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Autore: frown    30/01/2016    1 recensioni
Elle ha solo diciannove anni ma si divide tra amici dalle personalità estrose, serate alcoliche da sobria e una sorella maggiore petulante che non ha la minima idea di cosa siano la privacy o lo spazio personale e sembra ottenere comunque tutto ciò che lei ha sempre voluto.
In tutto questo capitano casualmente Andreas e Lysander.
Tra pensieri incoerenti di un cervello esausto, Elle capirà che ciò che ha sempre desiderato l'ha sempre avuto di fronte e, nonostante tutto e tutti, lei può ancora prenderselo quando vuole.
"Ho diciannove anni, pochi spiccioli per le sigarette, gli occhi stanchi, le labbra screpolate, qualche sogno irrealizzabile, ma non ho te"
"Non te ne rendi proprio conto? Sai quanto fanno male le tue parole? E i condizionali passati? Ma non lo senti il dolore fragile in 'Saremmo stati'?"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Cocoa butter kisses

(2.)


Hopscotch

 


 






Il martedì della settimana successiva, Lols giaceva in stato catatonico sul tappeto persiano del suo appartamento.
“Sono arrivata il prima che ho potuto!” esordii non appena Connor mi aprì la porta.
Il mio amico mi guardò di sbieco, fece spallucce e volse il pollice della mano destra ad indicarmi la mia migliore amica, piagnucolante per terra.
Per lo meno non stava vomitando.
“Hey” la salutai, avvicinandomi a lei. Mi sedetti, incrociando le gambe, prima di allungarle la scatola di cioccolatini piccanti che avevo rubato a mia sorella.
Lola Palmer-Gross non si faceva mai prendere dal panico, anzi, di solito sui suoi fallimenti ironizzava asserendo che una bella risata fosse l’unica cosa che la tenesse lontana dall’eventualità di finire ricoverata in un reparto psichiatrico.
Lei afferrò la scatola quasi immediatamente, prima di imitarmi, spingersi coi gomiti e mettersi seduta. Passò l'indice sotto l'occhio, levando le tracce di mascara e eyeliner che erano colate col pianto.
“La mia vita fa schifo” disse quindi. “Mi gira la testa ho bisogno di stendermi un attimo, sui binari” ruggì.
Dovetti trattenermi dal ridere: anche quando attraversava una crisi esistenziale, Lola non perdeva mai l’ironia.
Lols, Lola Palmer-Gross per l'anagrafe, con gli occhi chiari luccicanti e pieni di lacrime, mi guardava dal basso. Il ritratto dell'angoscia.
La minore della famiglia Palmer-Gross era una ragazza alla mano, una di quelle ragazze che non ha bisogno di sforzarsi per piacere, perché semplicemente piace a tutti. Cordiale e puerile, vendicativa e capace di imitare qualsiasi cosa respirasse.
Ma dietro a una nube di apparenza, Lols affogava dentro a un senso di insicurezza e fragilità piuttosto profondo. Sentimentalmente parlando, è sempre stata problematica; da quando ne ho memoria. Lols tende ad annullarsi, ha sempre avuto bisogno di una persona più solida in grado di reggerla, sostenerla senza dominarla. In sostanza, ha solo un gran bisogno di essere amata.
Risi. “Non è vero, Lols, la tua vita non fa schifo e tu non vuoi morire. Ecco, morire fa schifo” replicai amareggiata.
“Sì che fa schifo, sembra di essere catapultati in quella di Lana Del Rey” commentò, rassettandosi il maglioncino rosa che indossava, per darsi un contegno.
“Nah” si intromise Rhett, uscendo dalla cucina con una scatola di cereali in mano. “Lei è bella e ricca” aggiunse ghignando allegro, per niente turbato dalla scenetta.
Lols tornò a piangere, accompagnando alle lacrime dei gridolini strozzati.
Lanciai un'occhiataccia a Rhett prima di prendere ad accarezzare Lols come se fosse una bambina e a sussurrarle rassicurazioni come “Rhett è un coglione”.
Rhett avanzò imperturbabile verso il divano e ci si buttò sopra a peso morto, dopo essere inciampato su qualcosa.
Allungai il collo e gemetti. Un libro. Un mio libro.
Lasciai Lola a leccarsi le ferite e gattonai fino ai piedi di Rhett.
Feci un gran sospiro e mi chinai per raccogliere il libro, rimuovendo accuratamente la polvere che si era depositata sopra. Il danno era consistente, di certo il dorsetto non sarebbe stato più lo stesso, nemmeno se riparato da mani esperte. Peccato, tenevo molto ad esso e ai suoi illuminanti contenuti: era il mio preferito e lo avevo acquistato in uno di quei mercatini con merce da rigattiere per quarantacinque sterline, un prezzo che ben rendeva la singolare rarità di quell’edizione.
Lols si riprese velocemente – se non frettolosamente. Indicò Rhett con il dito, come se lo stesse per accusare di qualcosa.
“Il mio ragazzo mi ha tradita, ma tu? Cosa mi dici di te, Rhett?!” strillò. “Sei gay, non sei gay? Chi sei?” avrebbe potuto essere una grandissima attrice teatrale. “Stai con Lysander? Con Gerarld? Con Tina o con Nancy?” era proprio una vipera.
Mi leccai le labbra e appoggiai le mani alle ginocchia di Rhett guardandolo dal basso.
Lui non ricambiò lo sguardo, ma riuscì comunque a notare i suoi occhietti incupirsi.
“Sei gay o no?” ripeté. “Puoi dircelo, siamo tutti amici qui” una grandissima vipera ecco cos’era.
Appena pensava che qualcuno ce l'avesse con lei, attaccava con una furia irrefrenabile, si trasformava in una iena, mettendosi a contare sulle dita tutti i suoi difetti, o peggio, beccando proprio la ferita di quella persona, quell’argomento spinoso che non avrebbe mai voluto affrontare.
Rhett ridacchiò per niente scalfito, mentre Connor prendeva a sputacchiare il suo succo all'ananas ovunque.
Oh, Connor.
“Sta’ zitta” la rimproverò Rhett serio. “Non sono gay per Lysander”
Connor quasi cacciò un urlo di frustrazione, prima di far sgusciare fuori dalle labbra un ruggito: “Che significa?”.
Rhett prese un cioccolatino dalla scatola che avevo portato per Lols, mentre si alzava e sedeva affianco a me, per avere Lols-la-stronza difronte.
Lols sembrava improvvisamente così interessata, che aveva smesso di piangere, come se avesse d’un tratto scordato che il suo ragazzo l'avesse tradita.
“Come ‘che significa’?” aveva replicato Rhett. Era tranquillo e il suo volto era il ritratto della quiete e della calma. L'opposto di quello di Connor.
“Tu hai detto 'Non sono gay per Lysander'. Ciò implica che tu sei gay per qualcun altro” spiegò Connor come se stesse parlando a un bambino di sette anni.
Nei suoi occhi la speranza luccicava più di un anello Cartier.
“Questo è... Cosa? Implicito?” Rhett aveva assunto quindi un espressione confusa, un'aria da tonto che tutto sommato gli donava.
“Rhett sei un becero coglione” commentai.
“Se sei gay per qualcuno, sei per forza gay anche per Lysander. Dio, ma l’hai visto?” aggiunse Lola.
Connor strillò come una ragazzina mettendoci a tacere. “Parla, Rhett! Per l’amor del cielo!”
Improvvisamente si udì il suono dello sciacquone del water.
Tutti ammutolimmo.
Dalla porta del bagno dell'appartamento di Lols ne uscì Lysander.
Lysander ci fissava con un sorrisetto sardonico, poi s’impuntò su di me, quasi non aspettandosi di trovarmi lì.
Iniziammo a scrutarci come due animali diffidenti, lui era nel mio habitat e non era stato inviato. Io ero giustificata.
Lui invece mi guardava imperterrito, come se gli dovessi dei soldi, senza temere di risultare maleducato.
Passò qualche secondo in cui nessuno dei due accennò a voler parlare, poi d’un tratto sobbalzai esclamando: “Che ci fa lui qui?” rivolto a tutti e a nessuno in particolare.
“Ho trovato Lola a piangere e a urlare nella biblioteca dell’università, l'ho portata a casa e ho chiamato Rhett” mi spiegò lui, senza distogliere lo sguardo dal mio neanche per un secondo. Rabbrividii e mi affrettai a interrompere il contatto visivo, imputandomi come imperativo categorico di non guardare quelle sue gambe scandalosamente lunghe.
Si andò a sedere sulla poltrona dove il plaid a quadrettoni di Lols giaceva indisturbato.
“Non sono abbastanza per te?” domandò sarcastico allora Lysander, facendoci intendere che aveva ascoltato la conversazione.
Connor arrossì per un secondo, mentre Rhett scoppiava a ridere.
Poi il mio amico mi guardò e mi disse: “Sta scherzando, è assurdamente etero” indicando col mento l’ospite stravagante. Molto più stravagante dell’appartamento e Lola vantava una serie di lampade a forma di fallo, così per dire.
Fu il turno di Lols di parlare. “Cosa che pensavo anche di te” brontolò, ma la sentii solo io.
Ridacchiai silenziosamente.
Rhett puntò gli occhi su Connor che si fissava le scarpe, in attesa di una risposta. “Non ho alcuna idea di cosa tu stia parlando. Tutto ciò che ho detto è che non sono gay...” pausa “per Lysander”.
E scatenò di nuovo il panico.
“L'hai fatto di nuovo!” strillò Connor ricordandomi mia sorella. “Per chi sei gay, Rhett? Per chi?”
Ad interrompere il silenzio che si era creato fu ancora Lysander. Distese le labbra prima di ridere. Una risata elegante e aggraziata, una risata che se fosse un dolce, sarebbe il mio preferito. I macaron al limone o al lampone.
“Comunque, io sarei un grande fidanzato” ammonì scherzosamente Rhett prima di alzarsi e indicare la porta. “Io andrei. Rimettiti, Lola. Era un coglione” e si avviò verso la porta.
Lo salutammo in coro, mentre rimuginavo su fatto che probabilmente non si ricordava nemmeno il mio nome. Maledetto.
Rhett si alzò un secondo dopo. “Lo seguo, mi rintano da Psychoholic, chi mi accompagna?” domandò con un sorriso traballante sul volto.
“Io!” mi offrii alzando freneticamente la mano. “Dovresti venire anche tu, Lols” suggerii.
Ubriacarsi per dimenticare. Che grande adulta che sono.
Lols scosse la testa in negazione. “No, ma... Tu vai pure, io rimarrò qui. Guarderò Sex & The City con Connor”.
Un quarto d'ora dopo eravamo al Psychoholic, un locale situato in mezzo ad edifici imponenti, ma che non lo intimoriscono per niente. Psychoholic era il nostro ritrovo, un locale abbastanza popolare, ma non caotico in modo estenuante. Si componeva in due piani e aveva le finestre alte e larghe, che davano su una strada principale. Il locale era luminoso, se non per alcuni punti, ed era interamente fatto di parquet di legno consumato, un parquet che non scricchiola ma su cui si può sentire il rumore dei tuoi passi se indossi dei tacchi. Le scale che collegavano il piano terra al primo, venivano spesso ridipinte di bianco, mentre i muri erano stati pitturati di un lavanda monocorde. Il locale era riempito da tavolini lasciati alla loro semplice bellezza, in legno chiaro, con un menù nero sdraiato accanto al centrotavola. Le sedie, erano dello stesso materiale e colore. Sulle pareti erano disposti qua e là quadri e raccolte di fotografie. C'era anche una bacheca di fotografie in bianco e nero, scattate all'interno del locale. Sopra alla bacheca delle lettere di legno intagliato recitavano “Love First, Bear After”. Le fotografie raffiguravano tutte le coppie di frequentatori abituali del locale. Quegli scatti rubati si moltiplicavano col tempo.
“E se si lasciano?” aveva chiesto una volta mia sorella Giselle.
“Se si lasciano, possono deciderlo loro, se tenerla o toglierla”.
Rhett aveva subito ordinato una birra chiara e, prima che io potessi parlare, Lysander e Andreas ci furono accanto.
Il primo inespressivo, il secondo sinceramente allegro.
“Sicura di avercela l'età per bere?” mi domandò Lysander, prima di sedersi accanto a Rhett e difronte a me.
Magalì, la cameriera neozelandese sorrise prima di mugugnare:“Torno fra due minuti” captando che avevo bisogno dei miei cinque minuti.
“Certo” rispose per me Rhett. “Ma di solito ordina un frullato o un succo di frutta o un milkshake” spiegò brevemente facendomi arrossire.
Rhett parlava decisamente troppo.
“Perché?” chiese sempre Lysander, mentre Andreas si accomodava affianco a me.
“Già” replicò Andreas. “Con me alla festa di Connor hai bevuto”.
Lanciai un'occhiataccia a Rhett che fortunatamente l'interpretò nel modo corretto, così per autocorrezione si affrettò a rettificare, iniziando ad accavallare storielle, una sopra l’altra. “Alle feste beve, solo non di frequente. Elena non regge l'alcol... Proprio a livello d'organismo... Un casino... O forse no”.
Lysander ascoltò Rhett con attenzione, mentre il mio amico parlava, però, non distaccava lo sguardo da me, che iniziavo a sentirmi sinceramente a disagio. Era come sentirsi sotto la lente d'ingrandimento, come se tutti i miei difetti già abbastanza in rilievo venissero ancor di più evidenziati. Come se fossi sotto esame, un esame per cui non mi ero preparata, un esame che sapevo non avrei superato.
Andreas annuì comprensivo, rivolgendomi un sorriso. “Non vorrei si fosse forzata per farmi compagnia” disse.
“Affatto” mi affrettai a rispondere, prima di accavallare la gambe ed esibire un espressione di finta disinvoltura. “Anzi, appena torna Magalì ordinerò un bel Cosmopolitan” ridacchiai.
Vidi Rhett spalancare gli occhi e borbottare qualcosa di sconclusionato prima di sillabarmi sulle labbra “no” e poi “sei sicura, cazzo?”.
No, che non ero sicura. Io non toccavo mai quell’argomento.
Andreas subito dopo intavolò una conversazione con me sulla rottura fra Lols e Frank, veramente interessato e dispiaciuto. Quando Magalì ricomparì, Lysander parlò per primo. “Allora, Rhett ha già ordinato, ma immagino voglia il bis. Quindi, un altro giro per il mio amico, Andreas vorrà sicuramente una Heineken, mentre per me e la signorina, due frullati ai frutti di bosco” ed ordinò per tutti.
Andreas sembrò cogliere la cacofonia, appena Magalì si allontanò, lo sgridò, dicendogli che volevo un Cosmopolitan.
Lysander fece spallucce, prima di rivolgermi un'occhiata di scuse che Andreas sembrò accettare. “Scusa, volevo un frullato. Solo che lo prendo solo quando qualcun altro mi fa compagnia. Spero non ti dispiaccia” chissà quante balle mi aveva rifilato in quella frase.
Io annuii, ancora più scossa. “Non fa niente” tentai un sorriso, conscia invece di aver prodotto una smorfia. “Anzi, hai casualmente ordinato il mio frullato preferito”
Rhett, in attesa della seconda birra, aveva scolato con un solo sorso la birra rimasta, finendola tutta e macchiandosi un poco il maglione.
“Non casualmente” replicò Lysander, guardandomi d'un tratto con naturalezza. Mi piacque subito il suo modo di parlare, la naturalezza con cui si esprimeva e la cantilena della sua voce densa di un tono canzonatorio e sbeffeggiante.
Sussultai appena, impreparata e sorpresa, prima di rilassarmi istantaneamente.
“Ah no?” chiesi allora, sentendomi un groppo in gola. “E come lo sapevi?”
Sorrise. Un sorriso smagliante e malandrino. “Ho indovinato”.
Passammo la serata a parlare del più e del meno, scoprendomi attratta da ogni osservazione di Andreas – anche quelle più stupide. Non importava se queste erano sul tempo, sulla birra, sui frullati, sul giornale, sulle fashion blogger, sull'hockey o su di me.
Nonostante non gesticolasse e fosse biondo, mi scoprii attratta da lui e dalla sua parlantina vivace e frettolosa, come quella di un neo-adolescente. Oltretutto, era un ragazzo estremamente carino e sexy. Sembrava essere la reincarnazione delle caratteristiche del mio ragazzo ideale, nel tempo libero suonava la chitarra acustica o nuotava nella piscina della palestra vicino al super-market. Era indifferente a quasi tutti gli sport, tranne il nuoto e il tennis.
“E' davvero curioso, no?” disse a un certo punto.
Sorseggiai il frullato quasi giunto al termine. “Cosa?” chiesi simulando innocenza.
Fa’ che si sia innamorato di me, pregai.
“Il fatto che ci siamo rincontrati!” rispose allegro ed un poco esaltato.
Sorrisi lusingata. “Non mi sembra poi così curioso” ammisi.
Andreas aggrottò le sopracciglia e la fronte, prima di scoppiare a ridere di gusto. “Invece sì! Al mondo ci sono così tante persone, ma il caso ha voluto che noi due ci incontrassimo” affermò incredulo.
Rhett ridacchiò. “Elena non crede molto nel caso” commentò facendomi la linguaccia.
“Ah sì?” replicò Andreas, poggiando una mano sul mio ginocchio. “Beh, ti farò cambiare idea” e mi fece l'occhiolino, prima di tornare a ridere.
Arrossii. “Auguri” commentai, cercando di non apparire provata.
“E' saccente, non trovate?” chiese Andreas agli altri due ragazzi.
Per niente offesa o scalfita proseguii: “E tu un gran sbruffone” risi.
Lysander si schiarì la voce e d’impulso mi ritrovai a guardarlo avida, curiosa per quello che avrei scorto se solo mi fossi affacciata di più per capire quel ragazzo.
“Lei avrebbe sorriso senza sorpresa, convinta com'era, come lo sono io, che gli incontri che chiamiamo casuali sono esattamente l'opposto, e che le persone che danno appuntamenti sono della stessa specie di quelle che hanno bisogno delle righe per scrivere sui quaderni, o che spremono il tubetto di dentifricio sempre dal basso” recitò.
Lo fissai allibita. Quel ragazzo sembrava essere uscito da un libro o da un film in bianco e nero di qualche regista francese. Mi accorsi che lo stavo fissando, solo quando lui ricambiò il mio sguardo.
Mi guardò come se non capisse il mio interesse, come se non avesse fatto nulla di speciale, come se avesse detto “magari domani piove” o recitato la sua lista della spesa.
“Julio Cortazar, Hopscotch” dissi pragmatica e, fu il suo turno di restare senza fiato. Sorpreso.
Il silenzio teso, solido e denso, che si era andato a formare, fu soppresso in modo quasi esaustivo dalla risata leggera di Andreas.
“Sei forte” si complimentò con me. “Sei la prima persona che riesce a seguire le citazioni lanciate un po' a caso di Lysander”.
Appoggiò il bicchiere di birra a doppio malto che non aveva ancora terminato, a differenza di Reth che smanettava con il cellulare, disinteressato alla piega della conversazione.
Andreas mi si avvicinò pur rimanendo seduto sulla sua sedia, mi prese la mano, prima di dedicarmi un sorriso innocente. “Sei davvero una ragazza speciale” e sentii il mio cuore esplodere. “Sembri uscita da un cartone animato, magari uno giapponese, anzi, un manga. O una canzone. Te l'hanno mai dedicata una canzone? Hanno mai scritto una canzone che parlasse di te?”
Scossi la testa, in negazione, iniziando a ridere: era ubriaco.
Andreas sbuffò e fu il suo turno di scuotere la testa, ma con un moto più esasperato. “Beh, dovrebbero”.
Scolò il rimasuglio di birra nel bicchiere, si leccò le labbra e richiamò a sé l'attenzione della cameriera.
Mi strinsi nelle spalle con un gesto insofferente e guardai Lysander, mi stava guardando anche lui. Fu questione di pochi secondi, prima che mi rivolgesse un sorriso obliquo, un sorriso obliquo beffardo e sfolgorante. Il sorriso di Lysander era diverso, era un sorriso invadente e che strideva con la location, sembrava essersi espresso nel posto e nel momento sbagliato. E soprattutto rivolto alla persona sbagliata.
Non lo ricambiai, sperando di non apparire indisponente nei suoi confronti.
“Ti va di giocare a ping-pong?” chiese poi a Rhett.
Rhett staccò gli occhi dal cellulare con un sorriso scintillante, prima di annuire con vigore. “Sì, cazzo!”
Rhett e Lysander sparirono in fretta, lasciandomi in balia di Andreas e di conseguenza, dei miei sentimenti verso di lui, confusi e in continua metamorfosi ed evoluzione.
Parlammo per ore e, non appena ci interrompevamo, lui non perdeva un secondo per chiedermi di rivelargli a cosa stessi pensando.
Dopo quell'uscita, iniziammo a vederci sempre più. E ovunque.
In biblioteca, da Khalil il kebabbaro, al supermercato e al centro commerciale. Rhett organizzava serate in cui ci incontravamo ancora, che fosse al pub irlandese o in discoteca.
In discoteca, venerdì sera, ci restai per mezz'ora, prima di uscire quasi di corsa, asfissiata e ansante.
Non passarono più di due minuti, prima che Andreas mi raggiungesse, con gli occhi che luccicavano quasi. Era brillo di già.
Mi guardò stanco, avendo corso per raggiungermi, con i capelli che gli si erano un po' spettinati e che sudati, gli si erano appiccicati alla fronte imperlata. Si fermò un poco per riprendere fiato mentre mi guardava seduta sul gradino basso e sporco del marciapiede.
Quella sera mi aveva fatto un complimento per il vestito e, ora che mi guardava con così tanta attenzione, mi sembrava di essere in una sala operatoria, io il paziente e lui il chirurgo dallo sguardo attento e vispo, il lampione quindi mi sembrava quell'aggeggio che emana luce accecante, quella lampada accecante che si trova anche dall'estetista o dal dermatologo.
Il silenzio ingombrante fra di noi, stranamente non fu interrotto da una delle sue battute agghiaccianti o da una sua classica risata calcolatrice.
Semplicemente, si accese una sigaretta e non la fumò nemmeno, restando in piedi, affianco a me, a guardarmi giocare con il braccialetto attorno al polso.
La cenere della sigaretta iniziava a cadere lenta sulla punta delle sue scarpe, ancora non intenzionato a sedersi affianco a me.
“Che hai?” spezzò il silenzio.
Alzai lo sguardo e dalla quella prospettiva i suoi occhi in attesa mi sembrarono ancora più luminosi e accesi, come i fari delle coste marittime.
Mi sentivo così persa e fuori controllo, come una nave errante che sbagliava la rotta e iniziava un percorso tortuoso che non assicurava a nessun passeggero di raggiungere la destinazione illeso. Anzi, tutt'altro.
“Hai le stelle negli occhi” dissi semplicemente, sorridendo come una bambina.
Andreas si piegò su di me, fino a raggiungermi. Mi guardò negli occhi e immaginai la povera nave sballottata qua e la dal vento impulsivo.
Con il suo volto a una spanna dal mio, acchiappò una ciocca che si era liberata dalla mia coda e la trascinò dietro al mio orecchio con le dita timorose, senza rompere il contatto visivo.
“Io credo che tu abbia solo visto il tuo riflesso”.
Mi stavo innamorando di lui.
E credevo che lui si stesse innamorando di me.
E l'amore non mi sembrava quella cosa pericolosa di cui mi parlavano tutti.









 
   
 
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