Lo so, lo so cosa state per dire ^^””. “Ma come?! Sta maledetta
non aggiorna per una vita, poi ce ne spara due di fila?! Ma è scema?!?”. Sì, ne
sono consapevole di essere una malata ^^””, ma vedete, ho avuto una settimana
decisamente… Calma (per dire che non avevo una mazza da fare xD!) così mi sono
rimessa dietro alle ficcy… E, finita “La Storia dello Sciacallo”, continuando
il nuovo cap dei Diaries che non ne vuole sapere di venire fuori… Ho concluso
anche la seconda parte di “Psaico Secret Files” xP! Che posso dire, se
comincio, non la smetto +! (Chi ha letto Psaico ne sa qualcosa XD…).
Ecco quindi la seconda Spin-off su Psaico. Anche questa sarà di
tre cap al massimo, e stavolta il protagonista sarà qualcuno di decisamente
inaspettato! Una storia che avrei tanto voluto mettere in Psaico, ma che mi
deviava troppo dal corso della storia (e mettevo altra carne in tavola, che ce
n’era a sufficienza ^^”!) e alla fine eccola qua!
Solo due note prima di iniziare…
● Il nome “Haine” è un omaggio alla
sensei Arina Tanemura e al Manga “Gentlemen’s Alliance Cross”, forse uno dei +
belli che ho letto negli ultimi anni ^o^! inoltre gli ideogrammi con cui è
scritto mi saranno utili in futuro ^^…
● Il nome Ryuichi Aoki è nato per
caso, perché mentre scrivevo questo cap avevo sotto gli occhi un manga di Chito
Saito… Solo dopo mi sn ricordata che anche papino Aoki si chiama così ^^””, ma
ormai il nome mi piaceva xD!
Ci vediamo in fondo gente ^o^!!
Buio.
Il
freddo che ti stringe il petto in una morsa. Ti soffoca.
La
sensazione dell’erba sulla faccia.
La
pioggia sopra.
Il
sapore del sangue in bocca.
Dove… Sono…?
-
Papà! Papà corri, ti prego! C’è qualcuno qui!
Chi sono io?
Paragrafo
1 ◦ La studentessa e il ragazzo chiamato John Doe(*)
2002. Maggio.
Con
aria trafelata Haine attraversò il cortile in cemento dell’ospedale, la borsa a
tracolla che persisteva a voler cadere dalla sua spalla; lottò strenuamente
finchè la maledetta non acconsentì a passare docilmente la sua cinghia oltre il
collo della brunetta, in modo da non dover essere tenuta con entrambe le
braccia di quest’ultima per evitare che rovinasse a terra.
Cercando
di riassestarsi quanto meglio poteva, Haine rallentò il passo, scorgendo già
una delle infermiere squadrarla arcigna per il suo correre. Con calma la
ragazza prese il corridoio dell’ala est, seguendo obbediente i cartelli appesi
alle pareti. Non che ce ne fosse veramente bisogno, ormai conosceva la strada a
memoria.
Salì
due piani di scale, sempre in silenzio e lentamente, ma incalzava
impercettibilmente il passo quando era fuori portata degli occhi delle
infermiere e dei dottori; qualche paziente del reparto di pediatria del primo
piano, ormai vecchie conoscenze, la salutò da dietro le porte antincendio
facendole segno di accelerare, che non c’era nessuno in vista.
Quando
arrivò al terzo piano, ormai quasi correva. La vecchia signora Toruhmiya,
degente in attesa di un trapianto di rene (“Quel monello! – ci scherzava sempre
sopra – Non vuole saperne di funzionare come si deve…!”) vedendo la ragazza le
fece segno di avvicinarsi alla sua stanza, il sorriso in parte sdentato che le
si apriva radioso sul viso:
-
Sei in ritardo, piccola Haine.
-
Lo so, signora! – si giustificò la ragazza senza un motivo preciso – Ma oggi
ero di turno per le pulizie, così ho fatto tardi per cambiarmi e…!
-
Non preoccuparti. – sorrise ancora la donna – Vorrà dire che verrò a farti
visita io. Ora vai, è già tardi.
La
ragazza annuì e sfrecciò verso il fondo del corridoio.
I
suoi occhi color cioccolato sfiorarono leggeri le targhette sulle porte,
seppure sapesse benissimo che stanza dovesse cercare.
143.
147.
151.
Eccola.
Haine
aprì lentamente la porta, come se temesse di svegliare qualcuno. Per un istante,
dovette ammetterlo, lo sperò.
Ma
come sempre nessuno si mosse in quella stanza. La figura sdraiata sul letto,
immobile, non reagì minimamente alla sua presenza, nemmeno quando lei, con un
sorriso un po’ triste, prese la sedia bianca dall’angolo e la portò vicino al
lettino.
-
Ciao. – disse con un sorriso – Ehi, oggi abbiamo davvero un bel colorito! Sono
contenta!
Esclamò
allegra, poggiando la sua borsa accanto alla sedia. La figura sul letto non si
mosse.
Haine
sospirò, guardando il ragazzo sdraiato sul materasso candido.
Doveva
avere al massimo vent’anni, tre più di lei; aveva i capelli castani, più sul
nocciola rispetto ai suoi che tendevano prepotentemente al biondo, e nonostante
le infermiere glieli accorciassero di quando in quando, questi continuavano a
crescere con stizza attorno al suo viso, dai tratti giapponesi. Non sapeva di
che colore avesse gli occhi, perché non glieli aveva mai visti aperti, ma i
dottori avevano detto che erano neri. Troppo vago, aveva sempre pensato, neri
come? Come la pece? Neri come il mare di notte, così lei se li era immaginati,
ma non aveva mai osato chiedere conferma. Haine non sapeva nemmeno che voce
avesse quel ragazzo.
Ma
da ormai due anni, tutti i giorni, dalle quattro fino alle sette, Haine entrava
nella camera d’ospedale di quel ragazzo.
E
gli parlava.
I
dottori dicevano che gli faceva bene. L’encefalogramma di quel ragazzo era
ancora ben attivo, e forse sentire la voce di qualcuno lo avrebbe fatto
svegliare dal coma.
Così,
Haine insisteva.
Tutti
i giorni.
Arrivava
in ospedale con la sua borsa, piena di libri di scuola, quaderni e block-notes,
saliva fino alla stanza 151 del terzo piano, si sedeva sulla sedia in plastica
bianca; faceva i compiti, scriveva certi suoi appunti sul suo quaderno dalla
copertina rosa, e parlava.
Attenta
ad ogni più piccolo movimento, ogni respiro più rapido, Haine parlava della sua
giornata, di suo padre, dei professori che la crocifiggevano con tonnellate di
compiti, dei pensieri che scriveva su quel quaderno rosa.
E
aspettava.
Qualche
compagna, a scuola, venuta a conoscenza di quell’usanza, le aveva chiesto
perché. Magari erano parenti, avevano supposto, o magari stavano assieme quando
lui era entrato in coma. Forse era un amico di famiglia.
Assolutamente
no.
Haine
non aveva mai visto quel ragazzo.
Non
sapeva neppure il suo nome.
Lei
e suo padre avevano trovato il suo corpo, una notte piovosa di due anni prima,
malconcio e praticamente in fin di vita. Lo avevano portato in ospedale, dove i
medici avevano tentato di rianimarlo, ma lui era entrato in coma e non s’era
più svegliato.
Oh,
avevano cercato, certo, notizie su di lui. Ma nulla.
Quel
ragazzo sembrava non avere nessuno al mondo.
-
Ma tu sei matta! – aveva esclamato la sua capoclasse, calcandosi sul naso appuntito
gli occhiali neri – Magari è un teppista!
-
Sì, uno yankee! – aveva detto qualcun’altra, fantasticando.
-
Magari è figlio di yakuza ed è finito così in una sparatoria.
“Non
aveva proiettili in corpo.”. aveva pensato con sufficienza Haine, ritenendo che
fosse inutile puntualizzare, dato che non avevano ascoltato solo una parola
della sua spiegazione.
Quel
ragazzo era solo.
E
ad Haine come motivazione bastava.
Quando
i medici avevano annunciato che il paziente della 151, da quel momento, avrebbe ricevuto il nome di John Doe, lei aveva
deciso.
-
D’accordo! – esclamò, prendendo il libro di algebra – Diamoci sotto!
Non so dove sono.
Mi fa male dappertutto, mi sento
come legato.
Da quanto tempo è che non mi alzo
in piedi?
Sento il sole sulla faccia, il vento
dalla finestra. Ma i miei occhi non riesco ad aprirsi.
Sono stanco…
Sono così stanco…
Sento qualcuno che entra nella
stanza.
Riconosco i passi.
È arrivata di nuovo.
Lei viene tutti i giorni.
Tutti i giorni, e aspetta.
Che mi alzi.
Che parli.
Che mi svegli.
Ma io non riesco a svegliarmi.
Mi sento così stanco…
Per qualche minuto la sua voce mi
arriva lontana, come da un’altra stanza.
Sto sognando di nuovo…
Chi siete?
Laggiù…
C’è qualcuno?
No, aspettate, non vi allontanate!
La sua voce torna chiara, nitida.
Sono scappato di nuovo.
Continuo a vedere quelle figure, ma
non riesco a raggiungerle.
Il mio corpo non si muove.
E io volto loro le spalle.
Sono troppo stanco…
***
16 Settembre 2000. Ore 22.57.
Ad
Haine non erano mai piaciuti gli ospedali.
Per
dirla tutta, li detestava.
L’odore,
per cominciare. Quella puzza acre di disinfettante, di anestetico, di lattice,
di plastica.
Di
artificiale.
Le
metteva i brividi, più che un posto per salvare le persone, le dava la
sensazione di un laboratorio di ricerche. Su cavie umane.
Poi
il colore.
Bianco.
Ovunque
si voltasse, tutto era inghiottito dal bianco.
I
camici dei medici. Le lenzuola dei letti. I muri. Le porte. La luce delle
lampade al neon, così forte che feriva gli occhi.
Le
facce dei pazienti.
Haine
odiava gli ospedali.
Ma
quel giorno doveva resistere.
Rannicchiata
come un topolino sulla seggiolina di plastica rigida della sala d’attesa, fuori
dal reparto di terapia intensiva, voleva resistere. E pregava.
Pregava
con tutta se stesse per quel ragazzo che, meno di venti minuti prima, lei e suo
padre avevano trovato sotto il guard-rail della tangenziale.
Non
avrebbero nemmeno dovuto farla, quella sera. Ma suo padre, con tutta quella
pioggia, non s’era fidato a prendere l’autostrada.
-
E se succede qualcosa al nostro bagaglio? – aveva domandato, indicando il
carico di vecchie tv coperte da un telone consunto, nel retro del camioncino –
No, no! Molto meglio fare una strada che conosco bene, con questo tempaccio!
Così
erano saliti col camion tossicchiante per quella strada sinuosa come un
serpente, arrancando sull’asfalto viscido e coperto di fango. Il paesaggio
fuori dal finestrino era solo un buco nero sferzato da gocce argentee, di
quando in quando illuminato dalla luce bianca dei fari.
Fu
in uno di quegli attimi, che lo vide.
-
Oh, kami-sama…! Papà, frena!
L’uomo,
alla voce spaventata di Haine, aveva inchiodato, facendo scricchiolare
indispettito il vecchio furgone. Senza aspettare che le chiedesse qualcosa la
ragazza era saltata fuori, scendendo lungo il crinale.
L’erba
era viscida e non riusciva a stare in piedi bene. C’era buio pesto e non vedeva
nulla oltre il suo naso, cosa che peggiorò in pochi secondi quando la pioggia
le inzuppò i capelli, che le caddero davanti agli occhi.
Eppure l’ho visto!
Infatti,
eccolo.
Sprofondato
nella fanghiglia del terreno, con la faccia a terra, c’era un corpo. Quando lo
vide Haine fu pervasa da un brivido gelido, e nella sua mente si formò solo una
parola.
Cadavere.
Con
le mani tremanti ed intirizzite dall’acqua gelida, la brunetta allungò un dito
vero il collo del ragazzo. Non dovette neppure toccarlo.
Respira!
-
Papà! Papà, vieni qui!
Poi
fu una corsa disperata all’ospedale. Non chiamarono nemmeno l’ambulanza,
sapevano benissimo che con quel tempaccio il grosso sedere dell’autolettiga non
sarebbe riuscito a salire il crinale, figurarsi a ridiscenderlo! Quel ragazzo
sarebbe morto molto prima.
Perché
stava morendo: perfino loro due, padre e figlia, lei che odiava il sangue e lui
che di corpi umani ci capiva quanto una persona comune ci capiva di televisori
(dell’interno, almeno) lo avevano capito.
Quando
arrivarono all’ospedale i medici lo confermarono, mentre portavano lo
sfortunato frettolosamente in sala operatoria.
Da
allora era passata un’ora.
Nessuna
notizia.
Haine,
infreddolita fino alle ossa nonostante il cambio d’abiti che un’infermiera
gentile le aveva dato, continuava a fissare preoccupata la lucina rossa sopra
la porta in cui il ragazzo era sparito: Operazione in Corso.
Sospirò,
tirandosi un po’ più su i calzini enormi che l’infermiera le aveva dato. Non
trattenne uno sbuffo, era stata gentile, ma quel donnone era almeno quattro
volte lei, doveva stare attenta o ogni tre secondi rischiava di mostrare
qualcosa a metà degli sconosciuti in quella stanza.
I
suoi pensieri s’interruppero bruscamente. La luce sulla sala operatoria s’era
spenta.
***
Haine
si stiracchiò, sbadigliando:
-
Che palle…! – sospirò – Chissà se sei bravo di matematica… Se sì quando ti
svegli dovrai aiutarmi, io non ci capisco nulla!
Rise,
guardando il ragazzo dormire. Poi sbuffò ancora:
-
Aaaah, ma a cosa mi serviranno mai queste cose nella vita?! – sbottò – Devo
sapere addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione! E se vogliamo esagerare
le frazioni! Cosa mi frega sapere che x2
= y?!
Un’infermiera,
passando di fronte alla stanza, si affacciò con aria severa, facendole segno di
tacere. Haine si tappò la bocca con la mano, annuendo, ma appena la donna se ne
fu andata le fece una linguaccia:
-
Vecchia befana!
Mi viene da sorridere.
Ormai conosco bene questa ragazza.
A volte si perde nei suoi pensieri
e si mette a parlare ad alta voce, senza riflettere.
È divertente.
So che non le piace la matematica.
Le piace scrivere.
Scrive spesso.
Si mette accanto a me e scrive.
Scrive bene.
Mi piacciono i suoi pensieri.
Sono leggeri, freschi. Eppure
profondi.
Sento che sono diversi dai miei.
Io ricordo solo il buio.
Oh no…
Sto sognando di nuovo…
Come mi sento stanco…
Chi mi chiama…?
- … One…! Frat…!
***
-
Le sue condizioni sono stabili, per il momento. – disse il medico con tono
quasi di sufficienza – Ma la carenza di ossigeno al cervello è durata troppo a
lungo.
Haine,
dall’angolo, guardava l’uomo in camice verde menta parlare con suo padre, la
stessa aria preoccupata della figlia.
-
E… Quindi? – domandò l’uomo titubante.
-
… È in coma.
Coma.
Quella parola ferì le orecchie di Haine con una forza spaventosa, che nemmeno
lei si aspettava.
-
Quindi lui… Non… Si sveglierà più…? – chiese lei flebilmente.
-
No. – disse il medico deciso – C’è, anzi, un’alta possibilità che apra gli
occhi.
Padre
e figlia sospirarono di sollievo, nonostante la risposta così semplicistica
potesse sembrare troppo ottimista.
-
Dunque…
Il
medico porse un braccio nell’aria, facendo un cenno con la mano. Due uomini, in
giacca e cravatta, si avvicinarono ad Haine e a suo padre, uno con una
ventiquattrore in mano e l’altro un plico di fogli sottobraccio.
-
Voi due siete i soli testimoni dell’incidente. – spiegò il dottore – O, per lo
meno, gli unici che al momento abbiano a che fare col ragazzo.
-
Dovremmo solo farvi alcune domande. È la procedura. – aggiunse uno dei due
uomini in nero, con voce ferma.
-
Sì… Certamente.
Il
padre di Haine si fece docilmente guidare dai due verso una saletta privata.
Fatti pochi passi, quello con la ventiquattrore si girò verso Haine:
-
Anche lei, signorina, per favore.
Haine
trasalì appena. Guardò il dottore con aria indecifrabile, e lui le sorrise con
gentilezza, facendole segno di andare.
***
Senza
troppe cerimonie Haine sbattè il quaderno di matematica nella borsa. Subito, il
libro di letteratura giapponese, quello di cinese antico e quello d’inglese gli
fecero compagnia, rotolando cupi con un inquietante scricchiolio di carta.
-
Insomma, basta! – pigolò lei, guardando l’orologio al suo polso – Le sei! Sono
bloccata su questi stramaledetti libri dalle sei! Ora basta!
-
Su, calmati piccola Haine…
-
Sì, lo so, signora Toruhmiya, però…!
I
suoi occhi si posarono un istante sulla figura del ragazzo. La donna sorrise:
-
Hai la scuola, tu. – le disse con dolcezza – Non puoi non fare il tuo dovere. E
poi, pensa, se dovessero darti delle lezioni di recupero, non riusciresti più
nemmeno a venire.
Lei
annuì. La signora aveva sempre ragione, alla fine.
-
Va bene… - sospirò la donna, alzandosi – Grazie della compagnia, piccola Haine.
Ora è meglio che torni nella mia camera…
-
No, grazie a lei signora Toruhmiya! – esclamò la ragazza grata – E grazie per
quella dritta su giapponese…
La
donna le fece l’occhiolino:
-
Solo per questa volta. Impegno, cara. Ci vediamo domani.
La
figura della signora Toruhmiya svanì lentamente nel corridoio, e Haine si
risedette, avvicinando la sedia al lettino bianco. Guardò un istante il viso
del ragazzo addormentato e non potè non sorridere, era parecchio carino.
-
Scusami se oggi sono stata così impegnata. – disse, rannicchiando le gambe al
petto. Lo faceva sempre, quand’era nervosa o quando era intenta a raccontare qualcosa
– Tra poco ci saranno gli esami di metà trimestre e… Mamma mia! Non ci voglio
pensare!
Osservò
un istante il suo “amico” in silenzio, quasi assimilando il ritmico alzarsi ed
abbassarsi del lenzuolo al suo respiro.
-
Ho finito di scriverla, sai? – disse allegra – Quella storia di cui ti avevo
parlato, ti ricordi? Se ti va te la leggo!
Si, la ricordo.
L’idea era carina, devo ammetterlo.
-
D’accordo… Vediamo…
Mi piace sentirla leggere le sue
storie.
Ci mette molto impegno, e si vede.
O meglio, io lo sento.
Da come le trema la voce,
emozionata.
Questa storia mi piace molto.
Parla di una ragazza che disegna
fumetti (un po’ si è ispirata a sé stessa, lo ammette) ed è innamorata di un
ragazzo. Però non sa se a lui interessa.
Un giorno riesce a trovare un
vecchio incantesimo in un libro in biblioteca, di quelli che fanno le ragazze
per divertirsi. Per esprimere un desiderio: un desiderio e questo si avvera.
La ragazza prova. Come per incanto,
si ritrova il ragazzo tanto sospirato in casa sua.
Solo che ha le dimensioni di un
topolino.
La ragazza, pensando di vivere uno
dei suoi manga in cui alla fine i due protagonisti s’innamorano, lo accudisce e
lo protegge, senza pensare che questo ragazzo ha una vita, una famiglia. Forse
una ragazza. Ma la protagonista lo vuole tutto per sé, e non c’è verso che
qualcosa la tocchi.
Finchè un giorno, lui scopre la
verità sul perché è ridotto a quelle dimensioni, e s’infuria con lei. La
ragazza capisce l’errore e, nonostante le lacrime, riesce a trovare il modo per
riportarlo come prima.
E lasciarlo alla sua vita.
Non c’è l’happy ending, almeno non
come uno se lo potrebbe aspettare. Ma la protagonista è maturata, è cresciuta,
e il ragazzo sta bene.
Forse l’happy ending c’è.
***
-
Allora, riepiloghiamo i suoi dati…
-
Sentaro Ichinomiya. – sospirò il padre di Haine, stravolto – 43 anni. Vedovo.
Padre di Haine, quattordic’anni, terzo anno delle medie(**). Ho un piccolo
negozio di elettronica e televisori usati. No, non ho mai visto quel ragazzo;
no, non so come si chiama e no, non sono solito far la tangenziale per tornare
a casa; è stato un caso.
-
Non sia così pungente, signor Ichinomiya. – lo seccò uno dei due avvocati
dell’ospedale – Sappiamo che è snervante, ma è la procedura, gliel’ho detto.
Il
signor Sentaro si massaggiò il collo, stanco, mandando un’occhiata in tralice
alla figlia: anche lei aveva l’aria di chi si sta per addormentare sul posto.
-
Allora? Tutto a posto?
-
Sì… E no.
-
Come sarebbe?! – sbottò Sentaro esasperato – Vi ho detto tutto…!
-
Non per voi. – si affrettò ad aggiungere l’avvocato – Per il ragazzo.
Padre
e figlia li guardarono senza capire. L’avvocato con la ventiquattrore si
allentò un po’ il nodo della cravatta, sospirando:
-
Ovviamente, l’ospedale compirà delle ricerce… - disse quasi sovrappensiero – E
continuerà le cure, certamente…! Ma…
-
Ma?
Haine
guardò l’uomo con aria trepidante. Quello sospirò più forte:
-
Da come ci avete raccontato i fatti, sembra improbabile che troveremo qualcuno
collegato a quel giovane.
-
Vorrebbe dirmi che è da solo? – chiese titubante Sentaro. L’avvocato annuì
lievemente.
Scese
il silenzio. Haine, ormai quasi allungata sulla sedia, fissava i due avvocati
con gli occhioni sgranati.
-
Bene. – concluse l’uomo, alzandosi – Ora contatteremo le autorità. Si dovranno
occupare loro di cercare i parenti di quel ragazzo.
-
Mi scusi…
I
due uomini si fermarono sulla soglia. Sentaro, al cui braccio Haine s’era
aggrappata, li scrutò torvo:
-
Potremmo… Potremmo essere informati sulla vicenda?
-
Impossibile. – lo seccò subito uno dei due – Voi non siete implicati e…
L’altro
uomo gli fece segno di zittirsi. Guardò padre e figlia, scrutando con un
sorriso impercettibile lo sguardo risoluto di Sentaro: si poteva leggere a
chiare lettere che era una di quelle persone che non riesce a non sentirsi
coinvolta in qualcosa.
-
Questo è il mio numero. – disse l’avvocato, porgendo un biglietto da visita
immacolato – La procedura non sarebbe ortodossa, ma la terrò informata.
-
La ringrazio.
L’avvocato
fece un segno di saluto e uscì col collega. Haine guardò suo padre sorridendo,
prendendogli con delicatezza il biglietto dalle mani:
-
Troveranno qualcosa, papà?
L’uomo
scosse la testa:
-
Non lo so.
2 Ottobre 2000.
Con
uno sbuffo Haine sfogliò per la trecentesima volta il giornale del giorno
prima. Un piccolissimo trafiletto, quasi invisibile, nella pagina di cronaca
locale, recitava:
La polizia chiude il caso di “John
Doe”
Il giovane, entrato in coma la
notte del 16 settembre di quest’anno, è lasciato alle cure dei medici senza
aver ritrovato la propria identità.
Le
ricerche sul giovane adolescente ritrovato circa tre settimane fa dal nostro
concittadino Sentaro Ichinomiya e dalla figlia Haine, sono state ufficialmente
archiviate: nonostante l’impegno degli ufficiali del comando locale, non si
sono trovate notizie su John Doe
(nome sconosciuto, età sconosciuta, di nazionalità giapponese) e il commissario
in capo ha annunciato la chiusura del caso.
<<
È come cercare un ago in un pagliaio >> ha detto il commissario <<
Il ragazzo non ha precedenti, non è registrato in nessun archivio cittadino e
non è stato riconosciuto da nessuno, almeno per il momento. Non sono state
trovate denuncie di scomparse recenti, perciò possiamo solo abbandonarci ad
ipotesi. >>
Ipotesi… Quell’ultima
parola fece salire ancora il sangue alla testa alla brunetta.
Chiudevano così la
cosa?! Ma se non avevano fatto altro che ipotesi, in quelle settimane! Altro
che ricerche!
Appena la notizia era
arrivata alle orecchie dei giornalisti locali, era scoppiato il putiferio.
Una settimana di
paginate con supposizioni, voci mai verificate, “scoop eccezionali” (uno, in
particolare, Haine l’aveva ritagliato ed appiccicato con lo scotch alla
scrivania. Recitava: il nostro John Doe,
spia internazionale per la nanotecnologia, ferito al riconoscimento durante una
colluttazione con le guardie del centro xxx. Assolutamente da ridere).
Tutti assurdi e tutti, ovviamente, cestinati dalla polizia.
Poi la fiammata s’era
placata. Dato che non arrivavano più notizie interessanti e ancor meno notizie
utili, l’interesse per John Doe (quanto trovava irritante quel nome!) era
sciamato, limitando gli articoli a piccoli trafiletti di cronaca.
Fino a quello.
Avevano archiviato il
caso. Ad Haine veniva una rabbia folle a
pensarci, perché non si erano impegnati un po’ di più?!
Tre
settimane! Tre misere settimane!
- Che vuoi farci? –
aveva tentato di consolarla suo padre – Questa città è piccola. Non abbiamo
l’Interpool come poliziotti, e i nostri agenti si devono preoccupare più dei
teppistelli che vanno in giro a far danni che di quel povero ragazzo…
Lei, al suo tono, non
aveva commentato.
Haine sbuffò di nuovo.
Scacciò con malagrazia il giornale da davanti a sé, cercando di centrare la
scrivania: quello, ovviamente, sfiorò la superficie del tavolo con un angolo, e
poi incurvò planando a terra. Lei lo ignorò, poggiando la testa al vetro.
Stese le gambe sul
piccolo mobile sotto la finestra e prese a guardare fuori, distrattamente. Il
grande ciliegio del giardino, l’unico di tutta la zona che, nonostante mettesse
su quintali di fiori e nemmeno un frutto, non era ancora stato abbattuto, era
spoglio e segnato dal brutto tempo, i rami secchi che si stendevano
faticosamente fino a quella finestra della mansarda, sventolando al vento
freddo sotto gli occhi di Haine.
Le piaceva
quell’albero. Come le erano sempre piaciute le mansarde: era come vivere sul
tetto, costantemente a contatto col cielo, solo che avevi delle pareti attorno
che evitavano di farti prendere in testa pioggia, neve e quant’altro. Per
quello, quando lei e suo padre si erano trasferiti in quel piccolo paesino
dell’Hokkaido a ridosso del mare, lei aveva subito mirato quella stanza.
Haine guardò ancora
fuori dal vetro, stavolta puntando il giardino. Suo padre era tutti intento a
raccogliere le foglie morte dal prato, cosa che Ribbon, il loro labrador di due
anni, non sembrava granchè intenzionato a lasciargli finire.
Le scappò da ridere.
Poi, inavvertitamente, il suo pensiero tornò a quel ragazzo all’ospedale.
Pensò
un istante di essere al suo posto e cosa avrebbe provato: come si sarebbe
sentita a non vedere vicino i suoi cari, se accanto a lei non ci fossero stati
Ribbon e suo padre, a vegliare sul suo capezzale?
Se
non ci fosse stato proprio nessuno?
Senza
pensarci, Haine afferrò la borsetta blu che sua madre le aveva regalato anni
prima, corse giù per le scale e, afferrata la giacca al volo, uscì in giardino.
-
Haine? – le domandò il padre, mentre Ribbon le andava incontro scodinzolando –
Dove stai andando?
La
ragazza diede una carezza rapida al cane, intimandoli poi di stare buono; lui
ubbidì, uggiolando un poco.
-
Te lo spiego più tardi papà! – fece trafelata, uscendo dal cancello – Quando
arrivo ti chiamo!
-
Ma… Haine?!
Arrivare
all’ospedale fu semplice, la linea 32 ci passava proprio di fronte. Fu trovare
la sua stanza che fu più complicato.
Quando
al punto informazioni domandò all’infermiera, questa le rispose con un’occhiata
acida:
-
Mi dispiace, ma solo i parenti e le autorità sono autorizzati ad andare in
quella stanza.
Haine
non aveva saputo come replicare.
Maledicendo
quella bacchettona, aveva preso a scrutare con noncuranza i cartelli che
indicavano i vari reparti, ma non riusciva a ricordare dove lui fosse degente.
“Accidenti…!”.
-
La signorina Ichinomiya?
Haine
sobbalzò a quella voce. Si voltò, rischiando di farsi cadere di mano la borsa:
-
Lei… - mormorò, col cuore ancora in gola – È l’avvocato di quella sera…!
L’avvocato
le sorrise:
-
Cosa sta facendo qui?
-
… Io… Ho saputo che hanno archiviato il caso. – mormorò – E… E…
Si
zittì e nascose il viso dietro la borsa, che teneva con entrambe le braccia, in
imbarazzo: non sapeva come continuare. L’avvocato annuì:
-
Vieni con me.
L’uomo
la condusse fino al reparto del terzo piano. Qui le disse si sedersi alcuni
minuti sulle panche in corridoio, ed entrò in una stanza leggermente più
piccola delle altre: sopra, il cartellino diceva “Dott. Aoki Ryuichi”.
L’avvocato
uscì poco dopo assieme a quel dottore, e Haine riconobbe subito il medico che
aveva parlato con lei e suo padre la sera che avevano portato quel ragazzo in
ospedale.
L’uomo
le sorrise con gentilezza e le fece segno di seguirlo.
Quando
furono davanti alla 151, Haine ebbe un attimo di paura. Un vago ricordo le
assalì la memoria, e di colpo avrebbe voluto solo poter scappare.
-
Entra, stai tranquilla. – la incitò il dottore.
Lei
annuì incerta.
Il
dottor Aoki ai avvicinò al lettino, controllò la flebo e tutto il resto delle
strumentazioni, mentre Haine gli si affiancava titubante. La brunetta scrutò un
poco il profilo del ragazzo: la mascherina per l’ossigeno gli copriva metà del
viso, ora ripulito e coperto soltanto da una piccola benda bianca sulla fronte,
ma erano le uniche due cose “fuori posto”, in quell’immagine.
Sembra proprio stia dormendo…
-
…Quindi, vedi questo?
-
C-come?
Haine
sobbalzò, persa nei suoi pensieri non si era accorta che il dottore le stava
parlando.
-
Vedi questo? – ripetè l’uomo.
Stava
indicando uno dei piccoli schermi accanto al lettino. Un cavetto bianco usciva
dall’apparecchiatura e si perdeva tra i ciuffi bruni del ragazzo, collegandoli;
sullo schermo nero una linea anch’essa bianca si muoveva sinuosamente,
affiancata da gradazioni che Haine non conosceva. Sentì un brivido percorrerle
la schiena, quel coso emetteva un bip
sordo che le gelava il sangue.
-
Stima il suo encefalogramma. – le spiegò il dottore – Per fartela breve, ci
dice quanto sta funzionando il suo cervello.
-
E… Quindi? – domandò lei timida, sentendosi un po’ ignorante a quella domanda.
-
Vedi come quella linea si alza ed abbassa? – continuò lui – Significa che il
cervello di questo ragazzo è ancora attivo. Finchè resta così, c’è la
possibilità che si risvegli.
-
M-ma allora… - riprese lei – Tutti quegli altri macchinari lì…?
-
Lo aiutano. – fece il medico brevemente – Ma la cosa fondamentale è che il
cervello sia attivo. Nell’istante in cui l’encefalogramma sarà completamente
piatto, anche se le macchine continueranno a farlo respirare, lui sarà
ufficialmente morto.
Haine
deglutì sonoramente.
-
Lui, in questo momento, sta pensando. – spiegò – Beh, è difficile saperlo e non
è propriamente tecnico, ma possiamo metterla così.
-
P-perché mi dice questo?
Il
dottore sospirò, rivolgendole un sorriso triste.
-
A dire la verità non avrei voluto chiedervelo, signorina Ichinomiya. – mormorò.
Ad Haine non piacque granchè che le desse nuovamente del “lei” – Ufficialmente
non potevo più coinvolgere lei e suo padre. Però, dato che è venuta qui…
-
Cosa, dottore? – fece un po’ esasperata.
-
… A lei importa di questo ragazzo?
Haine
sentì di arrossire lievemente. Scacciò quella sensazione, guardandolo risoluta:
-
Sì. Io… Non me la sento di lasciarlo da solo.
L’uomo
sorrise.
-
Bene. Allora devo chiederglielo.
-
Mi dica.
-
Lei… Sì, quando può… – si affrettò ad aggiungere – Basta ogni tanto…! Dovrebbe
venirlo a trovare. Stare con lui, e parlargli, anche.
Haine
lo fissò confusa:
-
Ma… Ma se lui non può sentirmi!
-
Non possiamo dirlo. – obbiettò – Anzi, seguendo quel che ci dicono quelle
strumentazioni, è assai probabile il contrario.
Haine
non rispose.
-
Il sentire una voce, avere la coscienza che qualcuno gli è vicino, potrebbe
aiutarlo.
La
sguardo della ragazza era indefinibile.
-
Non glielo sto dicendo come medico, glielo sto dicendo come un uomo che, nella
sua vita, ha già visto una volta una cosa del genere.
Haine
lo vide sospirare, levandosi dal viso gli occhialetti metallici:
-
A questo punto la medicina può fare ben poco. – concluse con onestà amara –
Solo accudire il suo corpo, e aspettare. Ma la sua coscienza…
-
Lo farò.
Il
dottore la fissò sorpreso. Haine gli rivolse un altro sguardo determinato,
sorridendo:
-
A quella ci penserò io.
***
Di nuovo, sono qui.
Lo sento.
Tre figure mi guardano
dall’orizzonte candido che è la mia memoria.
Chi siete?
- Ciao.
Sento le parole, ma non distinguo
il volto e la voce. Qualcosa mi dice di scappare.
- Hai paura di noi?
Un’altra delle tre figure. Me lo
domanda ridendo. Io resto fermo:
- Non lo so. Non capisco.
Mi guarda la terza:
- Cos’è che non capisci?
Scuoto la testa:
- Non lo so.
Ma c’è qualcosa che mi sfugge.
Qualcosa che dovrebbe essere nitida, cristallina nella mia testa, invece non c’è.
Non riesco a trovarla.
Non riesco a capire chi siete.
Buio.
Di nuovo.
Perché c’è sempre buio?
Oh no…
Questo non voglio vederlo…
È il solito brutto sogno.
Sto male. Molto male.
Ho freddo, mi fa male dappertutto.
Mi stanno portando da qualche parte,
siamo su una macchina.
Poi si fermano.
Sento ancora più freddo, l’aria e
la pioggia sulla faccia.
Sento che rotolo giù, sull’erba e
nel fango.
Non riesco a tenermi.
Mi fermo dopo poco con lo stomaco
che protesta per qualcosa che l’ha centrato. Forse un sasso.
Mi gira la testa.
Sento il mio corpo leggero, come se
stesse volando via.
Poi sento una voce.
…
… Haine?
-
Sarebbe l’ora che andassi, Haine.
La
ragazza, colta di sorpresa, fece quasi un salto sulla sedia, rischiando di
cadere. Si tenne con entrambe le mani al poggiaschiena e si tirò lentamente su,
fissando arcigna la figura alla porta, che ridacchiava.
-
La deve smettere di spaventarmi, dottor Ryuichi!
-
E tu dovresti smetterla di chiamarmi per nome. – sospirò l’uomo, infilando le
mani nelle tasche del camice.
-
Ma lei mi chiama per nome! – gli rimbeccò, con una linguaccia. Lui sospirò:
-
Lasciamo perdere… Comunque, sono le sette e un quarto, è meglio che ti avvii.
La
ragazza guardò l’orologio, sospirando:
-
Sì…
-
Avanti. Io devo andare in chirurgia, vorrei non beccarti qui quando torno!
Scherzò.
Lei sbuffò un “sì”.
Si
alzò, caricò gli ultimi libri e chiuse la borsa, mettendosela a tracolla con
aria annoiata.
-
Devo andare. – sussurrò al ragazzo. Come sempre lui non ebbe nessuna reazione
ed Haine non riuscì a trattenere un sospiro – Ci vediamo domani.
- Mi è simpatica!
- Anche a me.
- Sì.
L’incubo è sparito. Ci sono di
nuovo loro.
- Di chi state parlando?
- Di quella ragazza.
- A me piace molto. – ripete una
delle tre.
- Piace a tutte.
Una delle figure si avvicina. Mi
trattengo ancora dallo scappare.
- “Tutte”, dici… Siete delle
ragazze?
- Certo! – ride lei. La voglia di
scappare si fa così forte che stringo i pugni per non pensarci.
- Perché hai paura?
- Io… Non lo so.
- Non sai di cos’hai paura?
- No, quello lo so. – mormoro –
Dovrei ricordare qualcosa. E non ci riesco. Quello di cui ho paura…
- È scoprire cos’è?
La guardo. Non riesco a vederle il
viso, ma capisco che sta sorridendo.
Annuisco.
- Hai sentito? – dice una di quelle
rimaste in disparte – È diventato un fifone!
Sta scherzando, ne sono sicuro.
Ridono. Lo faccio anch’io.
Vedo quella di fronte a me
guardarmi di nuovo.
Sorride triste.
- Fratellone… Sarebbe l’ora che ti
svegliassi.
Haine
si bloccò in mezzo al corridoio.
Maledizione, il quaderno…!
Girò
sui tacchi alla velocità del lampo, non poteva lasciare il suo preziosissimo
quaderno alla mercè delle infermiere. “Specie quella del quarto piano, che
ficca sempre il naso dappertutto!” pensò seccata, ricordando la volta che aveva
dimenticato il quaderno d’inglese e quella, riconsegnandolo il giorno dopo,
l’aveva presa in giro per la pessima grammatica.
Rientrò
con discrezione nella stanza, quasi in punta di piedi. Cercò subito con gli
occhi la copertina rosa, intravedendola sul tavolinetto sotto alla finestra, e
sorrise di sollievo.
Si
chinò, aprendo la borsa, e allungò reverente le dita sul piccolo oggetto.
Sovrappensiero girò la testa verso il letto, ridacchiando e pronta a scusarsi per la nuova intrusione, ma la
frase le morì sulle labbra.
Due
occhi neri come la notte la stavano guardando.
Semichiusi.
Vacui. Ma la guardavano.
Il
quaderno ricadde sulla scrivania.
-
Kami-sama…
Lasciò
andare mollemente la borsa a terra. No, non se lo stava sognando.
-
Tu… Sei… Sveglio…!
-
… H…
-
N-no! A-a-aspetta! Non…!
Prese
un secondo fiato, appoggiandosi al bordo del materasso. Era incredibile, fino a
cinque minuti prima sembra che…! E invece…
È sveglio!
-
A-aspetta! Vado… Vado a chiamare il dottore…
Sentì
una presa impercettibile sulla sua manica. Si fermò, scorgendo le dita tremanti
e ormai indebolite di lui che la fermavano. Haine lo fissò un istante, senza
riuscire a muoversi. Che le prendeva, mica scappava! Andava solo a chiamare il
dottor Ryuichi…
Ma,
invece, s’inginocchiò un istante accanto al letto. Aveva l’impressione che lui
stesse provando a muovere le labbra.
-
H… n…
-
C-come?
-
… Hai… ne…?
Perché c’è tanta luce?
Cos’è tutto questo rumore?
Io… Sono sveglio…?
Dove sono…?
C’è… Qualcuno…
Una ragazza… Coi capelli castani…
Questa voce…
-
… Haine…
Ripetè
il nome così piano che lei quasi non riuscì a sentirlo. Lo fissò, gli occhi
sgranati e la bocca che si muoveva, lentamente, senza emettere un suono.
-
Tu… Sai il mio nome?
Haine
sentì gridare. Frastornata alzò appena la testa, vedendo una giovane infermiera
bionda guardare nella stanza, un sorriso in volto:
-
Oh, è incredibile…! Dottor Aoki! Dottore! Si è svegliato!
Haine
la vide correre nel corridoio continuando ad urlare il nome del dottore. Lei
non ci badò e tornò meccanicamente a guardare il ragazzo: lui non aveva smesso
un attimo di fissarla.
-
Sì, sono Haine… - mormorò, confusa – E tu… Tu chi sei?
Lo
vide guardarla con aria corrucciata.
Lo sapevo.
Haine.
Sei Haine.
Io…
Chi sono io…?
Io…
-
Shi…ro…
-
Come? Shiro?
Lui
annuì debolmente e lei rispose allo stesso modo:
-
Shiro… E poi?
Lui
si fermò un istante. Poi, con fare triste, fece un minuscolo segno di diniego.
Haine, inconsciamente, gli strinse con delicatezza la mano. Dal corridoio
cominciò a sentire sempre più trambusto, e si sforzò di alzarsi, scostando le
iridi cioccolato dalle sue:
-
Non importa. – gli sorrise – Ben svegliato, Shiro.
Mi chiamo Shiro.
E non so chi sono.
(*)
nomenclatura americana data ai pazienti degli ospedali (o ai cadaveri ritrovati
dalla polizia… Brrr o__o””!) di cui non si conosce l’identità. È come chiamarlo
Mario Rossi xDD… Non so se esiste un nome specifico usato in Giappone per
queste situazioni, così ho ripiegato xP.
(**) ricordo che in Giappone le elementari durano 6
anni, quindi a 14 è normale finire le medie, Haine non è ripetente xP!
Tadaaaan!! Chi se l’aspettava?! Chi l’aveva già capito? Chi
pensa sia una castroneria xD?! Eh, sì, il mio voto era di lasciarlo come pers secondario,
ma alla fine il coinvolgimento di Shiro mi sembrava troppo x lasciarlo “a
margine”, et-voilà ^o^! che ne pensate? Voglio tantitantitanti commy, eh! xD
anche sl un “è carina”, “mah, ho visto di meglio”, “datti all’ippica!” (no,
questo no XD) xò lasciatemelo plz! Ah, io non sono un medico e non ho mai
studiato medicina, ma dato che l’argomento mi interessa qualcosina so (a
livello STRETTAMENTE ipotetico ^^””) quindi nn sn tutte castronerie quelle che
scrivo… Certo, c’è MOOOOOLTO di romanzato, xò concedetemelo xD!
Ah, prima di salutarvi voglio ringraziare chi ha commentato
l’ultimo cap di “Psaico, Secret Files:
La storia dello Sciacallo”:
Ella_Sella_Lella: sono contentissima che ti siano piaciuti anche Psaico e i
Diaries, soprattutto i secondi che sono ancora lontani dalla conclusione, e poi
ci tengo xkè è un’opera scritta a quattro mani e mi sento orgogliosa x entrambi
XD (e questo cosa vorrebbe dire -__-“”? ndJolly_Mask). Spero che continuerai a
seguirmi (e seguirci ^^, vero Jolly?) un bacione!
Violet_Rose: grazie ad entrambe piciole ^^! (non ci fate caso, dato che sn
una vecchietta chiamo tutte così xD) sono felicissima che vi siano piaciute
così tanto, spero che apprezziate anche la storia di Shiro-chan ^^.
Lenn Chan: NEE-SAMAAAAAA!!! Che bello, che bello, che bello, mi segui
sempreeee!! Me felicissima *-*!!! Anche a me piace tanto la scena finale, lo
ammetto ^\\^, e cmq forse, chissà, Hitoshi potrebbe rispuntare, e anche… Non
aggiungo altro ^^+! X i Diaries pazienta, prometto che m’impegnerò! Non ti
deluderò, onee-sama +___+!!! (<- occhi fiammeggianti d’impegno – Ma dove?
ndKei).
Vorrei fare poi un ringraziamento speciale a:
Ametista (alias kuro_neko ^^)
julia_fernandez
Ella_Sella_Lella
Violet_Rose
Che hanno messo “Psaico Secret Files: La Storia dello Sciacallo”
tra le fanfic preferite; e poi
Ametista
DarkHiwatari
Ella_Sella_Lella
HollyShort91
ila93bey
Iria
jessy16
julia_fernandez
Lenn chan
Pikkola Rin
poketpolly
rakuen
redeagle86
Takami Kinomiya
Takami_Kinomiya
vampirosolitario91
Violet_Rose
Che hanno messo “Psaico” tra le fanfic preferite. Mi fate
felicissima, sul serio ^\\^! Grazie di cuore e a prestooo!