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Autore: _Gia    03/04/2016    4 recensioni
Vedo i suoi occhi azzurri invasi dall'oscurità delle iridi avvelenate, i muscoli del suo corpo muoversi spasmodici conto il vetro che ci divide, quasi a volerlo buttar giù con il suo peso. Solo quando realizzo tutto ciò, il mio corpo avverte l'impulso di scappare, di voltargli le spalle e correre verso la tranquillità che le mie lenzuola concedono. Eppure il mio corpo resta lì, ancorato a quella mattonella, immobile in quello spazio di fronte al vetro, perché è dai nemici che si scappa, e io mi rifiuto di pensare a Peeta come un nemico.
[ During!Mockingjay - Everlark - Katniss!centric - 1.471 parole]
Genere: Angst, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Veleno nei tuoi occhi


Il mondo sta mutando, così come tutto intorno a me.
Le cose si trasformano, le persone cambiano, le situazioni si svolgono, lasciando ovunque tracce della loro continua ed inevitabile trasformazione. Lo vedo ovunque, il loro cambiamento, anche nelle cose che pensavo non avrebbero mai smesso di essere com'erano sempre state.
Lo vedo in mia sorella Prim, così cresciuta dalla mietitura, sbocciata come un candido fiore primaverile nonostante intorno abbia sempre avuto un terreno sterile, arido. Lo noto nella pallida epidermide di Effie, nel suo sguardo impaurito, smarrito; la spensieratezza, l’allegria, la vivacità di cui i suoi occhi brillavano, non è che un flebile ricordo, una fugace ombra sostituita da lacrime perenni incapaci di manifestarsi, mentre Haymitch – cambiato o manifestato che sia il suo sentimento – la guarda con tenerezza inespressa. Lo  scorgo persino nell’aria claustrofobica che si respira qui sotto, così angustiante da darmi la sensazione di essere già morta.
Mi alzo dal mio lettino d'ospedale, un doppio collare a fasciarmi lo snello e deturpato collo.
Persino la mia voce è cambiata, ridotta ad un sussurro strozzato a causa delle mie tonsille ingrossate; i segni della lotta sul mio corpo a ricordarmi il cambiamento più radicale di tutti. 
Lotto per mantenere una posizione eretta, portandomi le mani alla gola come a volermi strappare via quel peso ingombrante, per poi lasciare la mia stanza, a passo lento e titubante; i piedi nudi sul freddo pavimento, la sensazione di essere perennemente stordita, sedata, e mi rendo conto che forse è proprio così. 
Le gambe stanche, mosse da qualche spasmo, mentre mi avvio piano verso l'ultimo luogo che giorni prima aveva visto il mio attacco, giungendovi e trovando a farmi compagnia solo il lieve rumore dei macchinari, attutito dagli spessi muri che dividono la stanza dal resto dell'ambiente.
Attraverso il vetro spesso, pulito, due iridi azzurre mi fissano arcigne.
Il viso troppo scarno, gli occhi infossati iniettati di sangue, gli zigomi troppo evidenti, di chi negli ultimi tempi è cambiato fin troppo - per colpa mia.
A quel pensiero, un brivido di terrore mi scuote per intero, mentre il mio animo sporco riprende a tormentarmi, mentre - in una mossa azzardata - una mano esile si poggia sul vetro che ci separa, saggiandone la freddezza. Avvicino il volto, come a voler scorgere meglio i dettagli di quel viso nuovo ma al contempo familiare come pochi, vedendo il mio fiato pesante infrangersi sulla parete trasparente che mi sta di fronte, appannandola appena. 
Sopracciglia scompigliate, sottili, corrucciate su un viso che è lo specchio del malessere; gli occhi strabuzzati di chi sta assistendo ad un'apparizione paranormale.
Studia i miei movimenti, scrutandomi immobile in quella stanza il cui odore di candeggina sembra palpabile persino dall'esterno; fisso i miei occhi nei suoi - grigia e pesante ancora in un cristallino mare di emozioni -, scorgendovi ansia, paura, odio
Restiamo a fissarci, nel mio stomaco un sentimento di angoscia si fa largo, nel momento in cui il suo sguardo cagnesco - in netto contrasto con la tenerezza sopita che giace nei suoi occhi - si insinua in me come un'innegabile verità. 
Nel totale silenzio in cui l'ambiente è immerso, il rumore dei macchinari sembra quasi assordante; nel bianco candido della stanza, la vena ingrossata sul collo esile e scarno di Peeta sembra poter quasi esplodere, le scure iridi dilatate, in contrasto con tutto quel candore che aveva intorno.
Vedo il suo corpo iniziare a muoversi spasmodico, come se qualcosa iniziasse ed entrare in circolo nel suo corpo - e nel suo cuore. Le gambe si muovono furiose, sotto le bianche ed immacolate lenzuola che le coprono, la bocca si contorce in un ghigno di dolore, mentre dalle labbra un grido soffuso sovrasta il rumore dei macchinari. 
Piccola foglia autunnale scossa dal forte vento, messa a dura prova su quegli alti rami che costituiscono la sua vita; se non resistere, l'alternativa è cadere.
Il suo torace si alza e si abbassa ritmicamente, nell'esalare i respiri che lo scuotono per interno. Il lamento si trasforma in un urlo strozzato; la saliva a lambirgli gli angoli della bocca. Si dimena, tirando ciò che lo tiene attaccato al letto, urlandomi contro senza che i suoi occhi lascino i miei.
Lo guardo, in quello stato che sa di sconfitta, mentre la sua immagine deviata si sovrappone al ricordo di un affamato ibrido dalle sembianze canine, di quelli che fino alla Cornucopia mi avevano tormentata con la loro fame, con la loro sete di sangue – del mio sangue – che adesso posso scorgere anche in Peeta, nella persona che, quegli ibridi, mi ha aiutato a combatterli, non solo nell’Arena ma anche nelle notti a seguire, quando mi tornavano alla mente nei miei sogni vividi e di una palpabile realtà.
Uno strappo, e lo vedo avventarsi contro lo spesso vetro, dall’altra parte rispetto a quella a cui io mi appoggio paralizzata, il suo corpo scarno e deturpato schiacciato contro il freddo muro trasparente che ci divide, che segna la differenza tra la mia vita e la mia morte.
Troppo sconvolta per compiere qualsiasi azione o movimento, resto immobile dinanzi a quello straziante teatro; il fiato di entrambi contro il vetro, ad unirsi, le sue lacrime e la sua saliva a lasciarvi sopra aloni, in  contrasto con la pulizia impeccabile di cui prima brillava.
Vorrei urlare, correre, lasciarmi alle spalle la dolorosa visione del cambiamento, rintanarmi sotto le coperte del mio candido ed immacolato lettino d’ospedale, lasciando che la mia mente si riempia della melodia che mio padre era solito cantarmi nelle fredde notti d’inverno, quando i tuoni risuonavano nell’aria ed il vento forte sbatteva contro le finestre, donando ombre sinistre alle mie notti, donandomi un senso di incontrollabile paura che anche adesso si sta insinuando in me.
Eppure, l’unica cosa che riesco a fare, l’unica azione che la mia mente provata riesce a farmi compiere, è quella di ritrarmi dal vetro rimanendo inanimata a pochi centimetri da esso, guardando inerme l’effetto del veleno in circolo nelle vene di Peeta . I suoi occhi azzurri invasi dall'oscurità delle iridi avvelenate, i muscoli del suo corpo si muovono spasmodici contro il vetro che ci divide, quasi a volerlo buttar giù con il suo peso. Solo quando realizzo tutto ciò, il mio corpo avverte l'impulso di scappare, di voltargli le spalle e correre verso la tranquillità che le mie lenzuola concedono. Eppure il mio corpo resta lì, ancorato a quella mattonella, immobile in quello spazio di fronte al vetro, perché è dai nemici che si scappa, e io mi rifiuto di pensare a Peeta come un nemico. 
Le sue movenze non hanno reazione fisica su di me, ed è come se il veleno se ne accorgesse, perché in poco tempo vedo le sue iridi azzurre tornare a troneggiare nei suoi occhi, il suo urlo trasformarsi in un pesante respiro affannato, il corpo fermarsi in una curva e tremante posizione eretta. 
Deglutisco, e con mano tremante l'avvicino al vetro, appoggiandola piano ed imprimendo su esso la sua piccola forma. Eppure, se in qualche modo avevo anche solo pensato di poter vedere la sua mano premuta contro la mia - con solo il vetro a dividerle fisicamente -, tutte le mie aspettative, le mie speranze, vengono brutalmente abbattute nel momento in cui l'unico movimento che compie verso di me è quello di girarsi, l'unica vista che mi concede è quella delle sue spalle, intente a retrocedere verso il suo lettino; lo sguardo sconvolto, tenuto basso, il respiro ancora pesante, il corpo scosso da tremiti e spasmi. Non mi degna di uno sguardo – totale indifferenza nei suoi occhi - ed è in quel momento che inizio a correre. Mi volto e corro via, sfrecciando tra i vuoti corridoi che mi separano dalla mia stanza, sentendo il mio passo leggero rimbombare tra le mura deserte che attraverso. Il cuore martellante, le lacrime a pungermi gli angoli degli occhi, prima di cadere copiosamente e solcarmi le guance pallide e scarne, bagnandomi di acqua salata le labbra improvvisamente secche, aride. 
Perché non è solo dai nemici che si scappa, ma anche da ciò che ti fa male, che ti ferisce, che ti lacera dentro. 
Mi infilo sotto le coperte, sentendo il fruscio delle lenzuola sotto il mio corpo, saggiandone la freschezza e la morbidezza; la testa sul cuscino, l'orecchio " buono " poggiato su di esso, mentre ancora una volta lo stupore di continuare a sentire mi sorprende. 
Chiudo gli occhi, lasciando che il buio mi divori, mentre nella mente la melodia cantata più volte da mio padre in quelle sere temporalesche allevia il dolore dell'accaduto, del cambiamento, cullandomi nel sonno in cui ripromisi a me stessa di dimenticare, di non lasciare che nessuno scoprisse quell'incontro finito male. Perché non importa quanti ancora ne farò, finché non sarò riuscita a vedere Peeta - il vero Peeta - ogni tentativo sarà sempre e solo il primo dei tanti.

 
   
 
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