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Autore: Kim WinterNight    26/03/2016    4 recensioni
«Ciao, cari lettori.
Mi presento: mi chiamo Albertina, per gli amici Berty. Ho quindici anni e vivo in Italia, precisamente in un paese fittizio che chiamerò… mmh… Bettola town.
Okay, lo so, il nome può sembrare buffo e non attinente al nostro caro Stato Italiano (Repubblica fondata sul Lavoro e bla bla bla), ma sfido chiunque a trovare un nome migliore di questo!»
Spero che la storia vi piaccia.
Non sono solita scrivere comici, però per queste vicende sono davvero ispirata e ho preso spunto da un sogno che ho fatto recentemente.
NOTE: tutti i personaggi sono di mia modesta invenzione e qualsiasi riferimenti a luoghi o persone è puramente casuale.
Genere: Demenziale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Qui e adesso





Sono ferma davanti alla porta della mia stanza, Checco mi osserva con un'espressione indecifrabile.

Non è facile capirlo, certe volte. Eppure adesso vorrei proprio poter entrare nella sua testa, comprenderlo, perché non so proprio cosa aspettarmi. Ammesso e non concesso che ci sia qualcosa da aspettarsi.

«Cosa dobbiamo fare?» sbotto, non potendone più di questo silenzio assordante. So che magari può sembrare paradossale, ma mi sento oppressa da tutto questo. Non capisco perché.

«Niente» ribatte Checco senza battere ciglio. Sembra essere indifferente a tutto, ma ci dev'essere qualcosa sotto quella maschera di noncuranza che mi sta mostrando.

«Mia madre ha voluto...»

«Mandarci qui, lo so. Almeno sediamoci allora» conclude, poi spinge la porta della mia stanza ed entra senza che io gli abbia dato il permesso.

«Scusa!» protesto, afferrandolo con impeto per il polso.

Checco mi ignora e prosegue, strattonandomi. Pur di non lasciargli fare quello che vuole, lo seguo e sbatto la porta.

Riesce a liberarsi dalla mia presa e si accomoda sul letto. Per fortuna Maria Vittoria mi ha obbligato a rifarlo stamattina, altrimenti sarebbe disgustoso vedere quel tipo seduto sulle mie lenzuola. Non capisco cosa voglia, perché ci tenga tanto a conquistare ulteriormente la fiducia di mia madre.

«Ascolta... possiamo parlarne. Ci inventiamo che hai un impegno e te ne vai, cosa ne pensi? Diciamo alla pazza che ti hanno telefonato da casa...» faccio, cercando una soluzione equa per entrambi.

«Per me è indifferente, posso stare tranquillamente qui a riposare, non ho niente da fare» mi interrompe, per poi sdraiarsi comodamente sul materasso e fissare il soffitto, con le braccia incrociate dietro la testa.

Questa cosa mi fa irritare tantissimo, come si permette di fare come se fosse a casa sua? Razza di deficiente decerebrato, vorrei veramente dirgliene di tutti i colori, ma non voglio che mia madre ci senta litigare. È una ficcanaso, sono certa che stia in agguato con le orecchie tese ad aspettare che le giungano i rumori del nostro accoppiamento, cosa che sembra aspettare come se dovesse essere lei a viverlo. Che strazio!

«Per favore, Filippo! Mi stai disturbando. È meglio se vai a casa, il teatrino è durato abbastanza» replico con tono rassegnato. Non ne posso più, ormai possiamo parlarci chiaramente e non c'è più bisogno di fingere.

«Voglio restare.»

Questo è troppo. Ma chi si crede di essere? Oggi non ho voglia di scherzare, né di discutere con gente che non capisce un accidente. Devo assolutamente cacciarlo di casa prima che succeda il finimondo.

«Spiegami perché mai dovresti volerlo!»

«Ti piace scappare, vero Albertina?»

La domanda mi coglie alla sprovvista e gli lancio un'occhiataccia. Questo non ha nessuna attinenza con il discorso che stavamo facendo, e non ho neanche capito a cosa si sta riferendo. Io non scappo, sono qui, è lui che tra poco dovrà scappare se non vuole che lo scaraventi giù dalla finestra, infischiandomene di ciò che penseranno i miei.

«Ti piace scappare dalle situazioni, piuttosto che affrontarle. Questo non fa di te una persona matura, non ti rende migliore, non ti rende forte come vuoi dimostrare» prosegue, ignorando la mia faccia stranita. Del resto non mi sta neanche osservando, intendo com'è a esaminare le crepe del mio soffitto. È un grandissimo maleducato.

Oltre a questo, non posso pensare all'eventualità che abbia ragione. Sta parlando a vanvera, sta dicendo un mare di cazzate e continua a stazionare sul mio fottuto letto e io non lo sopporto più.

Stringo i pugni e glielo dico: «Stai parlando a vanvera, non ti sopporto più».

«Non è questo che conta. Fingi, fingi sempre Albertina. Io non sopporto te, perché so che ti sei costruita un personaggio, indossi una maschera ogni giorno della tua vita. Credi di essere intoccabile, pensi di essere superiore a qualsiasi tipo di sentimento ed emozione vagamente umana. Ma credi di venire da Marte per caso? Sei esattamente come tutti gli altri, mettitelo in testa» mi gela lui, continuando a non guardarmi.

Non ci posso credere, lui sta dicendo a me queste cose? Ma come osa? Non ho parole. La cosa più grave – anzi, che dico, la cosa gravissima! – è che sento, da qualche parte dentro me, che lui ha ragione, ma non capisco perché mi stia rendendo conto di queste cose solo ora, solo adesso che lo osservo disteso sul mio letto e vorrei spingerlo via, ma allo stesso tempo sento montare in me qualcos'altro... qualcosa a cui non sono disposta a dare un nome, né tanto meno ad accettare.

Mi avvicino al mio giaciglio e mi decido a catturare il suo sguardo, perché voglio comprendere se sta dicendo sul serio o se mi sta prendendo per il culo. Quasi quasi spero che sia la seconda, così potrei semplicemente mandarlo al diavolo e sbraitargli contro – ormai non me ne frega più niente di mia madre, che ci senta pure gridarci contro –, ma nei suoi occhi chiari e fin troppo limpidi leggo soltanto sincerità. Ci fissiamo per un po' e quel qualcosa continua a tormentarmi, mentre le mani prendono a tremarmi e per nasconderlo le nascondo dietro la schiena.

«Stai perdendo tempo Filippo» mormoro mentre continuo a fissarlo, del resto non riesco a fare altrimenti – cazzo!

Albertina, riprenditi! Smettila subito!

Filippo, d'improvviso, solleva un braccio – non tanto all'improvviso, in effetti, a me però sembra che tutto accada in fretta e furia, dato che non ho il coraggio di muovermi o reagire in nessun modo e mi afferra saldamente il mento, costringendomi a guardarlo ancora un po', a fare proprio quello che non vorrei fare assolutamente, per nessun motivo al mondo.

«Non penso, sai? Ora hai uno sguardo così smarrito e dolce... cosa ti succede?» mi dice, mentre le sue labbra si inarcano in un sorriso quasi compiaciuto. Ha un'espressione strana, non sopporto di vederla e di averla così vicina, quella faccia da schiaffi. Perché è compiaciuto? Maledizione, non c'è niente di cui compiacersi, razza di idiota!

Adorabile idiota, mormora qualcosa dentro di me.

Mi rendo conto che sto trattenendo il fiato e che la pelle su cui le sue dita sono posate brucia in maniera impressionante, non è possibile e concepibile!

Finalmente riesco a ritrarmi, o almeno ci provo: sollevo il viso e faccio per indietreggiare, ma lui con un gesto fulmineo mi afferra per le braccia e in un batter d'occhio mi ritrovo distesa sopra di lui, con gli occhi sgranati – cazzo, mi fanno quasi male tanto li sto spalancando – e il viso premuto contro la sua spalla.

Merda, merdaccia schifosa! Devi alzarti, devi sollevarti subito, subito, subito! Albertina...

Poi le sue braccia mi avvolgono come se niente fosse, come se fosse una cosa normale e naturale, come se l'avesse sempre fatto e quella non fosse una novità. Rimango immobile, ancora una volta, e allora il suo odore mi invade i sensi e non ho più tanta voglia di andarmene da lì.

No, cosa cazzo sto pensando? Non è da me, non sono assolutamente io questa, questa... questa cretina in brodo di giuggiole! Porca puttana, devo fare qualcosa.

«Cosa stai facendo?» biascico. Non ho assolutamente la forza di gridare, di ribellarmi, di spingerlo via e dirgliene di tutti i colori. Sono una rammollita, sono diventata una fottuta rammollita e sembro Tita quando è insieme a Gabri. Che vergogna!

Io non sono così.

«Non sei così... come?» mi sento chiedere dalla voce preoccupata di Checco.

Merda, l'hai detto ad alta voce, razza di stupida imbecille!

«Dicevo così, per dire... non... non lo so» borbotto, senza sapere effettivamente cosa rispondere. Non ci sto assolutamente capendo niente, ma niente di niente! Cazzo, devo alzarmi.

Adesso.

«Bene, il teatrino è finito» comincio a dire, posando i palmi delle mani sul suo petto. Poco prima di riuscire a tirarmi su, lo sento: un rumore fottutamente familiare, uno di quei suoni che riconoscerei ovunque e che immediatamente mi afferra alla bocca dello stomaco e mi fa rivoltare qualunque cosa si trovi al suo interno. Non è possibile, non è concepibile, mi sto sentendo male, mi sento male, mi sento male...

«No, cazzo» impreco tra i denti.

«Albertina, cosa...»

«Stai zitto!» sibilo. Poi ci ripenso e aggiungo: «No, parliamo!».

Mi sollevo finalmente da lui e mi pare quasi che manchi qualcosa, non riesco a collocare questa strana sensazione, eppure c'è e non posso ignorarla.

«Vuoi parlare? Ti sei decisa allora?»

No, deficiente, è solo che tu non devi sentire quello schifo, non devi assolutamente!

«Ah, sì! Dai, mettiamo su un po' di musica... ti va di ascoltare...» Balzo giù dal letto e mi guardo intorno mentre il rumore aumenta, mi sembra assordante, insopportabile. Individuo il CD dei Rage Against The Machine che ho preso in quel negozio tempo fa, l'avrò ascoltato già duemila volte. «Questo?» aggiungo, sventolandolo in direzione di Checco.

Lui intanto si è messo a sedere e mi sta guardando con aria interrogativa ed espressione confusa, come se avessi appena detto qualcosa di inaudito, incredibile e fuori luogo.

Mentre armeggio con il disco, quel rumore mi assorda e improvvisamente so con certezza che anche Checco lo ha udito, forte e chiaro. I suoi occhi si scontrano con i miei e vi leggo qualcosa di simile alla compassione. No, forse alla comprensione?

«Io... mi... mi dispiace...» balbetto, mentre sento mia madre e mio padre che scopano nella stanza accanto e i loro gemiti sono una tortura per le mie povere orecchie.

Questa è la figura di merda più grossa della mia vita. Io li sento sempre, ma come hanno potuto farmi questo? Come hanno potuto mettersi a fare porcate mentre in casa c'è un ospite, il quale dovrebbe in teoria essere il mio ragazzo? Loro credono e sanno questo, anche se in realtà non è così. Però Filippo è un ospite, un estraneo, lui non c'entra niente con queste cose.

Le mani mi stanno tremando, sono costretta ad appoggiare il disco sulla scrivania se non voglio che cada per terra e si sfasci. Non potrei permettere ai miei genitori di rovinare anche questo.

«Albertina, sono i tuoi genitori...?» mormora come se avesse paura che qualcuno lo senta.

Non dico niente, non credo sia necessario. Mi viene da vomitare, sento quasi l'impellenza di correre in bagno e rimettere tutto quello che ho buttato giù durante il pranzo.

Sono in piedi in mezzo alla stanza e, nel silenzio che è calato, sento i gemiti di quei due maiali perdersi nell'aria, fino a scomparire del tutto tra le pareti sottili della nostra casa.

«Dai, metti un po' di musica. Quello va benissimo» mi sollecita Filippo, sollevandosi dal mio letto e avvicinandosi pericolosamente a me. Penso che voglia nuovamente toccarmi, invece afferra il disco e lo sistema nel lettore che sta sulla scrivania. Anche lui si è accorto che sono praticamente paralizzata e non riesco neanche ad agire come dovrei.

Bombtrack parte con tutta la sua energia, e non appena la musica mi scuote mi ritrovo a tremare e le sensazioni tornano a invadermi, scuotendomi pericolosamente.

Filippo sembra accorgersene e mi raggiunge, afferrandomi per le spalle e cercando di farmi reagire.

«Non ti ho mai visto così, Albertina. Non pensavo soffrissi tanto» dice.

E come potrei dargli torto? Neanche io sapevo di essere in queste condizioni! Cazzo, com'è possibile? Io so benissimo che questa cosa dei miei che lo fanno sempre inibizioni mi fa schifo ed è insopportabile, ma non ha niente a che vedere con quello che sto provando adesso. Raccontarlo a Tita e i miei amici è un conto, ma trovarmi in questa situazione insieme a Filippo... no, non posso farcela.

«Non so che fare» riesco solo a dire. Sto vivendo una lotta interiore, un qualcosa che mi fa veramente rabbrividire fino in fondo.

Lui si guarda intorno, scuote leggermente il capo e poi mi attira nuovamente a sé. Mentre la musica riempie la stanza e non sento più quei rumori schifosi, mi sento meglio e mi lascio inspiegabilmente andare tra le sue braccia, ricambiando la stretta. Per la prima volta non oppongo resistenza, neanche mentalmente. È quello il posto dove voglio stare adesso, sono troppo scossa per affrontare tutto da sola.

Poi dopo si vedrà, ci sarà un altro luogo dove rifugiarmi come ho sempre fatto. Chiamerò Tita, forse Giaco, uscirò a fare un giro e a prendermi un gelato con loro, ma adesso sono qui e non sento la necessità di andarmene.

Forse non è una situazione romantica, non è una cosa da me, però sento che Filippo, qui e ora, è l'unica persona in grado di capire come mi sento senza giudicarmi, perché ha vissuto con me quest'orrore e ha potuto osservare la mia reazione.

Il futuro è incerto, ma ora non ha poi tanta importanza.

  
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