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Autore: bibersell    11/10/2015    5 recensioni
Una calda sera di Maggio Abigail Jensen, la figlia diciottenne di uno dei più importanti giudici di pace dell'intera Washington, viene rapita da Storm, il quale è pronto a correre qualsiasi rischio pur di assecondare il suo folle e sconsiderato piano. Sarà proprio questa stessa follia che porterà Abby e il suo carnefice su una strada piena di sorprese e colpi di scena.
Il giudice è pronto a tutto pur di riavere indietro la sua bambina, ma riuscirà a tradire la giustizia pur di salvarla?
Storm riuscirà a rinunciare a quella ragazza dal viso d'angelo che giorno dopo giorno si insinuerà maggiormente nella sua testa?
Ed Abby riuscirà mai a perdonare sia il padre che Storm?
Dal nono capitolo:
"Per la prima volta riuscii a vederlo. Vederlo veramente. Senza apparenze e inutili maschere.
Se ne stava lì con le spalle leggermente ricurve come se il peso morale che si portava sempre dietro lo avesse piegato definitivamente al proprio volere. Le labbra erano chiuse e totalmente inespressive, ma gli occhi brillavano di una luce nuova. Sembravano essersi accessi e persi in una valle di ricordi felici fatti di gioia e spensieratezza.
Era totalmente immobile, eppure si muoveva".
Storia in revisione.
Genere: Angst, Azione, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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Banner fatto da me con PhotoshopCC, spero vi piaccia

Consiglio l'ascolto di questa canzone che è davvero stupenda.

 

Voglio ringraziare tutte le lettrici che mi hanno supportata fin dall'inizio, hanno creduto in questa storia e mi hanno spronata a scrivere quando volevo abbandonarne la stesura.
Se oggi posso mettere una fine ad Oblio è solo grazie a voi.
Questo capitolo conclusivo è tutto per voi.





Epilogo


 
Abigail's poit of view

Nove mesi dopo.


Tornare a casa era stato un vero incubo. Rivedere i miei genitori, i miei amici, la mia casa e riprendere le vecchie abitudini era stato un trauma.
Da quando mi ero svegliata da sola nella camera di Cheikh e avevo letto quella lettera avevo smesso di respirare. Il mio cervello sembrava non capire cosa fosse successo e si rifiutava di ammettere che Storm mi aveva abbandonata. Proprio lui mi aveva lasciata nella disperazione totale dopo tutto quello che avevamo condiviso. Aveva avuto il coraggio di andarsene dopo che avevamo fatto sesso.
Se era vero che il dolore si divideva in cinque stadi allora voleva dire che quello che provavo io non lo era. La delusione provata in un primo momento si era immediatamente trasformata in una rabbia cieca che non mi aveva ancora abbandonato. Anzi, aumentava ogni volta che rileggevo la lettera e pensavo a lui. Praticamente era una linea retta che andava a salire ogni minuto.
Quel giorno stesso ero tornata a casa. Rivedere mio padre era stato duro. Non gli ho rivolto la parola per mesi ma alla fine avevo capito che rimaneva pur sempre mio padre. Era comunque l'uomo che da piccola mi dondolava sull'altalena e mi rimboccava le coperte alla sera. Mia madre mi aveva supportata standomi accanto anche quando le urlavo di lasciarmi in pace. Con pazienza e amore mi consolava. Voleva che le raccontassi cos'era successo e sosteneva che solo parlandone sarei potuta uscirne.
Pensavano che avessi subito un trauma fisico o che avessi visto che terribili. Non sapevano che ed essere ferito era il mio cuore e non la mia mente. Quella era solo la conseguenza di un amore impossibile, non corrisposto, finito ancora peggio di come era iniziato.
Dopo tre settimane di silenzio da parte mia, mia madre si era arresa e mi aveva convinta ad andare da un psicologo. Sapevo che era inutile, che i problemi di cuore non si curavano così ma acconsentii per il bene che le volevo. Quella donna mi amava e vedevo il dolore che le procurava la mia sofferenza. E se potevo fare qualcosa per farla stare meglio allora l'avrei fatta.
Alla fine andare da uno specialista risultò fruttifero. Il dottore non mi fu di grande se non nessuno aiuto, ma il ragazzo che conobbi in sala d'attesa lo fu eccome. Si chiamava Connor e accompagnava la sorella minore dall'analista da quando i loro genitori si erano separati quasi un anno prima. Parlavamo del più e del meno ed erano passate settimane prima che mi chiedesse di uscire. Prima di accettare ci tenni a precisare che non sarebbe stato un appuntamento ma solo un'uscita tra amici.
Uscire con lui mi aveva fatto bene e grazie a Connor avevo riscoperto il piacere e la serenità che solo una buona uscita tra amici poteva dare. Lui era riuscito a darmi pochi attimi di spensieratezza durante i quali la mia mente non aveva Storm come pensiero fisso. Dopo quell'uscita avevo chiamato Jenny che in quei masi avevo totalmente ignorato. In un primo momento mi rimproverò per non averla considerata da quando ero tornata ma l'arrabbiatura le passò in breve tempo.
Jen fu l'unica a cui raccontai di Storm. Capì quasi subito che il mio turbamento non era dovuto a una questione mentale. Le parlai di lui e, come avevo presupposto in quelle due settimane passate con Storm, lei già lo adorava e quando le dissi che mi aveva abbandonato con una lettera Jen aveva sostenuto che quello era il tipico comportamento da Heathcliff e che come tale era pazzo di me solo che era troppo stupido, vigliacco e orgoglioso per ammetterlo e aveva scelto la strada più facile.
Quell'analisi così "letteraria" mi fece sorridere per la prima volta dopo mesi. Grazie a Jen avevo iniziato a prendere la faccenda con sarcasmo. Jen mi raccontò di come lei e Constantine si erano avvicinati in quelle settimane e di come lui le era stato vicino e di come si stavano innamorando.
A Natale si misero ufficialmente insieme e fui felice per loro ma non potei non provare un minimo di invidia. La loro storia era nata e sbocciata consuetamente. Si erano conosciuti ed erano usciti insieme per parecchio tempo e avevano cercato di capire se potevano funzionare come coppia. Avevano costruito qualcosa di sano e duraturo mentre quello che avevo avuto io con Storm in quelle settimane era stata solo passione selvaggia consumata in poche ore.
Diverse volte avevamo fatto delle uscite a quattro con Connor ed era stata proprio in una di quelle sere che avevo capito di essere ancora innamorata di Storm.
Eravamo in una discoteca ed entrambi, io e Connor, eravamo allegri e brilli. Stavamo ballando molto vicino e ridevamo senza motivo come due ebeti. Ad un certo punto Connor mi aveva baciata senza preavviso ed era stato in quel momento che l'avevo capito. Per quanto potessi far finta di non sognarlo tutte le notti e di non pensarlo di giorno non potevo negare di essere ancora presa da lui. Mi era entrato nel cuore e non se ne sarebbe andato facilmente nonostante tutto il dolore che mi aveva provocato. Ero arrabbiata con lui, volevo delle spiegazioni ma ero ancora perdutamente e profondamente innamorata di Storm. E la cosa più divertente era che lui non l'avrebbe nemmeno saputo. Probabilmente se ne stava su un'isola caraibica a spassarsela con una brasiliana. Quel pensiero mi fece raggelare e ricambiai il bacio di Connor.
Il sapore era diverso. I brividi inesistenti. Il modo di accarezzare le mie labbra era sbagliato. Il mio corpo non bruciava a contatto con quello di Connor. Semplicemente Connor non era Storm.
Mi allontanai da lui e abbandonai la discoteca in lacrime con la consapevolezza di dover ricominciare una nuova vita.


Dopo le feste di Natale mi trasferii nel mio nuovo appartamento a Chicago. Avevo deciso di cambiare completamente aria trasferendomi a distanza di ore di macchina dai miei. Ci sentivamo ogni giorno e andavo a trovarli tutti i fine settimana. Agli inizi di gennaio mi ero iscritta a lettere moderne e avevo iniziato il nuovo semestre in una magnifica università che mi piaceva molto.
Avevo conosciuto gente nuova e mi ero fatta il mio gruppo di studio. Jen e Constantine erano rimasti a Washington e avevano cominciato lì giurisprudenza fiduciosi di poter poi conseguire un master con mio padre.
Il mio nuovo appartamento era al centro di Chicago in un vecchio palazzo che pullulava la neolaureati. Era passato un mese da quando mi ero trasferita e nove mesi da quando avevo scoperto che se anche il tuo cuore viniva spezzato in due la vita intorno va avanti e l'unico modo per non farsi sopraffare è rimboccarsi le maniche e ricominciare da zero.

Il freddo di Febbraio a Chicago lacerava la pelle. Rabbrividii sotto i miei due maglioni e il piumino. Percorsi i pochi isolati che mi separavano dal mio condominio il più velocemente possibile.
Camminavo a testa bassa consolandomi al pensiero che tra poco mi sarei riscaldata nel mio appartamento. Uscita dall'università mi ero fermata in una tavola calda per riscaldarmi ed avvantaggiarmi. A casa mi aspettavano altri scatoloni da aprire e sistemare. Nonostante mi fossi trasferita un mese prima non ero riuscita a portare tutte le mie cose nel nuovo appartamento e i miei genitori me le stavano inviando a piccole dosi.
Affrettai il passo in quella serata gelida. Erano solo le sette del pomeriggio e il cielo già era buio pesto. Le ombre della notte già erano scesa su quella fredda Chicago.
Arrivata al cancello del palazzo cercai le chiavi nella borsa con mani viola e quasi paralizzate dalla bassa temperatura. Avevo dimenticato mi mettere i guanti quella mattina e il risultato era impiegare cinque minuti buoni per afferrare il mazzo delle chiavi.
Aprii il cancello e salii di corsa i tre piani di scale. Arrivata fuori alla porta una fitta mi colpì il basso ventre. Fu così forte che mi appoggiai allo stipite della porta. Girava una brutta influenza in quel periodo e temetti per la mia salute. Non potevo ammalarmi proprio in quel momento, non quando avevo il primo esame a breve.
Aprii la porta di casa per poi richiudermela alle spalle. L'appartamento era buio, solo la debole luce del lampione stradale filtrava tra le pesanti tende. Poggiai le chiavi sul tavolino e accesi la lampada da soggiorno. Una flebile luce calda illuminò l'ingresso quel poco che bastava per permettermi di posare la borsa sulla credenza e accasciarmi per lasciare una carezza sul dorso di Mercoledì, la mia bellissima gatta.
Quando avevo deciso di prendere un gatto avevo da poco finito di leggere Robinson Crusoe e, come lui aveva chiamato il suo amico Venerdì perché trovato in quel giorno, allora io avrei fatto lo stesso con la mia gattina.
Mercoledì si stiracchiò sotto le mie carezze e miagolò di piacere.
«Siamo in vena di coccole, oggi» dissi alzandomi e dirigendomi in camera da letto. Al buio attraversai il corridoio e mi spogliai lasciando i vestiti per terra. Quando arrivai in camera ero solo in jeans e reggiseno. Presi in braccio Mercoledì e la coccolai mentre lei si accoccolava sul mio petto.
«Alla mia gattina piace stare sul mio seno, vero?» dissi. Ormai avevo instaurato un vero rapporto di amicizia con lei. All'inizio mi sentivo un po' fuori di testa a parlare con un animale ma poi avevo capito che non c'era nulla di male, anzi lei mi capiva meglio di altre persone.
Mercoledì continuava a pretendere attenzioni da me e io continuavo a coccolarla ma non sembrava mai soddisfatta. Quando mi morse un seno gemetti dal dolore.
«Cattiva Mercoledì. Non si fa» la rabbonii facendola scendere. Lei prese a trotterellare su se stessa ma io la ignorai. Mi levai i jeans ancora sulla porta della camera e rimasi solo in intimo. Da quando vivevo da sola avevo preso l'abitudine di girare per casa nei modi più strani non curandomi di essere nuda o meno.
Quello era uno dei tanti vantaggi del vivere da sola. Quello e poter tenere la porta del bagno aperta. Mi affrettai ad indossare il pantalone del pigiama. Era rosa, di pile e con dei graziosissimi orsacchiotti disegnati. Presi una semplice magliettina a mezze maniche bianca, quella magliettina bianca. Quella che aveva comprato Storm la prima sera e mi aveva fatto indossare al posto del mio vestitino rosa. L'avevo lavata e adesso la usavo come pigiama. Avevo cercato di sbarazzarmene ma non ci ero riuscita. Di lui non avevo nulla, se non i ricordi. Quella maglietta era l'unica cosa tangibile che testimoniava che quelle due settimane erano accadute veramente e non erano solo un lunghissimo sogno.
Mercoledì continuava ad agitarsi e io non capivo il perché. «Ma come siamo iperattive oggi» le dissi superandola e dirigendomi in soggiorno. Dal corridoio vidi la luce accesa al centro della sala. Quando ero entrata avevo acceso la lampada sulla credenza, non avevo premuto l'interruttore. Mi agitai. Che Mercoledì avesse percepito prima di me la presenza estranea?
Strinsi le mani a pugno intorno alla mia ciabatta e a piccoli passi mi diressi in soggiorno. Lo sapevo che una pantofola non avrebbe potuto fare granché ma era sempre meglio di nulla.
Girai il corridoio e per poco non caddi a terra. Retrocessi fino a finire contro il muro.
Non poteva essere vero. Quello seduto sulla poltrona non era lui.
«Una volta gli spogliarelli li concedevi solo a me» 
Quello che aveva appena parlato non poteva essere Storm.



Dopo il “fatidico” giorno sulla testa di Storm e Jack posavano due grosse taglie e la società gli aveva etichettati come ricercati. Le loro foto segnaletiche avevano fatto il giro dei telegiornali per settimane. Io, in cuor mio, non sapevo cosa sperare. Da una parte volevo che li trovassero, che trovassero Storm e che finalmente lo potessi guardare in faccia con i miei occhi pieni di rabbia e chiedergli come avesse potuto lasciarmi solo in casa di Cheikh.
D’altra parte, ogni sera pregavo affinché non lo trovassero. Il solo pensiero di saperlo in una cella mi faceva impazzire. Dopo mesi le ricerche si erano fatte meno insistenti e io mi ero rassegnata al fatto che non l’avrei mai più rivisto.
Per questo era impossibile che lui, proprio lui, fosse davanti a me. Non quando poteva rischiare di essere arrestato. Era venuto proprio nello stato di Washington, dove la magistratura di mio padre era potere assoluto. Solo un pazzo avrebbe fatto una cosa del genere.
«C-che ci fai qui?» balbettai con un filo di voce. Mi appoggiai completamente alla parete. Le mie gambe erano fuori uso, non avrebbero mai retto tutto il peso del mio corpo.
Lo vidi alzarsi dalla poltrona e venirmi incontro. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era il suo aspetto. Era più bello che mai. I lineamenti della mascella sembravano ancora più netti e marcati con quel filo di barba che gli donava un aria trasandata. Brillava di un fascino nuovo.
I suoi occhi sembravano essersi fatti ancora più chiari e severi e la laro sfumatura di sofferenza si era fatta ancora più fitta. Indossata una magliettina leggera azzurra consunta dai troppi lavaggi e lisa in diversi punti che faceva risaltare i suoi due zaffiri.
Mi guardai in giro alla ricerca di una giacca ma non vidi nulla e mi chiesi come avesse fatto a non andare in ipotermia con solo quella semplice maglia. Quel pensiero mi riportò alla mente le numerose discussioni fatte ormai quasi un anno fa nella sua macchina. Storm soffriva davvero il caldo.
Face qualche passo nella mia direzione ma poi si bloccò al centro del soggiorno. «Sei cambiata» disse semplicemente.
Avevo dimenticato quanto le sue improvvise uscite potessero spiazzarmi.
«Beh anche tu» replicai con un pizzico di risentimento. Lui sorrise leggermente ma senza mostrare i denti e si passò una mano lungo la mascella.
«Ho scoperto che al mattino si risparmia parecchio tempo» disse riferendosi alla lunghezza dei peli sul suo volto. «Hai tagliato i capelli» continuò facendo un passo verso di me e alzando il braccio come a volerli toccare ma tra di noi c’erano come minimo tre metri.
«Ho scoperto che impiego meno tempo per asciugarli» risposi alla sua stessa maniera. Avevo deciso di tagliarli il mese scorso, dopo essermi trasferita. Volevo dare un taglio netto alla mia vita e avevo deciso di cominciare proprio dal mio aspetto. Una bella spuntata di capelli. Adesso li portavo corti, arrivavano sotto la mascella.
Quando mi ero guardata alla specchio la prima volta avevo pensato: “ecco adesso somiglio veramente ad una bambolina”. Gli occhi mi si erano riempiti di lacrime e appena ero uscita dal negozio mi ero lasciata andare ad un pianto che sembrava infinito.
Ma i capelli non erano l’unica cosa che avevo cambiato. Avevo detto addio alle lentine a contatto ed avevo acquistato una montatura nera e rotonda che mi faceva sembrare una studentessa modello. Avevo anche pensato di tingermi i capelli rinunciando al mio biondo naturale.
«Ti stanno bene gli occhiali». Storm parlò di nuovo e la sua voce mi ridestò dai miei futile pensieri.
«Storm..» dissi staccandomi dalla parete «perché sei qui?» chiesi in tono calmo. Dentro avevo così tanta rabbia che credevo che appena lo avessi rivisto gli sarei saltata addosso e gli avrei staccato la testa a morsi. E invece no, ero calma. Almeno in apparenza.
«Mi trovavo da queste parti e mi sono detto: perché non salutare una vecchia amica? Ed eccomi qua. Come stai, Abigail?» disse col sorriso sulle labbra e in tutta serenità.
Come si diceva? Le ultime parole favose, giusto?
In un attimo mi staccai dalla parete e con un balzo felino degno di Mercoledì gli fui addosso. Lo slanciò su talmente potente che lui perse l’equilibrio e cadde a terra rotolandosi sul tappeto. Gli fui subito sopra e la mia mano partì in uno schiaffo che tanto avevo sognato di dargli.
Dopo mi sentii molto meglio ma gliene diedi anche un altro sull’altra guancia. «Tu mi hai lasciata da sola. Non puoi neanche immaginare cosa ho provato quando mi sono risvegliata da sola in un letto che non era il mio. In una casa che non era la mia e, dannazione, in un paese che nemmeno conoscevo!» mi sfogai ancora sopra di lui.
Il suo sguardo si fece serio e l’aria intorno a noi si riempì di sofferenza e parole non dette. «Sono stato un bastardo, okay? E mi merito tutti gli schiaffi di questo mondo ma non fare l’errore di pensare che io non sia stato male» ribadì sollevandosi sui gomiti e portando il suo viso a pochi centimetri di distanza dal mio.
«Certo, come no» dissi sarcasticamente. «Spassarsela tutte le sere con una ragazzetta diversa deve essere davvero stancante». Risi amaramente staccandomi da lui e mettendomi in piedi.
Lui, sconvolto, rimase steso sul tappeto. «Cosa?» sbalordito si rimise in piedi ma si tenne a distanza da me. Stare vicini non ci faceva bene, rendeva le nostre menti irrazionali e quello non era proprio il momento adatto per scegliere di mettere fuori gioco il cervello.
«Tu pensi che in questi mesi me la sia spassata? Pensi davvero che avrei potuto farti una cosa del genere dopo quello che abbiamo passato?» si stava arrabbiando e non concepivo che lo fosse. Io era l’unica tra i due che aveva diritto ad essere arrabbiata.
«Fino a prova contraria sei stato tu ad andarne nel bel mezzo della notte» replicai fermamente passandomi le mani tra i capelli.
«Si, e lo rifarei altre cento volte se servisse a tenerti al sicuro» urlò muovendosi sul posto.
Quella sua ammissione mi lasciò leggermente interdetta e restammo in silenzio per diversi minuti.
«Al sicuro da chi, Storm? Da mio padre? Dalla polizia?» chiesi spostandomi verso la finestra. Mi serviva una ventata d’aria fresca. L’aria si stava facendo troppo soffocante.
«Da me. Volevo tenerti lontano da me, Abbs» disse abbassando il tono di voce.
A quelle parole mi voltai a guardarlo. Quella storia l’avevo già sentita. «E allora perché sei qui?» dissi sentendo le lacrime e un passo dalla sgorgare. «Non capisci che così mi fai solo più male? Io ero innamorata di te e quella mattina di hai spezzato il cuore. Sono stata male e adesso sto cercando di rimettere insieme i cocci, di rifarmi una vita. E tu non sei compreso nei miei progetti». Una lacrima scese lungo la mia guancia e gli occhi di Storm ne seguirono il percorso. «Vattene e non tornare mai più».
Mi voltai e lasciai che le lacrime sgorgassero. Rivederlo aveva riaperto una ferita la cui cucitura era stata fatta da un dottore inesperto e con mani poco salde.
Delle braccia, le sue braccia, mi abbracciarono da dietro e, impotente, mi lasciai toccare e consolare. Lentamente mi voltai e piansi sul suo petto quelle che speravo fossero le mie ultime lacrime.
«Vattene» biascicai a bassa voce con la testa sprofondata ancora del suo petto e le braccia allacciate al suo collo che lo stringevano a me. «Ti prego, vattene e non tornare mai più».
Lo imploravo di andarsene mentre il mio corpo non faceva altro che stringerlo a me. Tra le lacrime sollevai il volto e avvicinai le mie labbra alle sue in un gesto di pura follia. Fu un bacio lento e doloroso. Sembrava non finire mai. Le mie mani gli sfioravano la barba che non era ispida come sembrava, ma anzi era morbida e piacevole al tatto. Scoprii che mi piaceva e non avrei voluto che se la tagliasse mai più.
Gli toccai i capelli e glieli scombinai supplicandolo di non pettinarsi mai più. Doveva portare i segni del mio passaggio. Le sue mani sembravano toccare ogni parte del mio corpo, erano ovunque e io volevo che lo fossero. Più le mie labbra lo pregavano di andarsene tra un bacio e l’altro più le sue carezze si facevano ardite e io lo stringevo con maggior forza a me. Mi stavo facendo del male da sola, stavo infilzando il coltello nel mio cuore e con ogni bacio lo gettavo sempre più in profondità.
Quando cademmo per terra e ci rotolammo sul tappeto, ripresi un minimo di autocontrollo e mi bloccai allontanandolo da me. Non potevamo, dopo separarsi sarebbe stato ancora più difficile.
«Vattene» disse e questa volta mi allontanai da lui. Ingoiai le lacrime e mi ricomposi sedendomi sul divano e cercando di imporre la massima distanza tra di noi. «E non tornare mai più».
Chiusi gli occhi e mi girai aspettando di sentire il rumore della porta chiudersi e con esso porre fine definitivamente a quella storia. Sentii i suoi passi muoversi per la stanza e poi il rumore della porta che si apriva. Con il fiato sospeso aspettai di sentire il rumore di chiusura e quando lo sentii il mio cuore andò definitivamente in pezzi. Scoppiai in mille singhiozzi che nemmeno Connor, Jen e Constantine avrebbero potuto fermare.
Era finita sul serio e, questa volta, ero stata io a mettere il punto. Mi alzai sconvolta dal divano e vidi Storm ancora vicino alla porta. Non se n’era andato.
Mi bloccai. Lui venne verso di me, mi prese il volto tra le mani e mi baciò le labbra sussurrando su di esse. «Non potevano andarmene. Non di nuovo. Non senza averti detto quello che dovevo già confessarti nove mesi fa».
«Ti amo. Ti amo come non ho mai fatto e sei la cosa più bella che mi sia mai capitata» mi guardò negli occhi e li vidi lucidi e pieni d’amore. «Mi sono innamorato di te nel momento in cui ti ho vista a quella festa col tuo vestitino rosa. Eri così impertinente e non avevi paura. Non di me. All’inizio di ho odiato. Ti odiavo perché non ti potevo avere, perché non saresti mai stata mia. Avrei dato di tutto pur di essere come te, degno di te quando. Invece sono solo quello che ti ha usata per riavere il fratello. Il cattivo della storia. Ti ho amato per tutto il tempo, solo che non me ne rendevo conto. L’ho capito solo quando ti ho persa. Uscire da quella casa sapendo che non ti avrei più rivista è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto e quando ho rischiato di perdere la vita salvando quella di mio fratello ho capito di aver sbagliato tutto. Avevo fatto di nuovo la scelta sbagliata. Ho rischiato mi perdere la vita e in quell’istate mi sono pentito di non essere rimasto in quel letto con te. Mi sono arrabbiato con me stesso e con mio fratello». Fece una pausa durante la quale l’unica cosa udibile erano solo i miei singhiozzi.
«Ma questo non importa adesso, abbiamo tempo per parlare. Io voglio te. Ti volevo nove mesi fa, ti voglio oggi e ti vorrò anche tra dieci anni. Ti amo e il mio amore è per sempre».
Lo baciai con voracità. Lui mi prese in braccio e prese a camminare per casa e ci fermammo solo quando la mia schiena sbatté contro l’anta del frigorifero. Ridacchiai sulle sue labbra.
«Vieni via con me» mi disse e io rimasi paralizzata. Mi gelai sul porto e lui se ne rese conto. I suoi occhi si rabbuiarono ma continuò lo stesso. «Viene con me in Svizzera. Lì saremo al sicuro e potremo vivere insieme»
Lo guardai negli occhi non sapendo cosa rispondergli. Voleva che mi rimettessi in gioco. Di nuovo. E questa volta lo avremmo fatto insieme. Avrei avuto lui, che era tutto quello che avevo desiderato in quei mesi ma avrei dovuto rinunciare per sempre ai miei genitori, ai miei amici, all’università.
«Dovrei rinunciare a tutto..» dissi a voce alta senza rendermene nemmeno conto.
«Hai tempo per pensarci, amore mio» disse accarezzandomi i capelli e quelle parole mi fecero battere il cuore.
«Domani l’aereo parte all’una. Fino a mezzogiorno ti aspetterò al bar dell’università. Se non ti vedrò avrò la tua risposta» disse guadandomi negli occhi. «Io ti amerò per sempre, indifferentemente dalla tua decisione».
Mi fece scendere e le mie gambe toccarono il pavimento.
Mi baciò la punta del naso. «Arrivederci, bambolina» disse e questa volta uscì definitivamente da quella che era stata casa mia negli ultimi due mesi.
Storm aveva ragione. Comunque sarebbero andate le cose il nostro amore non sarebbe cambiato. Quello non era un addio, era solo un arrivederci.





 

Note
Adesso la storia è definitivamente conclusa.
Il capitolo è più lungo del solito e spero che mi sia fatta perdonare per il capitolo di ieri. Anche questo finale è molto aperto. Ho voluto lasciare una porta aperta. Sta a voi immaginare cosa succederà. Ci tengo a precisare che non ci sarà un sequel e che la storia è definitivamente finita.
Ringrazio di cuore tutti e spero di iniziare una nuova avventura con tutti voi. A breve inizierò la revisione di questa storia e ne comincerò anche altre che spero vi rubino il cuore come hanno fatto Abby e Storm.
Come sempre fatemi sapere cosa ne pensate di questo finale. Vi è piaciuto? Dopo l’ultimo capitolo vi aspettavate un epilogo diverso? Cosa importantissima: Storm non è morto, credo che questa renda felici un po’ tutti.
Un bacio e un abbraccio grandi quanto l’amore di Storm per Abby (e vi assicuro che l'ama davvero tanto).

A presto,
-R
  
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