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Autore: TuttaColpaDelCielo    14/09/2015    1 recensioni
«Kore.» chiamò «Fanciulla.»
Nyx scostò i suoi veli d'ombra dal mio corpo, mi lasciò esposta sotto lo sguardo del suo signore.
«Ade.» sussurrai «Invisibile.»
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Demetra, Persefone
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La Fanciulla e l'Invisibile'
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Estate

Il prima possibile, per mia madre, si rivelò essere più di un giorno, due giorni, tre giorni. Al quarto, Calligeneia combatté lo stordimento febbrile e mi fissò con occhi annebbiati ma presenti.
«Riportami a Ortigia.»
«...stai delirando.»
«Sono lucida.»
«Hai la febbre, non... aspetta di rimetterti un po', almeno.»
Lei si addolcì in un sorriso e sollevò una mano a fatica per accarezzarmi il viso.
«Sono nata a Ortigia, dalla naiade della fonte. Voglio...»
Non commentai nulla, per pietà di me stessa.


«...e anche là in fondo, dove abbiamo trovato i pastori...» si coprì la bocca con la mano per tossire «anche... anche là c'era solo papiro. Quando ero bambina, mia madre non riusciva mai a tro-»
La sostenni per le spalle mentre l'ennesimo accesso di tosse la piegava. Faticava sempre di più a parlare, ma non smetteva mai di raccontare e raccontare e raccontare, da sua madre a lei a mia madre a me si snodavano generazioni di donne di cui ora raccoglievo la memoria. Non erano visioni annebbiate di vecchia, ma giorni lontanissimi che descriveva come se li vivesse in quel momento; erano ciò che voleva io ricordassi di lei, e io allora accettavo quell'offerta e la custodivo con il terrore che ogni parola sarebbe stata l'ultima.
«Andiamo, nutrice?» mormorai «È quasi il tramonto. Torneremo domattina.»
Lei, di nuovo, sorrise e mi accarezzò il viso. Un intero pomeriggio al sole non era bastato a toglierle i tremiti di dosso.
«Dormiamo qui.» mi rispose.


Scelse la notte più breve dell'anno, per andarsene.
...andarsene. La delicatezza dell'eufemismo neppure mi sfiorò, quando spalancai le palpebre, destata da un colpo improvviso contro lo sterno che mi tolse il respiro. La stringevo ancora tra le braccia, come se ci fossimo appena addormentate.
«Hai paura?» sussurrai.
«Sì.» mi rispose qualcosa che non era voce ma... ma altro. Distante e irraggiungibile e diverso ma sempre lei, in qualche modo che non riuscivo a capire. L'ombra di ciò che era stata.
Nel buio, il mio respiro non trovava eco.
Serrai le palpebre, serrai le braccia attorno al suo corpo, e c'era qualcosa di incredibilmente angosciante nel toccare un cadavere, avevo il terrore e la speranza che all'improvviso ricambiasse la mia stretta, ma sapevo che non era lei, perché lei era altrove, distante e irraggiungibile e diversa, avevo sentito quel colpo sordo contro lo sterno che mi aveva svegliata e... e poi venne la realizzazione lacerante e per fermare il dolore chiusi fuori il mondo e la mia mente.
Non potevo sopportarlo.
Non potevo.
Volevo dormire.
E non ci fu il rimpianto e il ricordo e il pensiero del futuro spezzato, perché era troppo, troppo, per Asclepio c'era stato ma quello non era Asclepio, quello era un pezzo di me che si strappava e si perdeva. L'assenza pulsava alle tempie insieme al sangue, mi spezzava il respiro con il suo rimbombo implacabile.
Dormire, solo dormire.
Mi raggomitolai contro il suo corpo mentre i ginepri crescevano a nasconderci, affondavano le radici nel terreno e si tendevano intrecciati versi l'alto. Li nutrii delle mie carni fino a non scorgere più la luce della luna sulle mie palpebre chiuse.


Aveva la pelle bluastra e rigonfia di umori e fredda, oh così fredda là dove il mio abbraccio non arrivava a scaldarla. Aveva la gola congestionata, anche, che talvolta emetteva come un rantolo asmatico, quando un falso respiro si faceva strada. Gli insetti mi camminavano addosso per arrivare fino al suo corpo e deporvi uova a grappoli, e le larve che già strisciavano erano la misura del tempo trascorso.
Nel rifugio di ginepri l'aria era ferma, vi stagnava l'odore che hanno i corpi quando si disfanno. Oltre la rete intricatissima di arbusti, la voce di mia madre era un richiamo stridulo che mi spingeva a coprirmi le orecchie con le mani.
«Kore? Kore, ti prego-»
La tagliai fuori – solo dormire, solo non sentire.


Mi sentivo viva con un'intensità quasi assurda e al contempo soffocata da una cappa di nulla e ghiaccio e angoscia. Era come addormentarmi nella neve e svegliarmi tra le braccia dell'Invisibile, diventava sempre peggio, sempre più contrastante e stridente e nauseante.
Non lasciavo mai il corpo che era stato Calligeneia e che ormai era culla e rifugio e nutrimento di mille zampe.
Riuscivo solo a dormire, consumata da una fame che non poteva uccidermi. Sognavo viscere putrescenti e fosse scavate da larve affamate, paura e quel qualcosa distante e irraggiungibile e diverso, asfodeli in distese senza fine. C'erano davvero, gli asfodeli – per la prima volta dall'inverno. Affondavano le radici nella carne annerita per nutrire spighe bianche, fiorivano dal mio lutto lacerante e non capivo se fossero consolazione o sbeffeggio. Li odiai.
«Maledetto.» bisbigliai «Maledetto, maledetto, maledetto...»


«Fanciulla.»
L'aria di morte era tanto densa che non mi accorsi neppure del suo arrivo, così il suo richiamo mi colse impreparata. Non ebbi la forza di sussultare, ma socchiusi gli occhi restando rannicchiata. Dall'orbita vuota del corpo, proprio davanti al mio viso, una grossa larva tentò di strisciarmi sulla guancia.
«Fanciulla.»
Sospirai, la scacciai con una mano – troppo forte. Il suono della carne spappolata diede la nausea a uno stomaco già contratto.
Sentii che l'Invisibile tentava di violare il mio rifugio spezzando la vita dei ginepri. Nemmeno mi sforzai di resistere: semplicemente, quelli restarono ritti e vivi di fronte al dio della morte. Buffo, pensai. Io ero in lutto e il mio potere sembrava più intenso che mai. Non ebbi la forza di interrogarmi su quel contrasto.
Ma gli arbusti si piegarono, modellarono il loro intreccio come serpi per aprire un varco alle mie spalle – troppo intenso per controllarlo, quel potere. Traditori. Dallo squarcio nella mia bolla di pace filtrarono la luce e il calore bruciante dell'estate, cappa umida e soffocante, e aria pulita che non sapeva di morte. Affondai il naso tra i capelli radi e secchi del corpo.
Ogni passo sembrò un tuono, al mio udito inutilizzato troppo a lungo. Giunto alle mi spalle l'Invisibile coprì la luce che filtrava dal varco e mi avvolse di nuovo nell'ombra, ma ormai la bolla era scoppiata, l'illusione incrinata, il mondo esisteva e io non potevo più dormire. Mi forzava a esistere e a vivere.
Sospirai.
«Sii buono con lei, ti prego.»
La mia voce era arrochita da un silenzio di giorni. La sua, tiepida di distacco gentile.
«Hai ancora la sfacciataggine di chiedermi qualcosa?»
«...per lei, sì.»
«Alzati.»
Mi rannicchiai di più contro il corpo. Fu il suo turno di sospirare.
«Fanciulla.»
La sua ombra si abbassò, la luce tornò a filtrare mentre lui si inginocchiava accanto a me.
«Non...» mormorai «non ti avvicinare. So di morto.»
Lui rise piano e mi sfiorò il capo.
«Oh, Fanciulla. Questo dovrebbe fermare me
Non gli risposi, ma non mi ribellai al suo tocco e allora mi accarezzò ancora, fece scorrere le dita tra i miei capelli districando i nodi.
Mi sollevai a fatica, tenni ancora un braccio attorno al corpo di Calligeneia mentre l'altro ritrovava la mobilità. Colsi un asfodelo che cresceva dalla carne e lo porsi all'Invisibile a occhi bassi. Un'offerta ridicola, per quel che gli chiedevo. Sfacciata fino all'ultimo.
«Questo, almeno, non appassirà perché ci sei tu.» bisbigliai.
L'Invisibile ritirò la mano senza rispondere.
Aggiunsi: «Ti prego. Mi ha sempre fatto del bene.»
Mi prese l'asfodelo dalle dita, me lo mise tra i capelli con la goffaggine di chi un gesto simile non l'aveva mai neppure concepito. Mi sollevò il viso con una stretta che era quasi una carezza e guardandolo scoprii che era serio, ma di una serietà malinconica e morbida.
«Mi hai già chiesto qualcosa che non ti concederò mai. Su questo, posso accontentarti.»
Gli coprii mano con la mia, lui si chinò fino a toccarmi la fronte con la sua.
«Quando arriverai, lei sarà accanto al trono ad attenderti.»
Ogni risposta morì contro le sue labbra. Mi schiusi per lui mentre mi baciava, mi lambiva con la lingua quasi mi assaporasse, mi sfiorava morbido e lieve come mai si sarebbe detto a sapere che era Ade. No, era l'Invisibile. Era una dolcezza che bisbigliava sei preziosa, si prendeva le mie labbra senza pretenderle perché per la conquista e la battaglia ci sarebbe stato tempo ma non quel giorno, non quel giorno. Mi sfiorava con dita delicate che avrebbero potuto lasciarmi i lividi, e io mi scioglievo nella consapevolezza che anche se poteva non voleva. Sulle guance avevo solchi umidi; sulla lingua, sapore aspro di carne marcia. Mi piacque.
Nel mio rifugio di ginepri, con un cadavere al fianco e le larve che ci strisciavano addosso, l'Invisibile ingoiò il mio respiro e il mio lutto.

*

Le vidi storcere il naso e voltare il capo, quando arrivai portando il mio odore di morto e consunzione. Sussultarono e rabbrividirono e solo mia madre osò avvicinarsi per prendermi una mano – non mi abbracciò.
Il silenzio era assordante.
Mia madre mi accompagnò al torrente per lavarmi di dosso quell'odore. Abbandonata nell'acqua fresca, trovai finalmente sollievo dal calore bruciante dell'estate.
«Come stai?» le chiesi a bassa voce, mentre mi sfiorava una gota con i polpastrelli tiepidi.
«Tu?»
«...bene, credo.»
L'aria sapeva di lavanda e di alloro, e per la prima volta da giorni mi sembrò di non soffocare nell'odore di putrefazione.
Passò a pettinarmi con le dita.
«No, lascialo.»
Le fermai la mano prima che mi sfilasse l'asfodelo dai capelli. Candido tra le ciocche scure, era contrario e uguale a un livido violaceo sulla pelle chiara – segno della presenza, consolazione nell'assenza.
«Starà bene, lo sai?» mormorai, voltandomi a guardare mia madre. Aveva gli occhi lucidi.
«Lo spero.»
«Le ho gettato una manciata di terra sul petto e messo l'obolo in bocca per il traghetto. Arriverà incolume al giudizio, e dal giudizio non ha nulla da temere.»
«...chi ti ha spiegato i riti funebri?»
Sorrisi senza rispondere. L'Invisibile aveva persino portato l'obolo, immaginando che io non lo avessi con me.
...chissà a cosa servivano le monete, al traghettatore infernale.
Forse un giorno glielo avrei chiesto di persona.
«Intrecciami i capelli per il lutto.» le chiesi, con il sorriso appena più incerto.
«Ti procurerò delle vesti bianche, se vuoi.»
Il bianco era il colore del lutto e della neve e dell'Invisibile. Del narciso che per la prima volta mi aveva condotta a lui, del bucaneve che mi aveva dato forza in inverno, dell'asfodelo che portavo tra i capelli.
«Voglio.»

*

Quell'estate passò in fretta, tra vesti bianche e l'asfodelo che non sfioriva e il lutto che la notte, in solitudine, pesava sulle spalle. Tra sogni umidi e ninfe che avevano l'ordine di non lasciarmi mai sola e l'eco delle parole che Calligeneia avrebbe detto, dei sorrisi che Calligeneia avrebbe rivolto. Frutti di bosco asprigni il cui succo mi macchiava le dita come sangue, fiori nutriti delle mie risate. Malinconia dolce e nostalgia e il pensiero di Calligeneia che piano sfumava, e mi sembrava di non sentire più così spesso una voce che non c'era, di non aspettarmi più così tanto una carezza che non poteva arrivare.
Morsi quell'estate come un frutto dolcissimo e risi e corsi e vissi sotto il sole, con il caldo bruciante e l'acqua fresca e i fiori che nascevano dai miei passi. Gli asfodeli premevano sotto il terreno ma io li rispingevo giù, chiedendo loro perdono, perché già le ninfe stornavano lo sguardo pur di non vedere la spiga bianca tra i miei capelli. Già ammutolivano troppo spesso quando parlavo, e non ridevano con me, e faticavano a toccarmi. Mi intrecciavano corone di fiori, di alloro e rosmarino, e chissà che odore cercavano di coprire credendo che non capissi.
Nel caldo i loro doni seccavano subito.
La spiga tra i miei capelli restava viva e florida.
E allora risi e corsi e vissi ingoiando la solitudine, tentando di non preoccuparmi dei doni e del silenzio, godendo dell'estate in spregio al lutto.
Il primo giorno d'autunno ebbe il sapore di una sentenza inappellabile.
   
 
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