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Autore: Zury Watson    05/11/2015    5 recensioni
Mycroft Holmes, si reca al 221B di Baker Street per incontrare Sherlock e il buon dottore con l'intenzione di rivelare qualcosa che potrebbe sconvolgere suo fratello. Ritenendo che sia arrivato il momento per lui di conoscere la verità e sapendo che non sarà semplice spiegare, decide di portare con sé questo qualcosa.
«You know what happened to the other one» - Mycroft Holmes (3x03 - His Last Vow).
Aggiornamenti sospesi fino a terminata revisione dei capitoli online
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The Other One


Circus

La notte era più nera che mai senza la tonda Luna a dare un'idea dei contorni della bella City, ma questo non intimoriva Hortensia la quale, anzi, aveva trovato più volte salvezza lasciandosi inghiottire dal buio per sfuggire ai suoi inseguitori.
Eppure quella sera era inquieta. La Adler le aveva inviato diversi messaggi dal loro ultimo incontro e lei li aveva ignorati tutti. Quelli di John Watson erano velatamente minacciosi, ma lei non si era offesa e gli aveva inviato un sms ogni tre ricevuti. Sherlock, invece, non si era ancora fatto vivo preferendo far impazzire il suo coinquilino anziché semplicemente ammettere di non avere l'informazione che voleva e di non sapere come reperirla se non torturando l'amico medico. Testardo. Forse anche più di lei.
Hortensia spense il portatile, stufa di leggere online cose che già conosceva e si alzò dalla scrivania preferendo uscire da quella stanza e, possibilmente, anche dai propri pensieri.
A piedi nudi, per non fare rumore ed essere in linea con la personalità di Mycroft, sempre così silenzioso da dare la sensazione di non essere reale, prese a gironzolare per casa dimenticando quasi la presenza di suo fratello all'interno dell'abitazione. Era rientrato dal Diogenes Club circa tre quarti d'ora prima, ma i due non si erano incontrati, né avevano quindi parlato. Parlare era un'azione che aveva sempre compiuto poco, ma ultimamente stava toccando i minimi storici a causa delle persone che le ruotavano attorno, o alle quali lei ruotava attorno. Questo ancora non l'aveva capito. In compenso aveva aggiunto nuove informazioni ai dossier catalogati con il nome di Fratelli Holmes. Si trattava di una corposa cartella, contenente a sua volta due sottocartelle rinominate "Mycroft" e "Sherlock", custodita nient'affatto nel suo pc, né in un hard disk esterno o in un microscopico supporto digitale. Tutte le informazioni si trovavano nella sua mente oltre che nel caveau situato nel cuore del Gottardo, uno dei luoghi ritenuti più sicuri al mondo. Si trattava di un bunker a tutti gli effetti, perfettamente nascosto tra le aperture naturali del massiccio, e Hortensia lo aveva scelto non soltanto per la massima sicurezza offerta, ma anche perché le era stato possibile depositare la parte virtuale della documentazione in una preziosa e super protetta banca dati elettronica a prova di hacker. Ne aveva testato personalmente l'efficacia. L'intera sua esistenza era quindi secretata nel bel mezzo dell'arco alpino e a meno che qualcuno non ideasse un metodo efficace per estrapolare informazioni dalla mente umana contro la volontà del legittimo proprietario, nessuno sarebbe mai arrivato a quell'archivio. Neanche Mycroft Holmes. Neanche Sherlock Holmes.
Si fermò nel grande salotto, accese solo una delle quattro alte abat-jour sistemate agli angoli della stanza lasciandosi avvolgere da una calda luce soffusa che ricordava quella delle candele o di un caminetto, e si servì un bicchiere di Cider-Brandy del Somerset1. Suo fratello sceglieva sempre il meglio per se stesso.
«Burrow Hill. Hai la sensazione di essere lì, non è vero? Tra meli e barili di sidro».
Un repentino tremore della mano, che rischiò di far traboccare il liquido dal prezioso cristallo lavorato, tradì la sorpresa di Hortensia quando l'inconfondibile voce vellutata, in perfetta armonia con l'ambiente, riempì la stanza.
«E dimmi, Mycroft, da quando sei così romantico?», gli chiese dissimulando abilmente lo spavento.
Lui sospirò e Hortensia fu certa che avesse alzato gli occhi al cielo, che si fosse appoggiato alla poltrona in pelle, avesse spostato il peso su una gamba sola e avesse incrociato l'altra dietro la prima. Quando si voltò, trovando conferma alle sue deduzioni, la donna reggeva un secondo bicchiere che offrì a suo fratello.
«Poetico», le rispose. «È diverso», precisò sorseggiando il delizoso liquido.
Hortensia annuì. «Ma cambia comunque poco. Tu sei Mycroft Holmes e le emozioni scappano via urlando quando ti vedono».
Nella penombra del salotto poté vederlo aggrottare le sopracciglia e contrarre le labbra, come se disapprovasse ciò che lei aveva appena detto oppure, forse, come se semplicemente non si aspettasse quella naturale confidenza da parte sua. Più la seconda, probabilmente.
«Tuttavia non sono una macchina», mormorò a mezza voce, con le labbra già ad avvolgere il bordo del bicchiere.
Hortensia lo trovò affascinante in un modo tutto suo. Mycroft non era quello che comunemente si definisce un bell'uomo, eppure non si poteva fare a meno di cadere nella sua ragnatela se si aveva a che fare con lui. Non aveva smesso di guardarla dritto negli occhi neanche per un istante costringendola, infine, a cedere e abbassare le palpebre per concentrarsi apparentemente sulle proprie dita strette attorno al bicchiere. Non era da lei un atteggiamento del genere e sapeva che se dinanzi a lei non ci fosse stato suo fratello ma un pericoloso nemico come Magnussen o Moriarty, quel comportamento le sarebbe costato caro. Per due volte nel giro di pochi minuti si era lasciata condizionare. Qualcosa in lei era cambiato da quando aveva iniziato ad interagire con i suoi fratelli e si rendeva conto che quel qualcosa rispondeva al nome di sentimenti e che questi erano alla base della sua irrequietezza.
«Esattamente perché ti sei messo sulle mie tracce?». Era il suo turno di spiazzare l'interlocutore.


Nelle settimane successive alla visita di Hortensia in Baker Street Sherlock aveva messo a dura prova la pazienza di John. Non era trascorso attimo in cui il consulente investigativo non avesse tartassato il suo amico con il solito, insistente, ossessionante quesito: "Qual è il suo nome?". E non era trascorso istante in cui il medico non avesse usato violenza su se stesso al fine di tacere, ritenendo più opportuno che i gemelli se la sbrigassero tra loro. Non era di suo gradimento essere il mezzo attraverso cui perpetrare dispetti di sorta. Nonostante la sua ferma convinzione e l'atteggiamento mai stato più ferreo di così nei confronti di Sherlock - il suo passato da militare svolgeva un ruolo chiave in questa circostanza - l'uomo aveva ceduto all'istinto di inviare alcuni sms alla donna. Non era stato gentile da parte sua rubare il cellulare di Sherlock e segnarsi il numero di sua sorella: si era sentito estremamente stupido, al pari di un ragazzetto che fa il cretino con la sorella del proprio amico. Ma non era per corteggiarla che aveva voluto il suo numero di telefono, perciò decise che poteva smetterla di rimproverarsi. E poi Hortensia non gli era sembrata offesa benché non avesse risposto a tutti i messaggi. Non che lui si aspettasse un comportamento diverso, anzi, era certo che lei lo avrebbe completamente snobbato. Ogni tanto, nel tentativo di ignorare l'irritante insistenza di Sherlock, i pensieri di John erano corsi indietro a quell'incontro e più precisamente a quando Hortensia gli si era fatta vicina.
Avrebbe potuto esibirsi nel pessimo tentativo di distrarla e destabilizzarla baciandola, - se anche caratterialmente somigliava a Sherlock, un contatto di quel tipo avrebbe mandato in tilt il suo cervello, John ne era certo - ma a guardare le labbra piene della donna gli erano venute in mente quelle di Sherlock e per qualche perverso scherzo della sua mente, le aveva trovate più attraenti di quelle della gemella. Sì, era riuscito ad ammetterlo a se stesso anche se questo non l'aveva affatto rassicurato spingendolo invece a formulare le ipotesi più disparate tra cui la faceva da padrona quella del dèjà-vu, ovvero il suo cervello aveva avuto un guasto momentaneo a causa di quella strana visione che aveva per protagonista la fotocopia femminile del suo coinquilino. Una qualche parte della sua mente non meglio precisata aveva suggerito qualcosa in merito a certi meccanismi del suo subconscio, ma John non le aveva dato retta preferendo non credere che Hortensia avesse avuto quell'effetto su di lui in quanto era un corpo femminile con fattezze del tutto simili a quelle di Sherlock il quale costituiva il reale oggetto del desiderio. "Ma di che desiderio stiamo parlando? Per favore! Io non sono gay", si era detto scacciando via quei pensieri con un gesto veloce della mano come si fa con il carrello della macchina da scrivere.
Si stava radendo quando Sherlock aveva fatto irruzione nel suo bagno ed esordito con un
«Hailey Wendi Holmes». Per poco John non si era tagliato sul mento.
Era invece intento a studiare i risultati di alcuni esami per un suo paziente quando Sherlock fece capolino dalla cucina, con una provetta in mano, e disse
«Hope Winona Holmes». John Watson si alzò e si chiuse nella sua camera da letto senza proferir parola.
Appena rientrato dal lavoro, nel tardo pomeriggio, aveva trovato ad accoglierlo uno Sherlock seduto a gambe incrociate sulla poltrona e non aveva fatto in tempo a varcare la soglia che il consulente investigativo lo aveva tempestato di nomi possibili inducendolo a tapparsi le orecchie con le mani.
«Non ti dirò niente! Smettila, ti prego!», gli aveva detto, esasperato. Ovviamente Sherlock non intendeva mollare la presa.
Aveva appena aperto il frigo e aveva avvicinato una bottiglia di acqua fresca alle labbra quando Sherlock era comparso, lateralmente allo sportello, facendolo sussultare. «Heather Winnie Holmes», aveva mormorato fissando i suoi occhi chiari in quelli del medico, osservandone le pupille per verificarne la reazione. E una reazione era arrivata, sebbene non fosse quella che Sherlock si aspettava. John, infatti, gli aveva sputato l'acqua in faccia, aveva chiuso il frigo e pensato di usare il suo blog per sfogarsi. Era al limite della sopportazione e Hortensia non intendeva andargli incontro.
Era notte fonda, ma a John non era concesso dormire.
«Hortensia Willow Holmes», fece Sherlock balzando letteralmente sul letto del coinquilino che per poco non urlò per essere stato svegliato in quel modo. Fortunatamente per lui era buio e Sherlock non si accorse di averci preso, né John glielo disse nei giorni successivi, così come evitò di dirgli che nulla sapeva riguardo alla "W" del biglietto.
Quando John perse definitivamente le staffe aveva la febbre. Se in altre circostanze sarebbe stato contento dell'opportunità di dedicarsi a poltrire una volta tanto, quel giorno ritenne di vivere un incubo a causa di Sherlock che non lo lasciava respirare.
«Hamish Watson Holmes!», urlò in preda ad una crisi isterica. «Okay? Ora lo sai! Lasciami in pace!», aggiunse avvampando.
Sherlock lo guardò come se avesse appena visto un composto chimico reagire in modo inaspettato: con interesse e timore al tempo stesso. Poi si voltò e non parlò più per tutto il giorno con grande sollievo di John.



Mycroft si concesse un sospiro e scosse il capo.
Hortensia rimase in attesa sebbene avesse già capito che suo fratello non avrebbe parlato.
«Lo scoprirò comunque».
«Mi sottovaluti», mormorò Mycroft.
«Per nulla, ma è un dato di fatto che possiedo più informazioni io su te e Sherlock di quante non ne abbia raccolte tu su di me», constatò lei con naturalezza, senza provocarlo.
«Irrilevante. Io ho le informazioni giuste».
«Ovvero?». Dal suo tono traspariva la sicurezza di chi sa che chi ha di fronte è un abile e intelligente bugiardo.
«Tu e Irene Adler avete vissuto a stretto contatto per il tempo necessario a te per guadagnarti la sua fiducia, così da poterla spiare senza che lei sospettasse alcunché. Sapevi che lavorava con Moriarty e sapevi che l'obiettivo di quest'ultimo era Sherlock, quindi hai sfruttato la tua... amicizia?». Un sorrisetto malizioso si disegnò sul suo volto mentre parlava. «Con la Adler per arrivare tu stessa a lui».
«Supposizioni. Non puoi dimostrarlo», fece lei mandando giù un sorso di brandy.
Il suo sorriso si aprì di più rivelando rughe d'espressione che Hortensia non pensava potessero appartenergli considerato l'atteggiamento sempre serio di suo fratello.
«L'auto che tu e Sherlock avete preso per la vostra gita nel Sussex era dotata di un dispositivo GPS che mi sono preoccupato di attivare prima della partenza. La tenuta è a nome di Irene Adler. È una prova», commentò tranquillo.
«Il dettaglio dice solo che la conosco», replicò lei.
«No, non direi. Che la tieni in pugno, piuttosto», precisò Mycroft reclinando il capo leggermente.
«Perché ti sei messo sulle mie tracce?». La voce era ferma, le emozioni un po' meno.
«E tu perché ti sei messa sulle mie?», chiese a sua volta.
Fu il suo turno di sorridere. «La domanda giusta è quando. Quando ho capito che Sherlock non aveva idea della mia esistenza».
«La domanda giusta è perché. Perché sei riuscita ad accedere al mio ufficio privato del Diogenes Club senza che nessuno dei miei uomini ti fermasse?».
In un flashback Hortensia si rivide mentre entrava nell'ambiente dove regnavano sfarzo e silenzio in egual misura, si vide passare dinanzi agli uomini della sorveglianza che non mossero un dito sebbene lei fosse pronta ad ogni evenienza, quasi che la aspettassero, ricostruì l'espressione poco convincente della donna che John chiamava Anthea mentre la guardava sconvolta prima che lei l'addormentasse come aveva fatto con la Adler. Fissò le iridi chiare in quelle di Mycroft, che annuì intendendone i pensieri.
«Sei arrivata a me perché volevo che arrivassi a me», concluse.
«Mi hai presa in giro», constatò con una punta di irritazione.
«È un vizio di famiglia. Dovresti dirlo, a Sherlock».
«Dirgli cosa?», chiese fingendo di non aver capito.
«Che ti chiami Hortensia», soffiò con una nota velatamente dolce nella voce.
Poche volte Mycroft aveva pronunciato apertamente quel nome e la maggior parte risaliva a molti anni addietro quando lo sussurrava accanto alla culla della sua sorellina mentre questa dormiva. Sembrava essere trascorsa un'eternità.
«Lo farà il Dr. Watson», rispose lasciando il bicchiere su un vassoio, dopo averlo svuotato, intenzionata a chiudere la conversazione.
«Non lo farà», e la sicurezza nella sua voce riuscì a convincerla che aveva ragione.
Tuttavia si congedò con un «Lo vedremo».

Qualche giorno più tardi, una donna incinta si presentò allo studio medico del Dr. John H. Watson dopo aver preso appuntamento.
I lunghi capelli biondo perla scendevano a onde sulla schiena perfettamente dritta, fatta eccezione per una ciocca che dalla tempia si gettava sul petto generoso e poi sul pancione. Aveva l'aspetto di una donna di classe, una di quelle mogli di imprenditori o primari che amano prendersi cura di sé e hanno la possibilità di farlo. La pelle del viso era rosea e omogenea grazie a prodotti di qualità capaci di donare un effetto del tutto naturale. E se anche lo sguardo, che pure doveva essere affascinante, era celato da grandi lenti da sole raffinate, le labbra erano magnetiche come fossero occhi nella loro tonalità rosa naturale. Entrò portandosi dietro un profumo delizioso, non eccessivamente dolce, non troppo sfrontato, per nulla aggressivo, piuttosto fresco nella fragranza floreale e senza dubbio perfetto all'immagine di sé che quella donna voleva dare. Avvolta in un comodo, caldo e lungo cappotto in lana rasata e fasciata fin sotto le ginocchia da un abito che le faceva da seconda pelle salutò Watson con un musicale
«Buongiorno».
«Buongiorno Signora Chapman», rispose lui sorridendo gentile, «Prego, si accomodi».
E lei lo fece, con una naturalezza che non appartiene alle donne all'ottavo mese di gravidanza, perennemente preoccupate che qualcosa possa accadere a loro o al nascituro.
Il dottore aggrottò le sopracciglia mentre la osservava e per un attimo lei pensò che Watson avesse capito. Ma subito dopo lui si mise a parlare in merito alle condizioni di salute sue e del bambino leggendo vecchie radiografie - reperite da Hortensia grazie ai suoi molti agganci e di certo non appartenenti a lei - e facendo sospirare la donna che si tolse gli occhiali da sole.
John Watson stava spendendo frasi rassicuranti prima di proporle una nuova ecografia quando la voce gli morì in gola.
«Tu?!», esclamò a bassa voce, come quando rimproverava Sherlock senza volersi far sentire da altri.
«Ciao John», disse, abbagliandolo con un sorriso.
«Ma cosa sei? Una truccatrice?», domandò in preda allo sconvolgimento.
«Non è importante», disse e accompagnò le parole con un'alzata di spalle. «Questi sono per il Circus2, a Covent Garden. Per te e Sherlock, naturalmente», aggiunse poi, allungandogli due pass che avrebbero garantito loro accesso e qualsiasi consumazione avessero voluto ordinare.
«Hortensia, senti ti chiedo scusa per la mia schiettezza, okay? Ma potresti mettere da parte la tua ostinazione tipica degli Holmes e parlare con Sherlock?». Nello sguardo c'era tutto lo sfinimento di quei giorni.
«Stasera. Non mancate», rispose semplicemente lasciando spazio a diverse interpretazioni, gli strinse la mano e si alzò. «La ringrazio infinitamente Dottor Watson, la sua professionalità è degna di lode. Consiglierò certamente il suo studio alle mie amiche», continuò a voce più alta per farsi sentire dai pazienti in attesa. Gli fece l'occhiolino, poi indossò nuovamente gli occhiali e con la leggerezza con cui vi era entrata lasciò la sala.

Il racconto concitato di John, che manifestava una velata ammirazione verso il trasformismo di Hortensia, convinse immediatamente Sherlock a presenziare al Circus quella sera. Il sorrisetto compiaciuto sulle labbra di quest'ultimo, invece, convinse John che aveva bisogno di un bagno rilassante prima di lasciarsi coinvolgere dai gemelli in quella che probabilmente sarebbe stata l'ennesima avventura. Watson non era uno a cui piacevano monotonia e dolce far niente, ma stare dietro agli Holmes lo sfiancava tutte le volte, fisicamente e psicologicamente, sebbene lo divertisse e lo facesse sentire vivo più del lavoro con cui si manteneva.
John non aveva idea di come e perché Hortensia possedesse pass di quel tipo e avesse deciso di darli a lui e Sherlock, ma quest'ultimo aveva una teoria che condivise solo in parte con il suo amico dicendogli che senza ombra di dubbio c'entrava Mycroft; in ogni caso i due raggiunsero Covent Garden con largo anticipo.
Senza fretta, i due amici si diressero verso il club scelto da Hortensia per il loro presunto incontro e dal momento che John non c'era mai stato, Sherlock evitò di lamentarsi con lui perché si fermava ad ogni passo. Tutto di quel locale, infatti, suscitava la meraviglia e la curiosità del visitatore a partire dall'assenza di una qualsivoglia insegna. Non era necessario arrivare all'interno del raffinato, ma estroso locale per restare con la bocca aperta: il corridoio d'ingresso, infatti, era costituito da una serie di specchi sistemati in modo da riflettere più parti dell'interno, così da dare un'aria surreale all'intero ambiente. Essendo esclusivamente un ristorante di classe fino ad una determinata ora, l'atmosfera era accogliente e sofisticata nonostante la stravaganza degli arredi e fin da subito si aveva la sensazione di trovarsi in un posto tutt'altro che volgare anche se si sarebbe tramutato in un club in piena regola. John Watson ebbe subito il sentore che non avrebbero assistito a donne mezze nude che ballavano sensualmente attorno ad un palo quella sera.
Il dottore sollevò istintivamente lo sguardo accedendo alla sala del ristorante e fu colpito dalla presenza di sfere di diversa grandezza con superficie a specchio appese su tutta l'ampiezza del soffitto. Lo spazio era riempito da tanti tavoli bianchi e tondi con al centro una candela accesa e con attorno sedie in perfetta armonia di stile. Le pareti circostanti erano abbellite da una sorta di mosaico moderno che a seconda della posizione in cui ci si trovava appariva nero oppure scintillante e sfaccettato a richiamare le sfere sul soffitto, ma bastava proseguire per avere la sensazione di aver cambiato locale. Poco più in là, infatti, troneggiava una lunga tavola bianca rettangolare la cui peculiarità era la presenza di una piccola scalinata al posto dei due capotavola. John comprese presto che quel tavolo sarebbe stato parte integrante dello spettacolo cui sperava di poter assistere prima che uno dei due gemelli decidesse che era il momento di andare via. Per quel che ne sapeva lui, era possibile che non riuscisse neanche a mettere un boccone sotto i denti - cosa che capitava spesso quando era in giro con Sherlock visto che le sue intuizioni non conoscevano le buone maniere e arrivavano così, senza avvisare. Anche le pareti cambiavano stile mostrando un motivo a rombi gialli e neri, così come le sedie, nere stavolta e con un lungo e sottile schienale. Lateralmente a questa tavola bizzarra erano sistemati alcuni tavoli scuri, dalla forma quadrata e anch'essi con una candela al centro.
Fu osservando questi ultimi che John si rese conto di non essere solo nel locale: altre persone avevano già preso posto e chiacchieravano tra loro ignorando sia lui che Sherlock. L'uomo ebbe la sensazione di vivere uno strano, incomprensibile e assurdo sogno.
«Ci aspettavano», mormorò Sherlock tenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
Il personale, infatti, a differenza degli altri clienti teneva d'occhio i due ospiti da quando erano entrati, come fece notare Sherlock un secondo più tardi. Un uomo dal portamento impeccabile si fece loro vicino, diede il benvenuto e indicò un posto riservato proprio a quel tavolo lungo con i gradini.

«Mycroft è da diversi anni alle costole di un importante uomo d'affari svizzero che sta mettendo disordine nel sistema economico di tutta l'Europa, apparentemente senza lasciare traccia. Si tratta di Lars Elias Moser, avrai certamente letto di lui sui giornali», mormorò Sherlock dopo che entrambi avevano ordinato la cena su personale invito di Hortensia la quale aveva fatto affidamento su un convincente sms inviato a Sherlock in cui diceva che se non si fosse comportato da uomo normale quella sera, se non avesse mangiato, bevuto e se non fosse stato cordiale con John, lei non gli avrebbe mai rivelato il proprio nome. In un'interessante postilla suggeriva di non perdere di vista l'uomo che si sarebbe seduto di fronte a loro, qualche postazione più a destra. «E qualora non avessi idea di chi sia, lo conoscerai a breve visto che quelli sono i posti riservati a lui e ad un suo collega. O forse farei meglio a dire complice. Amante in effetti», concluse il consulente investigativo indicando con un gesto casuale una sedia che John credette di aver identificato.
«E cosa c'entra... tua sorella?», chiese e per poco non si lasciò scappare il nome di lei.
«Conosci Mycroft, sono sicuro che ci arriverai da solo. Oh, ma guarda, il nostro uomo», gli rispose.
John aggrottò le sopracciglia esprimendo confusione mentre guardava Moser sedersi proprio su una delle sedie nere indicate da Sherlock in precedenza.
«Nos... Nostro uomo?!», esclamò sbigottito. «Sherlock io credevo fossimo qui per...».
«Divertirci? Oh, John, perché tanta monotonia?», lo interruppe Sherlock.
John inspirò prima di riprendere da dove era stato fermato.
«Per incontrare... lei». Evitare di pronunciare quel nome gli costava uno sforzo non indifferente quella sera.
«Lei?».
«Non ci provare». Nel dirlo lo guardò negli occhi e fu il cameriere a salvarlo dallo stordimento che l'intensità di Sherlock gli avrebbe certamente causato.
«Buon appetito, signori», mormorò l'uomo ben vestito che li aveva accolti, per poi congedarsi.


Durante la cena, dopo aver rivelato a John di essere al corrente del furto del numero di sua sorella - che aveva naturalmente memorizzato sotto il nome "H.W.H." - e dopo avergli confessato di aver letto tutti gli sms che le aveva inviato con la convinzione che avrebbe così trovato ciò che cercava e di essere invece rimasto con un pugno di mosche, Sherlock diede evidenti segni di noia che il dottore cercò di arginare come meglio poté finché il signor Moser fece qualcosa di molto interessante.
«Guarda, John!», soffiò il consulente investigativo. Improvvisamente divenne un unico fascio di nervi in tensione protesi verso la preda e ciò che aveva in mano.
Un altro pregio di quel club era la riservatezza: nessuno del personale avrebbe mai osato chiedere informazioni in merito ai documenti che Lars Elias Moser consultava liberamente con il proprio amante, senza neanche provare ad essere discreto mentre indicava quelli che potevano essere nomi o somme di denaro, frodi assicurative o appalti vinti illegalmente stampati sui fogli, perché al direttore poco importava di cosa discutessero i suoi ospiti all'interno del locale, fosse anche la pianificazione di un attacco terroristico, a patto che non mettessero in alcun modo in cattiva luce il Circus che offriva loro assoluta discrezione. Ecco il perché dell'assenza di un'insegna e l'utilizzo di un sistema di pagamento molto particolare.

«Cosa dovrei vedere esattamente?», domandò lui mentre luci e musica cambiavano nella sala.
Lo spettacolo stava per iniziare.
«Il reale motivo per cui siamo qui!», esclamò Sherlock affilando lo sguardo, senza staccare gli occhi neanche per un secondo dallo svizzero.
Il volume imposto dal celebre dj impedì ai due di parlare senza rischiare di non capirsi a vicenda, ma a entrambi fu chiaro che quei documenti dovevano finire nelle mani di Mycroft il quale  - ormai era palese pure per John - si era rivolto a sua sorella minore che, a sua volta, aveva coinvolto il proprio gemello - noto per essere tutt'altro che stupido - e il suo amico medico, capace di fare pressione nei punti giusti per far perdere eventualmente i sensi ad una persona senza ucciderla.
Naturalmente Hortensia non intendeva scaricare tutte le responsabilità sui due uomini, ragion per cui era la Guest Star della nottata. Saper modificare il proprio aspetto a seconda delle esigenze non era l'unica abilità della donna la quale non solo si muoveva con assoluta padronanza sui rollerblade, ma era anche brava nella ginnastica artistica. Quella sera il suo nome era Svetlana Vasil'evna Khorkina3, aveva corti capelli biondi e indossava un colorato costume da ginnasta.
Insieme a lei numerosi altri ballerini professionisti diedero vita ad un indimenticabile spettacolo di figure complesse, salti acrobatici individuali e in coppia, numeri con fuoco, cerchi e nastri, il tutto amplificato grazie al gioco di specchi creato dalle sfere di metallo pendenti. Hortensia sapeva di avere su di sé gli occhi di tutti i presenti, compresi quelli di suo fratello che lei reputava l'unico in grado di riconoscerla, ma questo non la intimidì affatto e anzi, essere l'ospite d'onore della serata le dava una libertà di azione di cui altrimenti non avrebbe disposto. Non a caso lei e Mycroft avevano orchestrato quella serata fin nel più piccolo dettaglio.
Mentre si esibiva nelle sue evoluzioni non si lasciava distrarre dagli applausi, pur gradendo molto il consenso dei presenti e ringraziando sempre con gentilezza, e teneva ben fisso nella mente il proprio obiettivo: appropriarsi delle carte di quel truffatore e consentire a Mycroft di sistemarlo come più riteneva opportuno. Con ogni probabilità ne avrebbe distrutto - o, per essere più precisi, ne avrebbe fatto distruggere - l'immagine pubblica, ma questa parte delle vicende non riguardava affatto Hortensia la quale si era offerta volontaria per quell'incarico in cambio di ulteriori dettagli in merito alle vicende che riguardavano lei e la famiglia Holmes.
Quello che ad un esterno occhio critico poteva sembrare il gioco dispettoso di adulti mai cresciuti mentalmente, era in realtà un'articolata rete di compromessi che avrebbe condotto alla soddisfazione di tutte le parti coinvolte attivamente.
La donna capì che Sherlock l'aveva individuata quando il suo sguardo non si schiodò da lei per due interminabili minuti prima di tornare a Lars Elias.
Il resto accadde molto velocemente sotto gli occhi attenti di Hortensia.
Sherlock e John lasciarono la sala e vi rientrarono abbigliati esattamente come il personale del locale; mentre il primo interagiva con la coppia seduta alla sinistra di Moser, John distraeva proprio quest'ultimo e il suo accompagnatore così che Sherlock potesse sostituire i fogli di interesse con pagine del menù in un gesto fluido ed invisibile, risultato di anni ed anni di pratica e di un'innata sfacciataggine. Poi entrambi si dileguarono, si riappropriarono dei propri abiti e lasciarono il locale per evitare che qualcuno collegasse la sparizione di due uomini con la comparsa di due camerieri successivamente svaniti nel nulla in corrispondenza del ritorno dei due uomini.

Il cielo si stava lentamente schiarendo e i contorni della bella Londra apparivano con maggiore nitidezza con il trascorrere dei minuti, ma John e Sherlock non si erano mossi da Covent Garden preferendo attendere lì Hortensia anziché darsi appuntamento più tardi in Baker Street. Lei arrivò che il sole era già sorto, avvolta in una felpa e con parte del viso nascosta da un cappuccio nettamente più grande della sua testa.
«Non si è accorto di nulla», esordì. «Ha continuato a godersi lo spettacolo bevendo come una spugna insieme all'amante».
John strabuzzò gli occhi nel sentir pronunciare a Hortensia la stessa deduzione cui era arrivato Sherlock diverse ore prima, aveva perso il conto ormai e a stento si reggeva sulle proprie gambe tanta era la stanchezza che lo invadeva. A dirla tutta desiderava solo stendersi in un morbido letto e dormire per almeno otto ore filate.
«È andato via poco prima della chiusura portando con sé... il menù?», continuò e sorrise a suo fratello il quale le porse i documenti necessari a Mycroft.
«Ti ringrazio anche da parte sua», disse lei accettandoli e dando per scontato che Sherlock avesse intuito che dietro a tutto c'era il loro fratello maggiore. «È stato un piacere collaborare con voi», concluse. Tese la mano ad un assonnato John Watson che la strinse con una certa esitazione e poi a Sherlock la cui presa fu più decisa e non comunicava affatto l'intento di lasciar andare via la donna.
Lei sospirò e si protese verso il viso di Sherlock fino a raggiungere l'orecchio. «Hortensia Winnifred Holmes», sussurrò. «Sei l'unico a conoscere il mio secondo nome e ti sarei grato se non ricorressi più alla Adler per ottenere informazioni sul mio conto. Basta saper chiedere».
Un'auto scura si fermò vicino alle tre figure e Hortensia salutò nuovamente i due uomini prima di salire a bordo e sparire tra le strade della City.




Note:

1
Si tratta del brandy di sidro, una bevanda alcolica ottenuta attraverso la fermentazione delle mele. La bevanda è diffusa in tutta l'Inghilterra, ma il cider prodotto nel Somerset è particolarmente pregiato.

2
 È un esclusivo ristorante che nelle ore notturne si trasforma in un club la cui caratteristica peculiare è la presenza di numerosi artisti, tra cui ballerine mangia-fuoco, che si esibiscono per i clienti. (N.B.: Non ci sono mai stata personalmente; tutte le informazioni nel testo le ho reperite online attraverso recensioni e fotografie; se ci sono imprecisioni vi prego di segnalarmele).

3
 È un'ex ginnasta russa più volte medaglia d'oro.





N.d.A.
Questo capitolo è decisamente più corposo dei precedenti e affronta più o meno direttamente, per la prima volta, qualcosa che somiglia ad un caso.
Il nome del locale, - che come avrete letto nelle note esiste davvero - anche titolo del capitolo, capita come non mai a fagiolo perché costituisce un appropriato richiamo alla versatilità di Hortensia.
Come tutte le volte, spero di non aver fatto danni. Un parere è quindi sempre gradito, positivo o negativo che sia, purché non mi si offenda gratuitamente.
Vi ringrazio per avermi dedicato del tempo.
Alla prossima!

   
 
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