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Autore: Halley Silver Comet    05/04/2016    3 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 16



- Capitolo Sedicesimo -
Vento di Avversità




L’
invitante profumo dei cornetti caldi proveniente dal corridoio aveva ormai saturato l’aria del suo ufficio, ma il commissario Molinari lo ignorò con stoica fermezza: aveva confidato a sua moglie la volontà di mettersi a dieta (nonché di limitare i caffè giornalieri) ed intendeva onorare la sua parola.
Così, con l’intenzione di arginare la tentazione, chiuse la porta ed aprì la finestra - nonostante fossero le undici di sera - per far cambiare l’aria, riaccomodandosi nella sua postazione, proprio nel momento in cui squillò il telefono.
L’uomo girò immediatamente la testa in direzione dell’apparecchio e lo guardò in cagnesco, non volendo essere disturbato in quel momento precario; tuttavia, poiché non poteva ignorare una chiamata sul posto di lavoro e, sopratutto, doveva essere d’esempio per i suoi sprovveduti sottoposti, che avevano deciso di alleggerire il turno di notte con una retata ad una cornetteria notturna, decise di sollevare il ricevitore.
«Qui Molinari!»
Dall’altro capo del telefono, rispose una voce piuttosto concitata: «Commissario, c’è in linea Tonelli dal San Camillo, ecco, riguarda Martínez... sembra urgente!»
«Passamelo subito, Pontori!» ordinò il commissario, spostando la cornetta all’orecchio sinistro, per lasciare libera la mano destra per scrivere, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Poi, altrettanto rapidamente, afferrò una penna dal portapenne davanti a sé ed aprì il bloc-notes ad una pagina pulita.
Fu messo in attesa e, quando il segnale telefonico tornò, non perse tempo per abbaiare: «Saverio, cosa c’è?»
«Commissario, deve venire subito, il magistrato è stato già avvisato!» farfuglò il ragazzo.
«Il magistrato?» domandò, stranito l’uomo.
Socchiuse appena gli occhi, insospettito da quello stato di estrema agitazione che sembrava essersi impossessato dei suoi agenti. Cosa mai poteva essere accaduto di così preoccupante?
«Saverio, non farmi perdere tempo e pazienza e spiegati una buona volta!»
Quello, allora, proseguì concitato: «Non sappiamo come sia potuto succedere! Noi eravamo qui, ci siamo dati sempre il cambio, come aveva detto lei...» 
Molinari sbuffò, picchiettando con forza la punta della penna sul foglio.
«Insomma! Vuoi parlare, sì o no?»
«L’abbiamo piantonato giorno e notte, perciò nessuno potrebbe essere riuscito ad entrare senza essere visto, eppure, poco fa, quando l’infermiera è entrata per cambiare la medicazione...»
«Tonelli, basta! Esigo che tu mi dica subito cosa diavolo stai farneticando!» tuonò, a quel punto, il commissario, alzando la mano che stringeva la penna, la quale, nell’udire finalmente cosa era successo, gli scivolò dalle dita, cadendo a terra.
***

La sedia su cui l’aveva fatta accomodare uno degli agenti che già aveva visto in passato era tutt’altro che confortevole. O, forse, era lei ad essere talmente agitata da non riuscire a trovare una posizione comoda.
«Andrà tutto bene» le disse Marcello, stringendole la mano che teneva appoggiata sulle ginocchia.
Beatrice, allora, sospirò ed annuì, non del tutto convinta: di brutte notizie e di essere costantemente sotto scacco, ne aveva davvero le tasche piene. Perché mai il questore l’aveva convocata? Pensava che non avesse detto tutto, quando la polizia l’aveva liberata? Eppure, non aveva niente di nuovo da aggiungere, giacché, per fortuna, non aveva più avuto modo di rivedere Navarra e i suoi scagnozzi dopo ciò che era accaduto.
Subito dopo, il poliziotto di prima uscì dalla porta di uno degli uffici che si affacciavano sul corridoio e si diresse verso di lei con passo fermo.
«Signorina Tolomei, la prego di seguirmi» le ordinò, con una nota dolce nella voce.
Lei scattò immediatamente in piedi, come se la sedia fosse di colpo diventata bollente.
«Certamente» disse, con un filo di voce, per poi voltarsi verso Marcello in cerca di supporto.
«Ti aspetto qui» le sussurrò lui con dolcezza, mentre le lasciava andare la mano, anche se Beatrice avrebbe preferito che non l’avesse fatto. Perché non poteva andare con lei? Che male ci sarebbe stato a far assistere anche il suo fidanzato all’interrogatorio? Non avrebbe potuto inficiarlo in alcun modo, ma, probabilmente, la sua presenza sarebbe stata semplicemente contraria al protocollo.
«Prego, mi segua: il commissario e il questore la stanno aspettando» la incalzò Sabatini, indicandole con il braccio teso la direzione da seguire.
Rassegnata, Beatrice rivolse un ultimo sguardo al giovane e, trattenendo il fiato, si accinse a seguire il poliziotto.
***

Molinari stava picchiettando nervosamente il tappo della penna contro il ripiano della sua scrivania, tenendosi il mento stretto tra due dita della mano sinistra, fuori di sé per quello che si era verificato la notte precedente e per i dettagli in merito che Tonelli gli stava riferendo proprio in quel momento.
«Il decesso è stato stimato intorno alle due di questa notte o, almeno, così ha detto il medico legale» disse il ragazzo, leggendo gli appunti che aveva preso poco prima di lasciare l’ospedale.
«Sospetti sulle cause della morte?» chiese, allora, il questore, riversandosi all’indietro e mettendo in tensione lo schienale della sedia girevole imbottita su cui era seduto, facendola cigolare all’istante.
«Dalle primissime analisi che sono state fatte, risulta esserci una quantità anomala di potassio nel sangue».
«E questo cosa dovrebbe significare?» latrò Molinari, sentendosi sempre più irrequieto. Quel caso si stava complicando sempre di più! Ne avrebbe mai visto la fine?
Felipe Martínez era morto in circostanze ancora tutte da verificare e ciò non aveva fatto altro che aggiungere altra legna ad un fuoco che si alimentava già da sé, poiché, riguardo al caso Navarra, le perplessità e le domande superavano di gran lunga le certezze. E ora che anche l’unico testimone diretto era stato ridotto al silenzio, con molta probabilità, proprio per evitare che spifferasse qualcosa che non avrebbe dovuto, la situazione non avrebbe potuto far altro che peggiorare.
«Da quello che ho scoperto, commissario, il potassio, in determinate quantità, porta all’arresto cardiaco. È utilizzato soprattutto in cardiochirurgia1» snocciolò l’agente, fiero del livello di approfondimento delle proprie ricerche. «Comunque, il medico legale ha detto che ha bisogno di più tempo per fornirci un quadro più preciso».
«Vorrà dire che aspetteremo. Tuttavia, mi sembra sia evidente già da ora che bisogna indagare nell’ambito del policlinico» disse il dottor Saltarini. «Tonelli, questa è la lista di tutto il personale che era di turno questa notte?» aggiunse, sollevando davanti a sé un foglio A4 battuto a macchina.
«Sì, dottore».
«Molto bene, gli daremo un’occhiata non appena finiremo di interrogare la ragazza. Cosa ne pensa, Molinari?»
L’uomo lanciò la penna sulla scrivania, incurante di farsi vedere mentre perdeva le staffe da un suo superiore, e si alzò in piedi.
«Sono assolutamente d’accordo» fece, muovendo qualche passo per smaltire il nervosismo, ma, proprio in quel momento, qualcuno bussò alla porta.
«Questo deve essere Sabatini. Saverio, fai accomodare subito la signorina Tolomei» ordinò, quindi, perentorio il commissario.
Saverio non se lo fece ripetere due volte ed aprì la porta, lasciando che Beatrice, scortata dall’agente che l’aveva accolta, entrasse nella stanza. Poi le sorrise piuttosto impacciato, ma lei gli riservò un’occhiata commiserevole e passò oltre, facendo scuotere la testa al commissario: era proprio un caso disperato.
«Buongiorno, signorina, come sta?» chiese subito il questore, gioviale, alzandosi dalla sedia girevole e tendendole la mano.
La ragazza la prese e, stringendola timidamente, rispose con un flebile Bene, grazie, dopo di che accolse l’invito a sedersi, mentre i due agenti più giovani si congedavano con un gesto di rispetto ed uscivano dall’ufficio.
«Signorina Tolomei, le presento il dottor Saltarini» esordì Molinari, indicando l’altro: era sicuro che la ragazza l’avesse già capito, ma doveva comunque attenersi ai formalismi.
L’uomo le sorrise rassicurante, tuttavia la fanciulla non accennò a voler abbandonare l’espressione tesa che trapelava dal suo volto.
«Ora, so che non deve essere piacevole per lei, ma... dovrebbe ripeter al dottore tutto ciò che ricorda del suo sequestro» riprese il commissario, cercando di mantenere un tono neutro per non agitarla; ciononostante, la vide sussultare.
D’altra parte, come non comprenderla? Solo lei sapeva che inferno doveva aver passato in quei momenti e, certamente, la ragazza avrebbe preferito dimenticare tutto, anziché riportarlo alla mente, ma la burocrazia imponeva che fosse sottoposta a quell’ennesima tortura.
«Durante la prigionia, non ha mai sentito parlare Navarra e i suoi complici di terzi con cui erano in contatto?» le chiese, con calma, cercando di essere chiaro.
Lei ci rifletté un attimo, socchiudendo gli occhi e serrando le labbra, poi rispose: «No, non mi pare. Anche se... oh, sì, ora che ci penso li ho sentiti parlare di un certo lui».
«Un certo lui?» ripeté Molinari, corrugando la fronte.
Beatrice annuì e aggiunse, convinta: «Sì, ma non ho idea di chi potesse essere, non l’han mai nominato con precisione».
Sorpreso dalla rivelazione, l’uomo si voltò allora verso il questore e i due si scambiarono un’occhiata circospetta.
«Signorina, è sicura di non ricordare altro? Vede, ieri notte siamo stati informati che Martínez è stato assassinato, pertanto ogni dettaglio ci potrebbe essere utile» insistette il commissario.
«A-Assassinato?» balbettò la ragazza, sgranando gli occhi per la sorpresa. Li guardò entrambi e poi divenne improvvisamente pallida.
Nel vedere tale reazione, Saltarini non perse tempo e si alzò in piedi, avvicinandosi a lei.
«Signorina Tolomei, sta bene?» le chiese, preoccupato. «Le faccio portare un bicchiere d’acqua?»
«N-No, grazie. È solo c-che...» balbettò lei, destabilizzata, portandosi una mano davanti alla bocca.
«Oh, no, no, non deve scusarsi, si figuri» si affrettò ad aggiungere l’altro, visibilmente preoccupato per lei.
«Ora capisce perché è importante che ci riferisca ogni dettaglio?» la incalzò, invece, Molinari con veemenza.
«Sì,» rispose Beatrice, in stato di evidente agitazione, «ma io davvero non so che dirvi di più! Ho ripreso conoscenza solo la sera ed il mattino dopo mi avete liberata, non ricordo altro!»
Non ne poteva davvero più di rivivere quegli attimi di puro terrore ed ebbe paura che quei due avrebbero insistito ancora, sperando di cavarle qualcosa che, però, lei non era veramente in grado di riferire.
Fortunatamente, a quel punto, il questore si arrese e, con fare paterno, la rassicurò, dandole due o tre pacchette sulla spalla: «Va bene, basta così, stia tranquilla».
Quindi, si rivolse al suo sottoposto: «Commissario, mi sembra evidente che questa povera ragazza non sappia nulla che possa esserci utile, perciò propongo di rimandarla a casa».
«Ma, dottor Saltarini, non...»
«Suvvia, Molinari! Credo che l’unica cosa che voglia fare la signorina Tolomei ora, sia dimenticare questa brutta avventura, giusto?» le domandò, con inaspettata dolcezza, ma Beatrice annuì appena.
«Può andare, signorina, la ringraziamo per essere stata a nostra disposizione».
La fanciulla, allora, si alzò, tentennando, ma, non vedendo l’ora di uscire, si ricompose rapidamente e si affrettò a raggiungere la porta, oltrepassandola e augurandosi di non dover far più ritorno in quella stanza.

«Dottore, perché ha congedato la ragazza? Non pensa che avrebbe potuto darci altri indizi per scoprire qualcosa?» chiese Molinari, quando quella si chiuse la porta alle spalle, guardando dubbioso il suo superiore, giocherellando nervosamente con la matita, facendosela passare tra le dita.
Saltarini, però, scosse con energia la testa, avvicinandosi lentamente alla finestra.
«No, non credo, commissario. Di fatto, non sapeva niente di davvero rilevante ed io sono contrario a mettere in mezzo degli innocenti senza un valido motivo» spiegò. «Soprattutto, in storie torbide come questa».
Molinari smise all’istante di muovere la matita e si alzò, puntando le mani sul ripiano della scrivania.
«Dunque, lei sospetta che dietro ci sia qualcosa di veramente pericoloso?» avanzò, scrutando attentamente il questore, ma questo impiegò qualche secondo di troppo per rispondere, cosa che lo insospettì fortemente.
«Sinceramente, credo che sia ancora troppo presto per mettere tutte le carte in tavola» rispose, infine, l’altro, senza tradire una particolare emozione.
Il commissario assottigliò lo sguardo, ma non aggiunse altro, appuntandosi mentalmente di studiare meglio il comportamento del superiore in futuro, convinto che gli stesse nascondendo qualcosa di estremamente importante su quel caso.
D’altra parte, per quanto lui stesso trovasse disdicevole dover torchiare una povera ragazza di quasi diciannove anni, sapeva che era un elemento importante per la risoluzione del caso, essendo l’unica testimone che aveva avuto a che fare con lo spagnolo fino a pochi istanti prima della sua fuga. Perché Saltarini non aveva insistito un po’ di più?
«Comunque, la prego di tenermi informato, se la sua squadra dovesse mettere le mani su Navarra e i suoi complici. Voglio saperlo subito!» si raccomandò quello, raccogliendo i suoi effetti e prendendo il cappotto che aveva appeso all’attaccapanni, pronto per congedarsi.
«Come vuole, dottore» rispose Molinari, accennando appena un inchino.
***
«Eccoti, finalmente!» esclamò Marcello, incredibilmente sollevato, quando vide apparire nuovamente Beatrice dopo un’assenza durata appena mezz’ora. «Sinceramente, credevo che ti avrebbero trattenuta di più».
«Oh, il commissario avrebbe voluto, nonostante io non avessi proprio nient’altro da aggiungere a quanto già detto,» gli spiegò lei, invitandolo a seguirla fuori con un cenno della mano, «ma il questore l’è stato più clemente e m’ha lasciata andare».
Il giovane annuì e, poiché aveva a cuore la ragazza, sperò che davvero quella brutta questione si fosse risolta una volta per tutte. Infatti, commentò, seccato: «Mi auguro siano soddisfatti, adesso. Anche perché è il loro lavoro mettere insieme gli indizi e dare la caccia ai delinquenti!»
«Eh» sospirò lei, stanca. Poco dopo, però, parve riprendersi, tanto che suggerì: «Poiché abbiamo fatto presto, che ne dici di passare a salutare la signora Sofia? Vorrei tanto rivederla e son sicura che a lei farà piacere vedere anche te!»
Marcello rifletté per qualche secondo sulla proposta, nell’eventualità che avesse dimenticato qualche appuntamento importante della tarda mattinata, poi, essendo certo di non averne, la accolse positivamente. Così, i due si avviarono in silenzio verso il negozio.
 
Mentre passeggiavano, avvicinandosi sempre di più a Via del Corso, al ragazzo sorse un dubbio e ne rese subito partecipe la compagna: «Con gli esami di maturità alle porte, non credo che vorrai tornare a lavorare tanto presto, giusto?»
«Oh, no!» esclamò Beatrice, scuotendo il capo. «Mi dispiace veramente tanto, ma sarò costretta a spiegare alla signora che, ora, dovrò solo studiare. A dire il vero, non vorrei nemmeno approfittare ancora dell’ospitalità della Vittoria, ma non posso fare altrimenti».
«Stai tranquilla, Vittoria non bada a queste inezie,» la rassicurò lui, «anche perché non vivrai per sempre a casa sua, visto che, prima o poi...»
A quel punto, però, Marcello ammutolì di colpo, fermandosi appena prima di aggiungere “andremo a vivere insieme”.
Infatti, nonostante avesse le più serie intenzioni con lei, pensare al loro futuro insieme lo metteva ancora in agitazione, giacché non riusciva proprio a scrollarsi di dosso gli scrupoli che aveva a causa della differenza di età che c’era tra loro e perciò, finché ci sarebbe stato quell’ostacolo, sapeva bene che non avrebbe mai trovato il coraggio di chiederle di sposarlo.
Dal canto suo, la ragazza non sembrò fare caso a quell’interruzione e rispose con tranquillità: «Lo so, sono tutti gentili con me, ma devo trovarmi un piccolo appartamento in affitto, magari, in periferia, dove costan meno. O anche lì i prezzi sono alti?»
«Qualcosa di decente e ad un prezzo ragionevole si trova» commentò lui, cercando di avere un tono il più neutro possibile.
La fanciulla, allora, sorrise, riprendendo a camminare, e lui la seguì, pensando che, se fosse stato un po’ più intraprendente, molte cose sarebbero andate meglio.

Il familiare tintinnio della porta che si apriva fece sorridere Beatrice, la quale già si immaginava l’espressione sorpresa che le avrebbe riservato la signora Sofia, rivedendola dopo tanto tempo. E, in effetti, l’accoglienza della donna fu talmente festosa che le aspettative della ragazza non rimasero minimamente deluse.
«Oh, Beatrice! Sei proprio tu!» esclamò la sarta, congiungendo le mani e avvicinandosi rapidamente alla ragazza. «Come sono contenta che tu sia passata, fatti abbracciare!»
«Anche per me è un piacere, signora» rispose Beatrice, ricambiando l’affettuosa stretta della donna.
Quella, quando si distaccò, si soffermò per qualche attimo a scrutarla a fondo, probabilmente per cercare qualche segno esteriore che le desse informazioni sulla sua salute.
«Vedo che, tutto sommato, stai bene» commentò, infatti, poco dopo. Poi, gettò un’occhiata oltre la sua spalla e fece, contenta: «Oh, ti sei fatta accompagnare! Come stai, Marcello?»
«Abbastanza bene, grazie. Lei?» le rispose il giovane, accennando un sorriso.
«Bene, bene» replicò la donna, sorridendogli a sua volta e tornando a guardare la ragazza. «Mi sembra incredibile che tu sia di nuovo qui. Quando Gerardo è venuto a dirmi cosa ti era successo, ho creduto di morire di pena!»
A quelle parole, Beatrice assunse un’espressione mortificata: «Oh, mi dispiace averla fatta stare in pensiero».
«Non è certo colpa tua se quel lestofante ha deciso di rapirti» sentenziò, però, la sarta, scuotendo la testa. «Ti siamo tutti affezionati e anche Alessio e Valentina erano preoccupati per te. A proposito, saranno qui tra poco e penso che sarebbero felici di rivedervi entrambi!»
Anche i due ragazzi si mostrarono molto contenti di poter incontrare le due simpatiche pesti, pertanto si accomodarono sul divanetto che la signora Sofia aveva destinato al riposo delle clienti anziane in attesa del loro turno.
Quella mattina, però, il negozio era vuoto e la donna aveva appena finito di fare l’inventario dei nuovi filati appena arrivati, così Beatrice decise di approfittare di quel momento di calma per introdurre il discorso sulla sua forzata pausa lavorativa. Si scambiò un’occhiata con Marcello, il quale, avendo avvertito che la questione era nell’aria, annuì per esortarla ad esporre la sua situazione.
«Signora Sofia...» cominciò, tentennante, giacché temeva di passare per sfacciata, «vorrei chiederle una cosa».
«Dimmi pure, cara» la incoraggiò l’altra, sorridendole con il suo solito fare materno.
La giovane, allora, prese un bel respiro e decise di dire tutto insieme, per evitare di bloccarsi a metà: «Ecco, come sa, quest’anno devo sostenere l’esame di maturità e...»
«Hai bisogno di tempo per studiare e quindi vorresti assentarti per qualche mese dal negozio» l’anticipò, però, l’altra, con tranquillità, senza smettere di sorridere. «Dovevi chiedermi questo, per caso?»
Stupita, anche se non troppo, poiché la signora aveva sempre rivelato di avere un ottimo intuito, Beatrice fece segno di sì con la testa.
«Penso che sia giusto che ora ti dedichi allo studio» affermò la sarta, comprensiva. «Tra l’altro, i sei mesi di prova si concluderanno tra qualche giorno. Se poi vorrai tornare tra qualche mese, vedremo come aggiustarci, va bene?»
«Benissimo, direi» disse Beatrice, soddisfatta della proposta, perché sapeva che, durante i mesi estivi, avrebbe dovuto cercare un altro lavoretto per cominciare a mettere da parte qualcosa, se voleva davvero cominciare ad essere indipendente.
«Anche perché suppongo che, poi, vorrai iscriverti all’università e verresti comunque a lavorare solo per qualche pomeriggio a settimana, come hai finora».
Lì per lì, la ragazza rimase a bocca aperta, giacché non aveva mai pensato di poter intraprendere l’università: finché era stata tenuta sotto scacco dalle parenti, non aveva mai creduto che la zia le avrebbe pagato le tasse universitarie, ma ora, visto che era libera di poter scegliere, decise che avrebbe tenuto seriamente in considerazione l’idea.
«Sarebbe semplicemente perfetto».
«Hai già scelto che facoltà prendere?»
«In realtà no, ma non mi dispiacerebbe qualcosa che abbia a che fare con l’arte» rispose, pensierosa.
«Saresti molto portata» intervenne con un sorriso Marcello, che, fino ad allora, non aveva preso parte alla conversazione, mostrando grande rispetto per lei e le sue decisioni.
La ragazza, allora, si voltò a guardarlo e la sua stima verso di lui crebbe ancor di più - ammesso che potesse farlo -, poiché si era dimostrato non contrario all’istruzione femminile.
In quell’istante, il campanello tintinnò per la seconda volta ed i bambini entrarono nel negozio. Non appena notarono Beatrice, buttarono le cartelle in un angolo e corsero ad abbracciarla, arrivando perfino ad ignorare la madre che, però, non se la prese.
«Beatrice, sei salva!» esclamò Valentina, saltellando contenta. 
«Sapevamo che Marcello ti avrebbe salvata!»
«Veramente, io non ho fatto molto, il merito è tutto vostro che ci avete avvertiti, permettendoci di chiamare subito la polizia» precisò il ragazzo, arruffando affettuosamente i capelli dei due fratelli.
«Siamo stati proprio bravi!» si vantò Alessio, gonfiando il petto. Poi, si rivolse alla fanciulla: «Non ti hanno fatto del male, vero? Altrimenti gliela farò pagare!»
«È andata meglio di come sarebbe potuta andare» tagliò corto lei, stirando un debole sorriso per non far capire loro quanto, in realtà, avesse sofferto.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata intensa, ma, con suo enorme sollievo, non aggiunse altro. Beatrice, infatti, sapeva di non avergli raccontato proprio tutto, nascondendogli che Navarra aveva tentato di abusare di lei, anche se era cosciente del fatto che, prima o poi, avrebbe dovuto farlo; tuttavia, la paura, la vergogna e l’orrore che aveva provato per quel momento glielo impedivano.
Per fortuna, Alessio la trasse d’impaccio, cambiando argomento: «Tornerai presto a lavorare qui?» le chiese, guardandola.
«Oh, piccino, mi piacerebbe davvero tanto, ma devo studiare» gli rispose subito lei, sinceramente affranta.
«Anche a te danno tanti compiti?» si informò Valentina, pensando a quelli che doveva svolgere lei.
«Abbastanza. Devo affrontare un esame che mi permetterà di finire la scuola».
«Per finire la scuola bisogna fare un esame?!» esclamò il bambino, sconvolto. «Dovrebbero dare un premio, invece, a chi non è scappato prima!»
I due giovani, di fronte a tanta spontaneità, scoppiarono a ridere di cuore, ma poi la fanciulla, ripensando alla propria disastrosa condizione in fisica ed in matematica, convenne che Alessio non aveva affatto tutti i torti.
***

Nello stesso momento in cui Marcello realizzò che un’ambulanza stava uscendo dal cancello nero di Villa Aurelia, inconsciamente, il suo pensiero andò a suo padre, temendo che si fosse sentito male.
Così, allarmato, bruciò in pochi istanti la distanza che lo separava da casa e, una volta nel giardino, quando vide parcheggiata sul brecciolino la Mercedes 560 SL di Tiberio, fu colto da una tremenda sensazione di smarrimento misto a paura, che gli fece salire i gradini della scala di travertino a due a due.
Entrò, quindi, in casa quasi travolgendo Ottavia, la quale stava piangendo con il viso nascosto in un ampio fazzoletto di stoffa.
«Ottavia, cosa è successo?» le domandò, con il fiatone per la corsa e il cuore che batteva furiosamente per l’angoscia.
«Oh, Marcello... il tuo povero papà...» singhiozzò la donna, stravolta.
Se prima il ragazzo avvertiva il sangue pulsargli nelle orecchie, in quel momento gli parve addirittura che avesse perfino smesso di circolargli in corpo.
«Come sta?» riprovò, ma non ricevendo risposta, incalzò: «Santo Cielo, parla! Cosa diamine gli è successo?»
La governante, allora, si mise a piangere più forte, ma alla fine riuscì finalmente a rispondere: «Sor Giancarlo... ha avuto un malore!»
Rinfrancato almeno in parte dal fatto che suo padre fosse ancora vivo, con quel minimo della lucidità che gli era rimasta, il biondo chiese, con un filo di voce: «Ed ora dov’è?»
«In camera sua. Tuo fratello è arrivato...»
Marcello, tuttavia, non seppe mai cosa avesse aggiunto la donna, giacché non perse tempo e si diresse subito dove gli era stato detto, sperando che l’uomo fosse cosciente e non in condizioni gravi.
Sapeva che il padre non stava bene, poiché lo aveva già notato quando si era rifiutato di mangiare il suo piatto preferito, ma non pensava che la situazione fosse già precipitata!
I corridoi della villa non gli erano mai sembrati così lunghi e, ad ogni passo, il terrore di arrivare tardi crebbe sempre di più. Quando, infine, aprì la porta e si lanciò nella stanza, vide solo il signor Giancarlo sul letto, sostenuto da una pila di cuscini, e si mise in ginocchio davanti a lui. Tuttavia, prima che potesse fargli anche solo una domanda, qualcuno cominciò a sbraitare: «Si può sapere dov’eri?!»
Il giovane, allora, si voltò e vide che suo fratello lo guardava con odio misto a disgusto, tenendo la mano di sua madre, seduta sotto shock accanto a lui.
«Non sono affari tuoi!» gli ringhiò contro, ricambiando l’occhiataccia.
«Invece sì, che lo sono!» berciò Tiberio, con occhi fiammeggianti dall’ira. «Papà si è sentito male e non sapevamo dove diavolo fossi!»
«Stavo comunque ritornando!» ribatté con forza Marcello, deciso a non farsi prevaricare dall’altro, che stava meschinamente approfittando di quel momento precario per fare il prepotente.
«Finitela!» intervenne a quel punto la Matrona, muovendo il braccio con un gesto secco. «Nemmeno davanti a vostro padre in queste condizioni avete un po’ di riguardo?»
«Lasciali fare, è il loro modo di scaricare la tensione» mormorò, invece, flebilmente il signor Giancarlo, forse per cercare di sdrammatizzare e di evitare che i suoi figli arrivassero alle mani.
Allora, il maggiore si alzò in piedi e si avvicinò al letto del padre con incedere sicuro, dichiarando perentorio: «Chiamo subito il professor Spadoni, è primario di medicina interna al policlinico Gemelli!»
«No, no, non ti preoccupare, non ne ho bisogno. In realtà...» replicò a fatica l’uomo, ma venne interrotto prima che potesse finire la frase.
«Sciocchezze, papà! Tu hai bisogno di un ottimo medico!» insistette Tiberio.
«Perché non lo lasci parlare?» lo rimbrottò, allora, Marcello, senza celare il suo disprezzo.
Così, l’altro non si lasciò sfuggire l’occasione per attaccare nuovamente il fratello e, dopo averlo incenerito con lo sguardo, latrò: «Ancora hai il coraggio di fiatare? Cosa hai fatto da stamattina tu per nostro padre? Niente! Io sono arrivato subito, io mi sono preoccupato per lui!»
Il biondo aprì la bocca per replicare, ma l’altro non glielo lasciò fare, rincarando invece la dose.
«Sei inutile, basto io! Tu tornatene da quella sciacquetta con cui ti stavi divertendo!» aggiunse e tali parole ebbero il potere di ridestare la signora Claudia dallo stato di prostrazione nel quale era caduta dopo il malore del marito.
Infatti, la donna si sistemò sulla sedia, raddrizzando la schiena e, con le mani in grembo, si apprestò a dare la sua sentenza: «Sul serio eri con lei, Marcello? Non ti è bastata la lezione che ti ho dato? Ancora stai perdendo tempo con quella? È solo una mocciosa, non ti vergogni ad andarle dietro alla tua età
Il giovane, già minato da ciò che era successo a suo padre e, per giunta, colpito nel suo punto più debole, non riuscì a trovare le parole per ribattere e dovette subire l’affondo della madre, senza alcuna possibilità di difendersi. Guardò prima l’uno, poi l’altra, sentendosi montare la collera dentro, ma non riuscì a tirarla fuori e a rispondere loro per le rime.
Tuttavia, tale offesa non passò inosservata.
«Claudia, Tiberio, adesso basta!» tuonò, infatti, poco dopo il signor Giancarlo che, nonostante fosse seriamente provato, dimostrò di avere il polso necessario per rimettere in riga sia la moglie che il figlio maggiore. «Sono in grado di cercarmi da solo un medico come, appunto, ho già fatto! E, comunque, in mia presenza, vi proibisco di insultare quella povera ragazza!»
Madre e figlio maggiore guardarono in cagnesco padre e figlio minore, i quali, a loro volta, risposero con una fredda occhiata. Sembravano davvero quattro statue di sale, ferme e rigide, ma, a quel punto, l’uomo interruppe il silenzio con un annuncio che li sconvolse profondamente.
«Ho un linfoma2» spiegò, voltandosi verso la finestra. «Allo stomaco».
Istantaneamente, nella stanza la temperatura sembrò scendere sotto zero.
Stravolto dall’inquietante rivelazione, Marcello spalancò gli occhi: aveva sentito parlare di quel male, ma non aveva idea di cosa fosse nello specifico e sapeva solo che, se lo avessero trafitto a morte, in quel momento, non ne sarebbe uscita una sola goccia di sangue.
«Perché... perché non ce l’hai detto prima?» farfugliò, senza nemmeno rendersi bene conto di cosa stava dicendo.
«Volevo prima esserne certo» replicò il padre, sorprendentemente tranquillo.
la signora Claudia, invece, pallida come uno straccio, fissava il marito senza realmente vederlo, come se fosse rimasta completamente paralizzata. Infatti, solo Tiberio riuscì ad articolare qualcosa di vagamente sensato.
«Papà, permettimi di chiamare il professor Spadoni, ti garantisco che...»
«Tiberio, no!» disse il padre, con tono fermo. «Ho già parlato con un mio amico, il dottor Conti, che mi ha messo in contatto con il professor Weinberger di Zurigo. L’operazione è già stata fissata».
«Operazione?» ripeté Marcello, che, ad ogni secondo che trascorreva, capiva sempre meno.
Il signor Giancarlo si sistemò meglio i cuscini su cui si era appoggiato e, dopo esservi riadagiato sopra, alzò le spalle per poi spiegare la situazione, come se non lo riguardasse: «La faccenda è seria, perciò bisogna agire piuttosto in fretta».
«Io... io ho bisogno d’aria» gracchiò a quel punto la signora, scioccata. «Tiberio... figlio mio, ti prego... ac...accompagnami fuori».
«E papà?» domandò l’altro, confuso. «Mamma, papà non può...»
«Rimarrà Marcello» propose l’uomo, abbozzando un sorriso in direzione del figlio maggiore. «Tu occupati di tua madre, per favore».
Allora, barcollando, il ragazzo si mosse in direzione della madre e, dopo esser riuscito con grande fatica a rimetterla in piedi, le circondò le spalle con un braccio e la condusse lentamente fuori, mormorandole, di tanto in tanto all’orecchio qualche frase sconnessa.

Incredibilmente, l’unico che in quell’occasione sembrò aver conservato un certo senno, fu proprio quello che sarebbe stato giustificato se lo avesse perso.
«Ti va di sederti qui, come quando eri piccolo?» fece il signor Giancarlo, all’indirizzo di Marcello, indicandogli il punto del materasso dove avrebbe potuto accomodarsi e il giovane, quasi senza rendersene conto, lo assecondò.
Tuttavia, passarono ancora alcuni minuti in silenzio, durante i quali il biondo, fissando il pavimento di marmo grigio, cercò di dare ordine ai propri pensieri, seguendo le venature più scure della pietra per non perdere il filo; talvolta, però, accadeva che una di esse si intersecasse con un’altra, scompigliandoli di nuovo e costringendolo a ricominciare da capo. Si chiese più volte se quello fosse un brutto sogno e se stesse accadendo proprio a lui, dato che gli sembrava una situazione talmente assurda da sentirsi alienato perfino da se stesso. O forse era solo una difesa della sua mente, che voleva allontanarsi da tanto dolore.
«Ecco perché non hai mangiato la parmigiana!» disse ad un certo punto, aggrappandosi ad un ricordo lontano, ma chiaro e ben delineato.
«Sapevo che quel particolare non ti sarebbe sfuggito, non sei certo ottuso come tuo fratello» cercò di scherzare il padre, stiracchiando debolmente le labbra. «Comunque, non facciamone una tragedia prima del tempo. Odio avere intorno musi lunghi, come se fossi già morto!»
Finalmente, sentendo quelle parole, Marcello ebbe una piccola reazione ed alzò di scatto la testa verso il padre, guardandolo negli occhi.
«Ma...» tentò di protestare.
«Preferisco che sia così» concluse l’uomo con un tono che non ammetteva repliche.
Rimasero ancora in silenzio per qualche minuto durante i quali il ragazzo cercò di tornare a seguire le venature del pavimento, ma, questa volta, l’espediente non servì a molto, perché nella sua testa, continuarono a vorticare pensieri senza senso.
Alla fine si arrese, scivolando anche lui nell’apatia, nonostante la parte di lui ancora vigile lottasse con tutta se stessa per spronarlo a stare vicino al padre.
«Dovresti chiederle di sposarti» disse proprio questi all’improvviso e il giovane lo osservò, sbattendo le palpebre.
Di chi stava parlando? Cosa c’entrava lo sposarsi con tutto quello? Pian piano, però, riaffiorò in lui il ricordo di Beatrice e fu come se un po’ di luce fosse entrata in quella stanza cupa: lei era qualcosa di troppo bello per essere mischiato con quella fitta al cuore che continuava a rendergli difficile persino respirare.
Non ricevendo risposta, il signor Giancarlo insistette: «Volevo dirtelo da diverso tempo e, per quanto ti possa sembrare strano, questo è proprio il momento migliore per ricordarti che devi chiederle di sposarti».
Ovviamente, allora Marcello non capì cosa volesse dire suo padre: quelle parole, però, gli sarebbero tornate spesso alla mente negli anni a venire e, poco alla volta, ne avrebbe colto il vero significato.
«È troppo piccola e troppo vivace per me. Inoltre, non si sa come potrebbe andare il tuo intervento» si ritrovò a rispondere, non filtrando più nessuna delle paure che gli si agitavano dentro e dicendo la verità.
L’uomo, allora, gli poggiò una mano sulla testa, sorridendogli in maniera così dolce che il figlio, avvertì un altro taglio sanguinante aprirsi nel suo cuore. Come avrebbe fatto senza suo padre?
«Marcello, in qualunque modo dovesse andare, la mia vita, nel bene e nel male, l’ho fatta» replicò, allora, il signor Giancarlo, con disarmante e semplice serenità. «Qui si tratta delle tua e di quella della tua futura compagna».
Fece appena una pausa, come per essere sicuro che il giovane stesse assimilando le sue parole, poi proseguì: «E non prestare attenzione a quello che dice tua madre, perché tu e Beatrice siete tutte e due abbastanza maturi per decidere del vostro destino
. Promettimi che seguirai il mio consiglio e le chiederai di sposarti, perché non troverai un’altra ragazza così».
Marcello sospirò e, intuendo che c’era davvero qualcosa di saggio in quell’impegno preso, poco prima di abbracciarlo stretto e lasciare che lacrime silenziose gli rigassero le guance, gli sussurrò: 
«Te lo prometto».
***

Ogni singola cosa di quel corridoio, dalle mura bianche e spoglie, al pavimento di marmo crivellato dal tempo, fino alla fioca luce che filtrava da finestre troppo strette, le trasmetteva l’idea di rigore e sterilità.
Beatrice sentì un’improvvisa voglia di scappare, ma, dopo aver supplicato la guardia carceraria di farle vedere Guido nonostante non fosse orario di visita, si trattenne dal fare dietro-front e correre lontana dal carcere. Non riusciva davvero ad immaginare come i detenuti potessero resistere là dentro, anche se dovevano aver fatto 
qualcosa di male per trovarsi lì; e se tra loro ci fosse stato qualche innocente ingiustamente condannato? Avrebbe pazientato di essere assolto e, quindi, scarcerato? E se, invece, la sentenza che lo avrebbe liberato, per un qualche errore umano, non fosse mai arrivata?
A questi pensieri, la ragazza rabbrividì e si affrettò a raggiungere l’agente di polizia che, avendo il passo più lungo del suo, l’aveva distanziata di un bel po’.
Ben presto, arrivarono davanti ad una pesantissima porta scura di metallo e, allora, l’uomo le disse: «Signorina Tolomei, io l’aspetterò qui. Dentro troverà il detenuto e altri poliziotti che assisteranno al colloquio, per ragioni di sicurezza».
Poi, infilò la chiave nella serratura e la fece scattare con un gran frastuono che quasi spinse Beatrice a tapparsi le orecchie.
«Non più di un quarto d’ora» fece la guardia, imperativa. «Abbiamo già fatto un’eccezione».
La fanciulla annuì, balbettando un ringraziamento, ed oltrepassò la soglia, ritrovandosi in una grande stanza con le pareti bianche e spoglie, esattamente come in corridoio. Nel mezzo c’era un lungo tavolo che andava da parte a parte, fissato su un battente e sormontato da una spessa lastra di vetro per impedire qualunque contatto tra i visitatori e i detenuti; accanto ad esso, da entrambe le parti, c’erano anche degli sgabelli, ordinatamente sistemati ed equidistanti l’uno dall’altro.
Beatrice rimase in piedi, in attesa, guardando quell’ambiente come se si aspettasse che, abituandosi, potesse sembrarle migliore, tuttavia, accadde l’esatto contrario e questo le parve sempre più gelido ed alienante.
Guido arrivò dopo qualche minuto, ammanettato e scortato da due uomini in divisa, alti e massicci come due armadi. Vederlo così, però, non le fece molto effetto, anzi, pensò che i due energumeni fossero anche troppo per uno come lui, per nulla pericoloso o incline alla ribellione. D’altra parte, nemmeno il giudice aveva stabilito una qualche disposizione restrittiva, considerandolo, probabilmente, solo un idiota che si era andato ad invischiare in qualcosa più grande di lui. Non che avesse torto, in effetti.
Subito dopo, una delle due guardie tolse le manette al ragazzo e, dopo averlo afferrato per una spalla, lo condusse malamente ad uno sgabello posto più o meno a metà del tavolo, costringendolo a sedersi. Dopodiché, fece un brusco cenno del capo a Beatrice, invitandola ad accomodarsi di fronte al fratello, e fu a tal punto che si rese conto che il naso di lui sembrava guarito. Peccato, Marcello avrebbe potuto fargli più male...
«Tolomei, non fare scherzi, ché poi farai i conti con noi. Hai solo qualche minuto, quindi fallo fruttare bene!» lo minacciò, lasciandolo andare, non senza prima, però, di avergli dato un altro strattone. Poi, si allontanò, prendendo posto accanto al suo collega, senza tuttavia distogliere mai gli occhi da Guido.
Questo, dopo aver lanciato un’occhiata carica di risentimento al suo carceriere, si voltò in direzione di Beatrice e la fissò in cagnesco per qualche secondo, prima di dirle, velenoso: «Ti se’ ricordata d’avere un fratello!»
La ragazza ricambiò l’occhiata con distacco, senza lasciarsi impietosire dalle pessime condizioni in cui versava il giovane: pallido, con profonde occhiaie e piuttosto sciupato.
«Dopo quel che m’hai fatto, dovresti solo ringraziarmi d’esser venuta a trovarti!» replicò lei, seccata da tanta arroganza, poichè lui si trovava in quel pasticcio solo ed esclusivamente per colpa sua. A quel punto, fece per alzarsi, risoluta ad andarsene, ma il ragazzo si alzò in piedi a sua volta, poggiando le mani contro il vetro.
«Tolomei, ritorna al tuo posto!» riecheggiò subito minacciosa la voce della guardia.
Guido, allora, si guardò appena indietro, ma ubbidì e si risedette. Beatrice lo seguì, come se quel comando fosse stato rivolto anche a lei.
«Ti prego, Cicci» la implorò il fratello, divenuto improvvisamente più mansueto. «Scusami, ma qui l’è tutto orribile! L’avvocato d’ufficio che m’hanno assegnato l’è un’incompetente abissale. Ed è anche brutta!»
Infastidita da quel commento superfluo, poiché riteneva che l’aspetto fisico non influisse minimamente sulle capacità di una persona, la fanciulla commentò, acida: «Vedo che star qui non t’ha insegnato proprio niente. Tu sta’ toccando il fondo e ancora t’ostini a giudicar le persone, o meglio, le ddonne, dal loro aspetto!»
Il giovane non ribatté, roteando gli occhi e lasciandosi scivolare addosso quel rimprovero, come se non lo trovasse sensato o pertinente.
Tuttavia, Beatrice non si arrese e continuò a riprenderlo: «Comunque, dopo quel che hai combinato, non potevi certo sperar che fossero tutti clementi con te».
Sentendo quelle parole, lui la guardò, stralunato, e fece, indicandosi: «I’ non ho fatto nulla!»
«Certo che no!» replicò la ragazza, sarcastica. «Infatti, complottare con Navarra alle mie spalle è nulla!»
Guido sbuffò, appoggiando le mani sul ripiano e allontanando il busto da esso, come per dire che Beatrice stava ingigantendo le sue colpe, ma, nuovamente, lei non si diede per vinta e riprese: «Guardati, ora. Tu sei qui e lui è libero: bell’intuizione hai avuto, nel metterti in affari con lui!»
Seguì qualche secondo di silenzio, in cui il ragazzo si mostrò alquanto inquieto, grattandosi la nuca e scuotendo ripetutamente la testa. Infine, si decise a parlare, rivelando qualcosa che la ragazza non avrebbe mai potuto immaginare: «Beatrice, se non esco di qui, perderemo la casa della nostra mamma» mormorò.
La sorella, allora, lo guardò sbigottita, aprendo appena la bocca.
«Cosa?» domandò.
Dopo aver lanciato l’ennesimo sguardo in direzione dei suoi carcerieri, Guido si fece quanto più vicino potesse e, dopo aver abbassato la voce, disse: «Ascoltami bene, Beatrice... L’ultima volta che ho sentito Pierpaolo, m’ha detto che la produzione delle olive era ormai ridotta a zero e che quindi, se non andrò ad aiutarlo, molto probabilmente dovrai vendere la villa ed i terreni in nostro possesso».
La notizia lasciò la ragazza alquanto perplessa, poiché, nonostante non si fosse mai interessata direttamente agli aspetti economici della loro tenuta in Toscana, quella rivelazione stonava alquanto con quello che aveva sempre detto suo padre.
«Finché era in vita il babbo, Pierpaolo è stato un amministratore oculato e i terreni han sempre avuto un’ottima rendita... cosa è successo, adesso?»
«Non so» rispose l’altro, alzando le spalle. «Tra l’altro, da quando sono qui, non ho più avuto modo di sentirlo. Avevo proprio sperato che tu sposassi Navarra, così che potesse aiutarci nel risollevare le sorti dei terreni...»
«Gran bell’aiuto!» commentò lei, sprezzante.
Improvvisamente, Guido appoggiò i gomiti sul ripiano e, fattosi ancor più vicino fino quasi ad incollarsi al vetro, propose: «Perché non chiedi al tu’ innamorato di prendermi un avvocato migliore? Certamente ha le conoscenze ed il denaro necessari».
Indignata da quelle parole e dall’atteggiamento del fratello, Beatrice insorse: «Con quale coraggio mi chiedi queste cose?!»
«Se non mi vuoi aiutare, allora preparati a tornare a Marciana Marina3 come ospite e non più come padrona» cantilenò il giovane, socchiudendo appena gli occhi grigi, che tradivano la (vana) speranza di avere un certo ascendente sulla sorella.
«Altrimenti, ora che tu se’ la passerina del Tornatore, ffatti aiutare da lui, a salvare le proprietà. Non l’è forse il suo lavoro giocare con i capitali?» concluse, rivolgendole un sorriso beffardo.
Beatrice pensò che, se non ci fosse stata quella lastra di vetro a dividerli, gli avrebbe volentieri fatto un occhio nero e, a giudicare dall’inquietudine che si era creata dalle guardie, poteva scommettere che le avrebbero persino dato una mano. Già si era abbassata ad andarlo a trovare, facendo prevalere l’istinto fraterno su tutto il resto, perciò non aveva nessuna voglia di essere insultata in quella maniera. Senza contare che Guido era stato irrispettoso anche nei confronti di Marcello.
«Avrei potuto impiegar meglio il mio tempo, piuttosto che venire qui!» gli sibilò, inviperita. «Nemmeno il carcere ti sta insegnando ad esser più umile!»
Quindi, si alzò, infuriata, e, nonostante le suppliche del fratello perché restasse, uscì in fretta da quell’asettica stanza, lasciando lì lui e le sue stupide scuse.

Mentre si allontanava in tutta fretta da Rebibbia, furibonda per la strafottenza, assolutamente fuori luogo, mostrata dal fratello, Beatrice ebbe modo di riflettere in maniera più accurata su quello che lui le aveva detto in merito alla loro villa sull’Isola d’Elba. Non conosceva i dettagli della loro situazione economica, ma le sembrava davvero strano che, di punto in bianco, le cose stessero andando così male e, sinceramente, riteneva che Guido non avesse le giuste capacità per gestire nessun terreno.
Inoltre, sul ruolo di Pierpaolo, che era stato il braccio destro del conte Tolomei nell’amministrazione delle rendite di Villa Paolina, rimaneva un grande punto interrogativo, poiché non lo vedeva da parecchio tempo e non aveva mai parlato con lui del lato economico della loro tenuta.
Decisamente, a quel punto a Beatrice sembrò che l’unico modo per avere chiara l’intera faccenda fosse recarsi sul posto ed andare a vedere di persona, magari coinvolgendo Marcello, che, in materia, era certamente più scaltro di lei. Ovviamente, non per fare un favore a Guido, quanto perché quella villa rappresentava uno dei pochi luoghi in cui era stata felice e di cui conservava bei ricordi, pertanto le sarebbe davvero dispiaciuto se la situazione fosse precipitata a tal punto da essere costretta a vendere tutto. Fino a prova contraria, l’intestataria dell’intera proprietà era lei, essendo un lascito che le aveva esplicitamente fatto sua madre poco prima di morire e non si sarebbe di certo arresa alle prime difficoltà.
Doveva solo trovare il momento giusto per condividere con lui tutte le sue perplessità, certa che non l’avrebbe abbandonata in quel momento precario. A quel pensiero, sorrise, grata di aver trovato un ragazzo che potesse supplire perfettamente a tutte le mancanze, di qualunque genere, che, invece, le aveva sempre riservato il fratello: Marcello, infatti, si era sempre mostrato partecipe, efficiente e premuroso nei suoi confronti, diventando per lei il punto di riferimento che, dopo la morte dei suoi genitori, le era mancato.
Messa di buon umore da quella considerazione, Beatrice guardò distrattamente l’orologio e, resasi conto di aver fatto piuttosto presto, decise di passare per Villa dei Salici per vedere come fosse ridotta ora che le parenti erano andate via dalla città e, soprattutto, per cercare di recuperare il prezioso regalo che le aveva fatto il suo fidanzato.

L’esterno della villa, ormai svuotata di tutti i suoi inquilini, le sembrò ancor più fatiscente di come lo ricordava, nonostante fossero passate solo poche settimane da quando ancora abitava lì.
Il cancello, arrugginito e cigolante, non si oppose per nulla alla sua spinta e si aprì subito, lasciandole libero il passaggio verso il giardino, ormai pieno di erbacce ed ortiche, che la ragazza fece attenzione ad evitare per non avere spiacevoli incidenti.
Una volta che ebbe salito le scale, si rese conto che la porta della cucina era aperta, segno che la casa era davvero abbandonata, e si chiese se fosse già stata venduta o se qualcuno si fosse incaricato di trovare un acquirente, sempre ammesso che esistesse un tale intenzionato a comprare quella catapecchia. L’interno le si rivelò buio ed umido e le stanze, ormai piene di ragnatele e con la carta da parati quasi completamente scrostata e private di gran parte del mobilio, dato che, ovviamente, i pezzi migliori erano stati portati via, sembravano davvero la scenografia perfetta per un film dell’orrore.
All’improvviso, un rumore proveniente dalla sala la fece sobbalzare e, ad un primo impatto, la ragazza fu sul punto di tornare indietro, ma, alla fine, prevalse la volontà di recuperare a tutti i costi il libro che le aveva regalato Marcello, così, dandosi da una parte della sciocca per non essere fuggita e facendosi coraggio dall’altra, si avvicinò in punta di piedi alla porta del salotto, ripromettendosi di dar solo un’occhiata e di scappare a gambe levate se avesse intuito un qualche pericolo. E, quando entrò, il fatto che le finestre fossero aperte e ci fosse un po’ più di luce, fu preso dalla ragazza come un buon segno.
Infatti, la fortuna volle che, lì, ci fosse una sua vecchia conoscenza, per giunta più che felice di rivederla.
«Signorina Beatrice!» la salutò Bettina, la vecchia cameriera, che stava cercando di pulire alla bell’e meglio il pavimento incrostato, non appena la vide. «Non credevo che l’avrei mai più rincontrata!»
«Oh, cara Bettina!» esclamò la fanciulla, avvicinandosi alla donna per abbracciarla.
«Cosa ci fa qui?» le domandò l’altra, prendendole il viso tra le mani e dandole qualche carezza, probabilmente ricordando che, al contrario delle sue parenti, con lei la ragazza era sempre stata buona.
«Sono venuta a cercare di recuperare delle cose che ho lasciato qui».
«Cerchi pure, signorina, ma non so se troverà qualcosa» mormorò la cameriera, pensierosa. «Lei non può saperlo, ma questa casa è stata venduta ad un ricco proprietario di alberghi che vuole trasformarla in una graziosa pensione esclusiva!»
«Ah» fece Beatrice, sorpresa. Il suo insegnante le aveva accennato qualcosa, ma, evidentemente, non doveva essere al corrente di tutti i dettagli.
«Per questo stavo pulendo» proseguì la donna. «Il signor Maneschi, il nuovo proprietario, mi ha chiesto di dare una sistemata. Sa, la prossima settimana verranno i muratori per iniziare la ristrutturazione e devono trovare un po’ più d’ordine».
La fanciulla stava quasi per augurarle buona fortuna, ma riuscì a trattenersi in tempo.
«Se lei vuole dare un’occhiata in giro, si senta libera di farlo, tanto ci sono solo io. Il suo vecchio letto e il suo armadio non sono stati portati via da sua zia, perché troppo pieni di tarme, ma devo avvertirla che hanno preso tutti i suoi vestiti, vendendoli al mercato».
A questa rivelazione, Beatrice sentì il sangue congelarsi, provando un dispiacere non indifferente nel sapere che la zia e la cugina le avevano tolto anche quello che si era fatta con le sue mani, per di più guadagnandoci. Non che avesse mai creduto che quelle due potessero avere rispetto per il suo lavoro, anzi, poteva immaginare perfettamente i commenti disgustati che dovevano aver fatto mentre saccheggiavano il suo armadio, considerando il ricavato di gran lunga inferiore a ciò che avevano dovuto sborsare per lei. 
«Per fortuna, il signor Rossiglione è riuscito a salvare parecchie cose da quella razzia» commentò Bettina a quel punto, sinceramente contenta che l’uomo si fosse trovato a passare da lì proprio mentre la signora Assunta stava facendo l’inventario delle cose di cui sbarazzarsi, tra le quali, appunto, c’erano molte cose appartenenti a Beatrice.
La fanciulla sorrise appena a quelle parole e, dopo aver ringraziato la donna, la salutò e tornò in corridoio. Poi, salì di corsa le scale, con il cuore in gola, pregando davvero che il suo nascondiglio non fosse stato profanato. Arrivata in camera, aprì con un calcio il vecchio armadio e non le importò nulla quanto l’anta, ormai mangiata dalle tarme, si staccò, cadendo a terra e sollevando un gran nugolo di polvere. Vedere l’interno completamente vuoto, le provocò una stretta allo stomaco: tutto il suo lavoro, i vestiti che si era cucita con tanta gioia non c’erano più e, nonostante Bettina l’avesse avvisata, di fronte a ciò non riuscì a non provare un profondo dispiacere, soprattutto perché, tra la refurtiva, c’erano anche il meraviglioso abito blu che le aveva regalato la signora Sofia e il vestito che aveva indossato la prima volta che aveva incontrato Marcello, dopo l’ennesimo assalto di Navarra.
In quel momento, fu solo il pensiero che il doppio fondo dell’armadio non fosse stato violato ad impedirle di piangere quando, dopo essersi inginocchiata, si adoperò per rimuovere la tavola di legno che celava alla vista il suo nascondiglio segreto.
La gioia che provò nell’accorgersi che sia il libro che il soprabito lilla erano ancora lì, impolverati, ma integri, fu indescrivibile: mentre li prendeva in mano si accorse che stava tremando e, dopo esserseli stretti al petto, rimase così per un quarto d’ora buono.
Fu solo quando sentì di aver recuperato un po’ di stabilità, che si rimise in piedi, sempre stringendo a sé i suoi tesori, senza curarsi del fatto che fossero pieni di polvere, e scese nuovamente le scale; questa volta, però, passò per il giardino sul retro, poiché voleva salutare per l’ultima volta il suo glicine, l’unica cosa che le era mai piaciuta di quella casa.
Tuttavia, ebbe un’altra amara sorpresa: l’albero era stato barbamente tagliato e tutto ciò che rimaneva era solo un povero ceppo spoglio, buttato in un angolo accanto alla siepe di alloro.
Beatrice, intristita, si avvicinò subito ai resti del suo amico, deplorando il nuovo proprietario che, probabilmente, non l’aveva gradito, sbarazzandosene senza il minimo rimpianto.
In quel momento, una fresca brezza primaverile le mosse appena i capelli e si rese conto di non avere davvero più alcun legame con quella villa che, per lei, era stata più simile ad una prigione che una casa ed avvertì che, nel bene e nel male, un capitolo della sua vita si era appena chiuso definitivamente.






***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto, che mi sostiene e supporta anche nei momenti di buio.
***


[N.d.A]
1. il potassio... in cardiochirurgia: il potassio, essendo un inibitore della contrazione cardiaca, viene usato per rallentare i battiti cardiaci e, quindi, agevolare i chirurghi durante gli interventi che vengono fatti direttamente sul cuore (es. sostituzione di valvole).
2. linfoma: il signor Giancarlo è affetto da un linfoma gastrico, un tumore maligno che colpisce i linfonodi di drenaggio dell’apparato digerente (in particolare, dello stomaco). I sintomi sono del tutto sovrapponibili a quelli di un tumore allo stomaco.
3. Marciana Marina: uno degli otto comuni in cui è divisa l’Isola d’Elba e dove si trovano le proprietà della famiglia di Beatrice.
***

Salve a tutti!
A parte scusarmi per le mie assenze prolungate e per la velocità da bradipo con cui aggiorno questa storia, posso provare a promettere di non far passare più cinque mesi tra un capitolo e l’altro, anche perché, parafrasando Manzoni, potrei dire che, ormai, questa storia s’ha da finire. Soprattutto, perché, t
ra gli obiettivi del 2016, c’è anche quello di terminare questo racconto, nonché quello di portare alla luce la prossima long (ambientata, questa volta, ai giorni nostri).
Spero di aver usato tutto il riguardo possibile per trattare la tematica dei malati di cancro, giacché, da futuro medico, non posso non schierarmi contro i (tremendi) cliché della letteratura odierna e poi scrivere qualcosa di peggiore, non trovate? Ergo, se qualcuno dovesse trovare qualcosa da ridire, sa dove trovarmi.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo (Anto, Aven, 21century, Juliet Leben22, McSevenNaught, Chambertin), i pochi superstiti che ancora seguono questa storia, chi l’ha messa tra le seguite/ricordate/preferite, chi mi farà avere un suo parere prossimamente.
Per qualsiasi cosa (info, anticipazioni, estratti, eccetera), vi lascio, come sempre, il link alla mia pagina facebook.
Alla prossima!
Halley S. C.

  
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