III.
Michela era andata via.
Aveva puntato i piedi, nel 13/B, aveva urlato
addosso a suo padre e sua madre, aveva spinto uno dei gemelli contro il mobile
del salotto facendogli sbattere la testa e si era chiusa in camera sua. Michela
voleva tornare a Milano, con o senza di loro, perché odiava Roma, odiava la
gente, il traffico, la puzza, il tempo, le piazze, Erica. Michela pretendeva,
con il suo naso all’insù e le camicie ben stirate. Michela, con i suoi capelli
neri sempre ordinati, la borsa al braccio e le scarpe lucide, pensava di poter
governare il mondo perché glielo avevano fatto credere. Il mese dopo scappò a
Milano, tornò da sua nonna, che avvelenata diede tutta la colpa a sua nuora – a
quella comunista – e le disse che se il suo Claudio avesse sposato la Monferretto, come da programma, tutto ciò non sarebbe mai
accaduto. Michela si ripromise, sul treno diretto Roma-Milano, prima classe, wi-fi e aria condizionata, che Roma non l’avrebbe più
rivista. Erica, nei suoi piani, non avrebbe mai dovuto fare quello che aveva
fatto. Erica aveva esagerato, si era detta. Perché le cose non potevano
rimanere così? A cavallo fra l’amicizia e quel qualcosa in più che tanto faceva
paura. Perché non potevano essere normali – perché Erica non era normale.
Erica e il 12/B, le disse il mondo onirico, le sarebbero mancati. Quel caos tipicamente romano, quegli orari che non coincidevano mai, quelle cene consumate in fretta e quei pranzi sotto casa con un kebab o con quei cartocci di patate fritte e salse sconosciute.
Erica le sarebbe mancata e non era solo per le versioni. Michela era una vergine sentimentale, lo sapeva, e non era mai riuscita a farci niente. Erica non era a conoscenza del bene che le voleva, perché aveva fatto in modo che non lo scoprisse mai perché con i suoi occhi color cioccolata e quei capelli rossicci, Erica le avrebbe fatto del male. Erica avrebbe rivelato al mondo che lei non era forte, che non era capace a fare la puttana come Giada, che voleva solo tanto affetto e amore e coccole e serate passate a guardare film brutti sotto un plaid. Erica le aveva dato tutto quello. Erica le aveva aperto la porta di quella Roma di cento metri quadrati calpestabili e le aveva dato i film dell’orrore che non facevano paura, fette di pizza e popcorn al burro sotto un plaid e Michela si era innamorata. E Michela aveva avuto paura perché Erica anche a quindici anni sarebbe stata pronta a donarsi per un sentimento che non conosceva, che non aveva letto perché non viene pubblicizzato. Michela l’aveva capito subito di essersi innamorata e non poteva permetterselo. A quindici anni con una ragione inesistente e una maturità fetale, Michela pensava di non essere fatta per amare qualcuno, per avere una relazione.
Michela pensava che nessuno sarebbe
mai arrivato ad amarla veramente finché non incrociò lo sguardo Erica durante
una normale mattinata pre-autunnale del loro ultimo anno di liceo. Si era resa
conto che Erica la stava fissando, la stava disegnando senza staccare gli occhi
dal suo volto e non lo faceva con insistenza, non la infastidiva il fatto che
lo stesse facendo, che la stesse imprimendo sulla carta bianca. Michela si
sentì importante. Michela percepì tutto l'amore che Erica avrebbe potuto
donarle, se solo si fosse voltata di scatto e avesse interrotto il rumore costante
della mina contro il foglio bianco. Erica lo lasciò in bianco e nero, quel
disegno. Il ricordo di come i capelli che erano sfuggiti dallo chignon le
sfiorassero la nuca, le ombre, che il sole autunnale entrando dalla finestra
alla sua sinistra, le disegnava sullo spicchio di volto che riusciva a vedere
da quella angolazione. Le spalle piccole e dalla linea dolce, coperte dal
maglione color vinaccia di uno dei gemelli e la sua mano, con le dita sottili
da musicista, che sostava pigra nell’incavo del collo.
Michela, con Erica si sentiva incredibilmente
amata.
Michela, con Erica si sentiva al sicuro.
Michela non poteva permettersi così tanta felicità, perché non se la meritava. Era nata infelice e non poteva corrompere l’altra, così piccola, così nuova all’amore, così ingenua.
Era fuggita, quindi.
Aveva preso un treno e non aveva guardato in
faccia i suoi genitori, quando se n’era andata. Marianna, il giorno dopo, era
andata a trovare la piccola Erica e le aveva stretto le mani fredde, con le
unghie mangiate e le aveva detto che non era colpa sua ed Erica le aveva
confessato che si era innamorata della figlia, di essere lesbica, di essere
sbagliata e di averla fatta fuggire.
Marianna le aveva solo stretto più forte le
mani e Teresa, appoggiata al lavandino della cucina, le guardava, non sapendo
cosa dire. Erano giorni che Erica piangeva, non mangiava e non si dava pace per
ciò che aveva fatto. Teresa si aspettava che prima o poi la figlia minore si
sarebbe innamorata, ma perché proprio Michela.
Il problema non era che fosse una ragazza. Il problema era Michela Morente. Era ciò che rappresentava, ciò che significava per la sua piccola bambina che nasceva ogni quattro anni e che era talmente piccola da non aver ancora capito la vita e aveva capito fin troppo bene l’amore.
Passerà,
le aveva detto.
Deve passare, le aveva risposto Erica.
E c’era riuscita.
I giorni finivano, le settimane si
accumulavano, i mesi cambiavano e le stagioni, l’armadio, la vita le passò
sotto le dita e arrivò giugno e gli esami di maturità. Marianna smise di
mentirle sullo stato di Michela ed Erica non chiese più quelle bugie. Claudio
si fece sempre più silenzioso e Silvio tornò nelle loro vite. I gemelli
scelsero di arruolarsi e Selene rimase incinta e fece adottare il bambino che
non voleva, perché era stato un incidente e lei aveva altro a cui pensare.
Anche Erica, con il tempo, ebbe altro a cui pensare. A ottobre iniziarono i
corsi di Filosofia, la facoltà che aveva scelto, un po’ a scatola chiusa, un
po’ perché doveva impegnarsi il cervello con le fisime degli altri per non
pensare ai drammi che si portava dietro e che le pesavano sul cuore.
A novembre iniziò anche ad uscire con qualche
ragazza. Un paio di drink, le classiche pomiciate sul lungotevere, qualche
uscita di pomeriggio e poi ci si lasciava perché tra due ragazze non ci si
poteva mentire a lungo.
Stava sempre in Cesare Beccaria.
Sempre al 12/B, al quarto piano.
Abitava da sola nella casa che nonno
Gianluigi aveva lasciato alla figlia, perché la madre era partita con l’ex
marito alla volta della Thailandia, per riscoprire
loro stessi, la loro fisicità e la loro spiritualità.
Era dicembre da una sola settimana, aveva
tirato fuori l’albero di natale di plastica dallo scatolone solo per dare più
allegria all’ambiente ma non ci credeva veramente. Erano le due della mattina
dell’otto dicembre e lei stava addobbando l’albero perché non riusciva a
prendere sonno dato che i gemelli erano tornati per un paio di giorni ed
assomigliavano incredibilmente a Michela. Erano cresciuti e avevano i suoi
occhi. Tutti e due. L’avevano guardata e lei si era sentita poco bene e aveva
chiesto scusa a Claudio e Marianna ma la mattina successiva si sarebbe dovuta
alzare presto per andare in facoltà.
È
festa domani, Erica.
Il
gruppo di studio…
Non
riposerai mai, così.
Non
posso fermarmi.
Non adesso che sembra tutto normale.
Era tardi e lei era seduta a terra, contro il
divano, illuminata solo dalle lucine dell’albero. Era tardi quando il telefono
decise di squillare e vibrare contro il piano del tavolino da caffè.
Era tardi quando rispose alla chiamata di un
numero sconosciuto ed era tardi quando sentì la sua voce, che le chiedeva di aiutarla e di fare presto.
«Pronto?
Pronto, chi è?».
«…Sono
io…».
«Credo
che abbia sbagliato numero, signora».
«Erica,
sono Michela».
**Angolo autrice**
Potete accusarmi di essere cattiva, ve lo concedo. E' molto tempo che non aggiorno e dispiace molto anche a me ma... in quanti stavate aspettando questo capitolo? In quanti pensavate che sarebbe finita oggi? E invece no, perché tanta acqua deve passare sotto i ponti e non vedo l'ora di farcela passare.
Grazie, dunque, per essere giunti fin qui.
Alla prossima,
Feynman