone dell'Attica, più lungo di quello a cui ero abituata. Mi strinsero il seno in una fascia, ma direttamente sulla pelle, in modo che non si notasse; sopra il chitone, a vista, annodarono solo una cinta sottile che evidenziava la modestia, non le forme. Fissarono la stoffa bianca con delle fibbie per coprirmi le braccia il più possibile, mi avvolsero le spalle in uno scialle di lana, già preparavano l'himation per proteggermi dal gelo dell'esterno. Chissà cosa avrebbero pensato, sapendo che avevo sfidato una spanna di neve armata solo di un chitone al ginocchio e una clamide fradicia.
«Possiamo andare.» annunciai.
Ciane annuì a labbra strette. Non seppi interpretarlo. Le ancelle invece protestarono debolmente, perché avevo ancora i capelli bagnati, avrei preso freddo, rischiavo febbre e tosse e...
Scacciai la loro premura con un cenno della mano e con la rassicurazione che nessuno, in quel caso, le avrebbe ritenute responsabili – parole magiche che sedarono ogni protesta. Dovetti aspettare ancora un po' che mi intrecciassero i capelli e me li coprissero con lo scialle, gettandomi le falde attorno alla gola, ansiose che almeno mi riparassi dal vento. Mi fecero quasi pena.
Mi accompagnarono fuori, ovviamente, ma mia madre doveva aver dato ordine che nessuno ci disturbasse, perché incrociammo solo capi chini e schiene voltate che si allontanavano in fretta. Ciane sembrava persino più a disagio di me, e chiese se per favore anche le due ancelle potevano lasciarci, perché quella deferenza era esagerata e imbarazzante. Eravamo a Eleusi, dominio di mia madre, rifugio sicuro, che poteva accaderci? Le ancelle si rifiutarono. Chissà che altri ordini aveva dato, mia madre, oltre a quello di non disturbarci.
Fuori l'aria pungeva la pelle come spilli, sotto un cielo biancastro che vomitava fiocchi grevi d'acqua. Mossi qualche passo lungo i gradini, sentii il ghiaccio scricchiolare sotto le suole dei sandali e la neve fresca fare attrito, impedendomi di scivolare. Mi scossi di dosso lo scialle per sentire i fiocchi sulla pelle, baci gelidi tra i capelli, morsi di freddo e di rabbia; mia madre doveva essere ancora all'interno, a colloquio con il sacerdote, ma era come averla lì – e questa volta non erano più crochi d'oro come in autunno. Udii appena che le ancelle protestavano ancora, non avevo addosso l'himation e non mi stavo riparando i capelli e...
«Portateci dell'altra focaccia, e qualcosa di caldo da bere.» le interruppi. Poi, voltando il capo verso Ciane, notai che tremava e aggiunsi: «E un himation per la ninfa. Grazie.»
Mi piacque e mi spaventò come mi obbedirono, a capo chino e passi veloci. Sì, era cambiato tutto.
Ciane mi sorrise senza molta convinzione e si sedette sui gradini, e all'improvviso mi sembrò così stanca, così fragile, aveva occhi spenti e pelle smunta, il volto persino più tirato delle ancelle. Loro dovevano soffrire la fame, ma lei soffriva l'ira di Demetra, maledizioni, favore negato, la terra fertile rivoltava il mondo con la sua furia e da quella furia le ninfe erano consumate. L'autunno non l'aveva sfiorata, forse non l'avrebbe fatto neanche l'inverno del Ponto; ma quello, pensai con la pelle morsa dalla neve, quello era inverno di furia e angoscia e vita negata, non semplicemente sopita, e chissà quanto la testa di Demetra scoppiava di preghiere e invocazioni e richieste imploranti. Non ordine, non legge a reggere il mondo, ma maledizione a punirlo. L'eredità della follia di Crono, del sangue violento dei Titani, si svelava dietro occhi luminosi e capelli di grano; la madre di tutti partoriva mostri e incubi. Niente più mortali, niente più fedeli, niente più fumi ristoratori delle offerte. Niente più potere, perché il potere sul nulla di morte è nulla a sua volta, e per il potere la mia famiglia era stata dilaniata dal parricidio, Urano, Crono, Zeus, la colpa peggiore, sangue del padre sulle mani del figlio. Il sangue dei figli sulle mani della madre, quello non l'aveva ancora immaginato nessuno – fino a quel momento. Niente più potere, niente più vita, niente più campi fertili e gioia.
Due giorni, pensai ancora, due giorni e già Ciane aveva il volto scavato di una madre senza latte.
«Scaldati.» mormorai, porgendole il mio himation. Lei se lo avvolse attorno, coprendosi le braccia nude, senza nemmeno fingere di rifiutarlo – quanto soffriva, la mia Ciane? Colpa mia, pensai, colpa mia colpa mia colpamiacolpamiacolpamiacolpamia, le presi una mano gelida tra le mie come a confortarla e sedemmo insieme sui gradini senza preoccuparci della fanghiglia. In quel momento erano altre, le preoccupazioni.
«Mia madre ti ha chiesto qualcosa?»
«Solo di... del dio.»
«E hai incontrato Calligeneia?»
«È ancora in Trinacria. Non credo che verrà.»
Annuii. Aggiunsi in un sussurro: «Calligeneia non c'era.»
«Cosa...»
«Quel giorno a Pergusa, Calligeneia non c'era.»
Tra le mie, la mano di Ciane tremò. Gliela strinsi più forte per impedirle di sottrarsi, la fissai negli occhi con urgenza mentre sussurravo: «Non ti chiedo di mentire, solo di non nominarla. Per favore.»
«Se me lo chiederanno-»
S'interruppe non appena udimmo i passi dietro di noi. Voltai il capo verso il mare che si scorgeva dall'alto, per non vedere più quel suo sguardo terrorizzato, e restai con il dubbio soffocante che Ciane non avesse capito, che si sarebbe tradita, che a pagare le conseguenze non sarei stata io.
«Dimmi che finirà.» mormorò, appena prima che arrivassero le ancelle.
Deglutii.
«Dimmi che finirà.» tentò di insistere «Dimmi che tornerà l'estate.»
Dalla terra battuta, in quell'inverno innaturale, i bucaneve spuntarono a fatica.
«Finirà. Sono sicura che finirà, Ciane. Ti prometto che andrà tutto bene.»
Pregai che l'Invisibile fosse stanco di punire gli spergiuri.

 
*

«Ti ha disonorata?»
Non c'era molto interesse, nella voce di quel padre che mi aveva vista forse tre volte – l'onore di una vergine doveva apparirgli un argomento terribilmente banale. O almeno un onore che non poteva strappare lui stesso.
A occhi bassi, tentai di suonare convinta: «No.»
L'interesse era tutto da parte di mia madre, attenzione angosciata e incredulità che ruppe gli argini: «Hai intenzione di crederle?»
Non mi rivolgeva direttamente la parola dal mio ritorno.
Scossi il capo e ripetei: «No. Non è per pudore che non lo ammetto, madre. Non mi ha disonorata.»
«Un dio che rapisce una fanciulla... sappiamo tutti come finisce.» sibilò lei «È terrorizzata, Zeus. Lo teme. Non parlerà mai.»
«Non è neanche per timo-»
«Non le crederai, spero. Già un'altra volta quel... quello ha mostrato interesse per lei, e Kore me l'ha tenuto nascosto. È ovviamente troppo spaventata per parlarne.»
L'ombra di mio padre, sul marmo del pavimento, si allungò come se si fosse sporto in avanti dal seggio. Chiese, appena più attento: «Già un'altra volta, dici?»
«Ho portato con noi una ninfa che era presente.»
«No. Persefone, racconta.»
Io deglutii e mormorai: «Forse mia madre ha... udito delle esagerazioni. Non è stato nulla.»
«Parla, Kore.» sibilò mia madre – quasi preferivo quando non si rivolgeva a me, perché almeno quella rabbia era stornata su un altro bersaglio. Doveva odiarmi, in quel momento, per non averle raccontato dell'Invisibile.
«In autunno, ero con qualche ninfa a Pergusa. Lui ci è passato accanto con il carro, si è fermato un istante e se n'è andato.»
«Né lei, né la sua nutrice, né le ninfe me ne hanno parlato.» la voce di mia madre ormai era un ringhio «Vedi, Zeus? Il terrore chiude la bocca.»
«Calligeneia non c'era.» la corressi «Riposava. È sempre molto stanca.»
L'ombra di mio padre tornò a ritrarsi. Commentò: «Mi pare poco, Demetra, per parlare di interesse.»
«Lo voglio lontano da lei.»
«È ragionevole. Ma prima-»
«Lo senti questo inverno, Zeus? È ancora niente. Proibisci a quello stupratore di avvicinarsi a mia figlia, o...»
Non ascoltai il seguito. Quella parola, stupratore, mi richieggiò in testa e rimbalzò da una tempia all'altra, me la rigirai sulla lingua assaporando il suono aspro; ebbi uno scorcio di come doveva sentirsi mia madre, tradita, ferita, angosciata, ma non trovai le parole per spiegarle che non ce n'era bisogno, e anche se le avessi trovate non mi avrebbe mai creduto. Lei aveva la certezza incrollabile che l'Invisibile mi avesse presa a forza, terrorizzata e rovinata e rotta dentro. Io non riuscivo davvero a conciliare l'immagine di uno stupratore con lo spettro bianco che aveva seminato in me asfodeli e bucaneve.
Discussero ancora, mentre io tacevo a occhi bassi. Si chiesero se credermi, se ordinare alle figlie di Asclepio di controllare il mio stato, se confinarmi a Eleusi; o meglio mia madre pretese e mio padre assentì senza impegno, di certo intento a cercare una soluzione che non lo incomodasse e che non scontentasse nessuno.
«Se almeno convocassimo anche Ade...» tentò alla fine, prima che mia madre esplodesse furiosa gridando che quello non si sarebbe mai più avvicinato a sua figlia, se non volevano un inverno lungo un'eternità.
«Rifletti, Demetra.» mediò ancora «Se accettasse di rimediare al disonore-»
«E sia.» ringhiò lei, alzandosi e agguantandomi il polso «Chissà che non cambierai idea, quando tutte le fanciulle che intendi violentare saranno morte di fame.»
«Demetra!» esclamò mio padre, esasperato, battendosi il pugno sulla coscia.
Trascinata in piedi, ebbi uno scorcio della barba scura di mio padre, ma riabbassai subito lo sguardo. Con lui riuscivo a conciliarla benissimo, l'immagine di uno stupratore.
«Demetra.» ripeté «Parlerò con Ade.»
Lei gli rispose con un sibilo: «Voglio essere presente.»
«...lascia che gli parli da solo, prima. Sarà ragionevole.»
Neppure mia madre poteva sfidare a lungo il signore dell'Olimpo. Nella sua marcia furibonda verso l'uscita mi strattonò per il polso, lasciandomi appena il tempo di un cenno del capo in saluto a mio padre; lui neppure mi rispose, già troppo assorto a ponderare chi, tra la dea delle messi e il dio della morte, gli convenisse accattivarsi.

 
*

«Torna alla tua fonte, Ciane.»
«Non voglio lasciarti qui da sola.»
«Starò bene.»
Rubandomi un pezzo di pane dolce dal piatto, ne approfittò per allungarmi una gomitata.
Sospirai: «...starò meglio di come stai tu ora. Torna a casa, davvero. Devi riprenderti.»
«Non è la lontananza a indebolirmi.»
No, non lo era. In quei pochi giorni le ancelle di Eleusi si erano fatte ancora più magre e tirate, ma Ciane era peggio – pelle screpolata tesa sulle ossa, occhi arrossati, spalle curve. Avrei voluto prenderla tra le braccia e cullarla cantando a bassa voce di sole e calore e giorni lunghi, radici profonde che il gelo non poteva uccidere, rami gravidi di frutti piegati sotto il peso dell'estate. Invece le strinsi una mano e sospirai.
«Dianthe.» chiamai.
L'ancella avanzò dall'angolo verso di noi, sedute sul pavimento accanto al letto. Non avevo voluto l'ingombro di un tavolo e, anche se sotto di noi c'era roccia levigata anziché l'erba morbida, mi sembrava quasi di essere ancora in Trinacria. Mi ero sempre seduta a terra senza preoccuparmi di infangarmi, che le zolle fossero secche di sole o pregne d'acqua, e mi ero un po' stupita di sentire le ancelle protestare che sul pavimento mi sarei sporcata. Mi sembrava protestassero per tutto, quelle ancelle.
«Apri le imposte, per favore.» ordinai.
«Ma...»
Appunto.
Mi alzai per aprirle io stessa. Dal cortile interno entrarono stille d'acqua, raffiche di vento, finalmente l'aria si muoveva. Nessun tuono: mio padre non partecipava a quella furia. Mi sembrava di non respirare, con la cappa immobile del tempio tutto attorno a me, marmo sotto i piedi, sopra la testa, e dov'era il cielo? Dov'erano le giornate seduta sul terreno a riscaldarmi di tisane e risate, con la pioggia che batteva sulla pelle e la sensazione violentissima di essere viva? Mordere gioia e frutta e offerte di mortali che ringraziavano senza implorare. Il cibo del tempio aveva il sapore stantio delle dispense.
Mi appoggiai al bordo della finestra, lasciai che la pioggia mi sferzasse il viso. Odore di terra bagnata che non avrebbe nutrito semi.
«Torna alla tua fonte, Ciane. Per favore.» mormorai «Controlla che Calligeneia stia bene.»
Avevo ordinato che riempissero la stanza di vasi, così io avrei potuto riempire i vasi di vita, ma a cosa serviva? Il mio letto profumava di camomille, il pavimento era imbiancato di bucaneve, e fuori i mortali cadevano sotto la carestia, era predisposto sì, ma non così, non con quella rabbia, non proprio lì in quel bacino fertile, per favore. I bucaneve non servivano a niente, senza la certezza della primavera.
«...chiudi, Kore?» mi rispose Ciane «Ho freddo.»
Mi riempii i polmoni del temporale.
Era amore di madre o orgoglio ferito? Violenza bestiale, angoscia, qualcuno aveva sporcato la sua bambina e ora lei si rifiutava persino di guardarla. A toccarle il cucciolo troppo presto, una coniglia non lo riconosce più e usa quei suoi denti da erbivoro mite per lacerargli le carni. Una madre è uguale alle belve, perché una madre è soprattutto ventre rigonfio ed è nel ventre che germoglia l'istinto più feroce – non nel cuore di donna morbida e tiepida, non nella testa di raziocinio e pensiero, ma nel ventre, viscere bollenti, sangue pulsante. Imperativo insopprimibile – nutri. Proteggi.
Non era stata in grado di proteggermi, nella sua testa: aveva fallito con la figlia più preziosa. Doveva aver deciso che non valeva la pena neppure nutrire, e così un mare di mortali la chiamava madre e moriva di fame tra le sue braccia gelide.
«Kore...» ripeté Ciane, debolmente.
Non mi avrebbe mai chiesto di escludere la pioggia, prima, ma quella non era una pioggia che potesse appagare la sua sete di natura. Chiusi le imposte e le ordinai: «Porta un bucaneve a Calligeneia, quando la vedrai. Dille che tornerò presto.»
Non arrabbiarti troppo, bisbigliai all'Invisibile. Mi aveva detto di non mentire e non era una menzogna – solo una verità un po' incerta.

 
*

Si vedeva il mare, quando il cielo tornava limpido e l'aria sembrava farsi sottile, nessun ostacolo, nessun velo, per i miei occhi avrei potuto allungare la mano e afferrare le onde. Spazio contratto dalle colonne alle acque, giù, giù per il promontorio e poi oltre le case dei pescatori e infine la spiaggia e i bagliori azzurri, solo allungare una mano, distanza come inesistente, un passo, due passi, scesi l'ultimo gradino e ancora vidi il promontorio e le case e la spiaggia e i bagliori azzurri, nessun ostacolo, nessun velo, davvero?, una grata invisibile tutt'attorno al tempio.
Avevo imparato a sentirlo sulla pelle, quel che c'è di invisibile.
Quando mossi ancora un passo oltre il tempio il gelo mi strinse d'un tratto, mi morse, affondò nelle carni con rabbia. Io restai immobile, lasciando che mi illividisse le labbra, che mi facesse tremare, non abbassai lo sguardo e ingoiai bile amara. Se avesse potuto, lo sapevo, lo sentivo, quel gelo mi avrebbe squartata. Lacerata e violata e lasciata in pezzi per l'eternità.
Forse poteva.
«...mi dispiace.» sussurrai «Mi dispiace aver causato tutto questo.»
Non mi ero davvero aspettata che rispondesse. Continuai: «Mi dispiace avertici trascinato. Ho cercato di parlarle, di convincerla, ma non... non mi guarda neanche. Non vuole ascoltarmi. Pensa che...»
Mi inumidii le labbra, scossi il capo senza dare voce a quell'immagine assurda e violenta. L'aria di morte mi morse i polmoni quando inspirai.
«Pensa che io sia troppo spaventata per dirle la verità.»
E lo ero, davvero, spaventata e angosciata e con la voce sempre più incerta, sempre più acuta. Il silenzio mi apriva squarci slabbrati nel petto. Mi forzai a ingoiare il tremito salato di cui vacillavano le mie parole.
«E io non posso... non posso ignorarla, capisci? È mia madre. È Demetra. Mi protegge qui e io non posso... lo senti quest'inverno? Non è vivo, non è giusto, questo è sterminio. Non è quiete o ordine, non è legge, e io... io non posso. Non posso, so che è giusto che anche qui ci sia l'inverno, che Demetra smetta di impedirlo ma questo non è smettere di impedirlo, è... è...»
Deglutii. Presi un respiro, piano, poi un altro, come per calmarmi. Il gelo furioso che mi straziava i polmoni riuscì solo ad agitarmi di più.
«Te lo ricordi, come mi sono accasciata quando ho toccato terra? E a nord del Ponto la terra prega a bassa voce di tornare alla vita, qui urla e prentede e mi divora, mi strappa ogni energia, ho voluto fermarmi qui, ti ricordi? Ho voluto fermarmi qui perché la terra mi chiamava e il tempio mi chiamava e i mortali mi chiamavano, e tu non l'hai visto perché ti ho detto di andar via, ma quando sei sparito io non ce l'ho più fatta, non ho resistito, mi avevano strappato così tanto che sono diventata bianca e gelida, mia madre mi ha trovata che ero solo un fantoccio immobile per terra, sembravo una bambola rotta. Sai che poi ho dovuto passare ore nell'acqua calda, prima di sentirmi meglio? E meglio non è bene. Meglio non è sana o felice o anche solo, ah, non desiderosa di sparire. E se non ti ho pregato per tutto questo tempo, se non ti ho chiesto se per favore potevi strapparmi dai vivi, è perché lo faresti. So che lo faresti. Con te tutto finirebbe e io non dovrei più stare qui con l'inverno troppo freddo e mia madre che non mi guarda.»
Chiusi gli occhi, serrai le palpebre scavandomi rughe profonde sulla fronte, ma a che serviva? Era sulla pelle, non sotto lo sguardo, che sentivo la sua furia dolente.
«E io, mi dispiace, mi dispiace, non voglio. Così è abbastanza. Non voglio che peggiori, che sia così per sempre, ho bisogno della primavera, capisci? Non ho più neanche la forza di discutere con mia madre, voglio solo che finisca, però deve finire per tutti, se finisse solo per me che senso avrebbe? Posso decidere di discutere e allontanarmi e nascondermi dove lei non potrà uccidere la vita, posso chiederti aiuto, posso dirti di andare da mio padre e fare a pezzi questa farsa, e poi? Lasciarli tutti qui a morire di fame? Hanno bisogno della primavera, ma così io non posso offrirgliela, prometto che tornerà sapendo che non può tornare, non così, non con questa rabbia. Demetra non si placa, lo leggo nei volti scavati delle ninfe, ed è colpa mia. È colpa mia e non sono io a pagare, sto impazzendo, li sento sempre supplicare, sempre, non smettono mai, non riesco a dormire, stanno soffrendo perché io ho avuto paura della reazione di mia madre e le ho detto tutto troppo tardi. Per un'idiozia del genere. Non so neanche come sta la mia nutrice, se le ha fatto del male, se l'ha punita, se...»
M'interruppi, inghiottii a forza il picco acuto nella mia voce. Sperai quasi che mi dicesse qualcosa, che smentisse o almeno mi togliesse da quel dubbio atroce, se, lui l'avrebbe saputo, l'avrebbe vista nelle processioni dei morti. E invece nulla, restò in silenzio a straziarmi la carne di gelo.
«Non posso, capisci? Non posso ribellarmi e lasciarli a morire di fame, non ho le forze per nutrirli io sola, non...»
Sembrava che non potessi mai, quando ero con lui. Forse era, semplicemente, troppo oltre i miei limiti.
Avrei voluto trovare un addio più adatto, degno di tracciare nettissimo il confine – perché dopo quel confine c'era un'eternità intera e quell'ultimo istante meritava di valerla tutta, di strapparmi ogni dubbio. Quell'addio doveva ricordargli e ricordarmi a ogni respiro che era l'unica scelta possibile, quell'addio doveva essere saldo e sicuro e sussurrarmi all'orecchio, la notte, che avevo fatto bene. Che non dovevo avere rimpianti. Che lui avrebbe capito, che io avrei smesso di sentirmi la vittima sacrificale sull'altare, avevo salvato il piccolo di una scrofa solo per finire al suo posto?
Quell'addio doveva darmi la forza di offrire la gola al sacerdote, e invece fu solo un bisbiglio mangiato dai singhiozzi.
«Perdonami.»


 
   
 
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