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Autore: FeraNoir    09/05/2016    1 recensioni
1 settembre 1987: Con la netta sensazione di camminare in un sogno, Fera si avvicinò alla barriera che separava il binario 9 dal binario 10 nella stazione di King’s Cross.
1 settembre 1988: Pioveva. Gli studenti del primo anno attraversavano Hogwarts in barca, guardando il castello per la prima volta, e pioveva. Di male in peggio, realizzò Med.
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Dal suo primo anno a Hogwarts, le avventure di Harry Potter sono diventate di dominio pubblico. Ma gli altri personaggi? Quelli che non lo accompagnavano a recuperare pietre filosofali e distruggere Basilischi, quelli che vengono solo menzionati di tanto in tanto, cosa stavano vivendo in quel periodo?
Il Prefetto Percy sta studiando febbrilmente per i G.U.F.O., Oliver si concentra nel Quidditch per non sentire la mancanza di Charlie e Tonks, Theodore deve sopportare un padre che ha già cacciato di casa il figlio maggiore... e Fera e Med, rispettivamente al quinto e quarto anno, si preparano a sperimentare i primi amori e le prime gelosie, amici fedeli e primini da ridicolizzare, finché il destino non le metterà sulla stessa strada.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio, Oliver Wood/Baston, Percy Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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CAPITOLO II
 
31 ottobre 1991
 
Per tutto il giorno, grosse nubi minacciose avevano fatto temere il peggio a studenti e insegnanti di Hogwarts, convinti che prima di sera si sarebbe scatenata una tempesta in piena regola. Fu con enorme sollievo, dunque, che tutti guardarono al soffitto della Sala Grande nel momento in cui entravano per il banchetto di Halloween: tra le nuvole, riflesse dal cielo all’esterno, si intravedevano stralci di blu stellato sparsi qua e là.
«Oddio, meno male» commentò Catherine ad alta voce. «Non sopporto di mangiare sotto la pioggia».
«Neanche ti bagnassi davvero!».
«Ma l’impressione è quella».
Fera scosse la testa. Era talmente abituata al clima umido e piovoso di casa sua, che quelle due nubi in croce non le facevano alcun effetto. «Sta’ piuttosto attenta ai pipistrelli, quelli sì che possono darti fastidio».
«Pipis-ah, no. Non quest’anno». Catherine estrasse la bacchetta e si acquattò, lanciando sguardi torvi agli stormi di pipistrelli che sorvolavano la Sala. «Non permetterò a nessun topo volante di impigliarsi nei miei capelli, stavolta».
«Che fine ha fatto Paul?».
Le due ragazze erano sedute dando le spalle ai rispettivi tavoli, in maniera da poter chiacchierare senza essere obbligate a separarsi dai compagni di Casa. «Penso sia da qualche parte con Percy, avevano l’ultimo turno di ronda insieme. Loro due, più Diodora e Penelope» Catherine pronunciò l’ultimo nome con un brivido di fastidio.
«Cathy, non potresti sforzarti di trovare Penelope simpatica?».
«Solo perché piace a Percy? Anche no, grazie». Sbuffò. «Proprio non capisco come tu abbia potuto presentarglielo...».
«Te l’ho detto: Penelope è perfetta per lui». Fera si chinò in avanti: era la centesima volta che ripeteva quel discorso, ma la sua amica sembrava decisa a non comprenderlo. «È intelligente, aggraziata… ed è bionda. Percy adora le bionde, lo sai».
«No, non lo so. È roba che confida solo a te, grazie al cielo».
«Ad ogni modo, secondo me starebbero benissimo insieme, e inoltre si piacciono. Fattene una ragione».
Catherine sbuffò di nuovo. «Non sono affatto d’accordo con te» borbottò.
Fera alzò le spalle. «Vedrò di convivere con questa consapevolezza».
La Tassorosso parve sul punto di dire qualcosa, ma tra lei e Fera passò un gruppo di bambine del secondo anno e dovette interrompersi. «Sai bene come la penso» disse finalmente, chinandosi il più in avanti possibile nello spazio tra i tavoli di Corvonero e Tassorosso. «Te lo dico da quando abbiamo dodici anni, che Percy…».
«Sì, so come la pensi, e tu sai come la penso io» si affrettò a rispondere Fera, troncando il discorso. «E ti ho già detto che una cosa simile non accadrà mai, se non nella tua testa».
«Ma tu…».
«Pipistrelli, Cathy».
Lanciando un gridolino, Catherine cadde dalla panca; invece di rialzarsi subito, guardò nervosamente in aria in cerca dello stormo in avvicinamento. «Stronza» ringhiò, quando capì che era stato solo un trucco di Fera per distrarla. Questa le fece la linguaccia e le voltò le spalle, segno che per lei la discussione era chiusa.
Per le Erinni, Catherine era adorabile, ma possedeva una testardaggine rara. Tirare fuori quella storia, quando ormai dovevano aver messo in chiaro che... Maledizione. Fera non poteva esserne certa, ma avrebbe scommesso sul fatto che il Cappello Parlante avesse considerato l'idea di mandare Catherine a Serpeverde.
«Buon Halloween!».
Sentendo quella voce alle sue spalle, Fera si voltò di nuovo e sorrise. «Buon Halloween anche a te,» rispose a Percy, «e… che diavolo è successo?».
Percy stava sorridendo, e non fece una piega di fronte alla domanda di Fera. «Parli di questo?» chiese, indicandosi la veste imbrattata di una sostanza verdastra. «Oh, nulla, Pix è più su di giri del solito, tutto lì».
Cosa? Il suo amico era stato bersagliato dal Poltergeist che tanto odiava, e non se la prendeva? «Di’ un po’» chiese Fera, sorridendo maliziosa, «questo tuo buonumore c’entra qualcosa con un certo Prefetto che conosciamo entrambi?».
«Non so di cosa tu stia parlando» rispose lui, ma il sorriso costante e il rossore sulle guance le fecero capire che , la causa di quella giovialità era proprio Penelope. Mentre Percy la salutava per andare a sedersi al suo tavolo, pensò che Catherine aveva torto marcio: bastava vedere l’effetto di Penelope su di lui, per capire che quei due erano destinati a stare insieme.
 
*****
 
C'era un giorno, a poca distanza dall'inizio dell'anno scolastico, che Med considerava il culmine del divertimento: Halloween. Per la precisione, Med amava il momento in cui, giunta l'ora di cena, saliva nella Sala Grande e la trovava addobbata con zucche intagliate, candele inestinguibili e qualunque cosa ricordasse ai maghi lì presenti che loro non erano una leggenda. Si diceva che anche il Natale fosse spettacolare a Hogwarts, ma Med – che lo aveva sempre passato in famiglia – insisteva nel sostenere che niente potesse superare il cenone di Halloween.
Quella sera, quando Med entrò nella Sala Grande, trovò migliaia di pipistrelli vivi appesi al soffitto, evidentemente pronti a prendere il volo non appena il Preside avesse mosso la bacchetta. Prese in fretta posto accanto a Theo, che veniva spesso messo in disparte dai compagni del suo anno: Malfoy preferiva stare con i suoi scagnozzi e con la sorella di Lobelia, mentre l'unico che pareva interessarsi a Theo era un certo Zabini, con cui ogni tanto il ragazzino scambiava i libri presi in biblioteca; Med aveva provato a parlare con Zabini un paio di volte, ma al contrario del suo amico – che rispondeva sempre e con garbo quando gli veniva rivolta una domanda – lui si limitava ad alzare un sopracciglio e proseguiva senza interruzioni la lettura. A Med non dispiacevano le persone colte, ma i maleducati la irritavano quasi quanto i giocatori di Quidditch del Grifondoro.
«Ehi, Theo» salutò non appena si fu seduta, sfregandosi le mani in attesa delle prelibate pietanze che venivano servite ogni anno. «Ho ricevuto una lettera da Louis stamattina. A quanto pare, Bristol è una favola».
«Credevo la trovasse noiosa». Theo chiuse Manuale degli Incantesimi, Volume primo e lo ripose nella borsa.
«Non da quando ha scoperto le creature magiche vicino al Trym. Sta ancora cercando di capire bene cosa sono, perché la vicinanza al fiume lo confonde.»
«Non ne sapevo niente. Vi scrivete spesso?».
«Due o tre volte a settimana. Eravamo abituati a chiacchierare molto più spesso, quando frequentava ancora Hogwarts».
«Scrive più a te che a me... Ma dovevo immaginarlo, succede tra fratelli».
Mentre Theo sospirava, Med udì i gemelli Weasley urlare qualcosa oltre il chiacchiericcio della Sala Grande e si chiese se anche loro, una volta lasciata la scuola, si sarebbero allontanati; l'alternativa sarebbe stata la nascita del peggior nido di idioti della storia britannica. Un nuovo tipo di creature che Louis avrebbe studiato, probabilmente.
«Med, non puoi capire» esordì Lobelia sedendosi di fronte a lei con una silenziosa Grace – ancora doveva iniziare il banchetto e lei già aveva una Cioccorana in bocca. «Abbiamo una notizia bomba per te!».
«Spara».
Lobelia sghignazzò e si guardò intorno prima di parlare. Evidentemente non stava più nella pelle. «Hai presente Mildred, quella del secondo anno?».
«È una del secondo anno, perché dovrei conoscerla?».
«Suo padre ha inventato il Gelato Tuttigusti +1» spiegò Grace, ingoiando un pezzo di cioccolata.
«Beh, oggi si è dichiarata ad Adrian... e lui l'ha respinta!».
«Ehm... che bello?» tentò Med, non capendo dove Lobelia volesse arrivare. Tuttavia, quella notizia le aveva provocato una strana sensazione allo stomaco, come di euforia: non aveva ancora capito chi fosse quella Mildred, ma d'istinto non la trovava molto simpatica.
«Non hai ancora sentito il bello! Adrian le ha detto di no perché... Aaah, Grace, continua tu!».
Io l'ammazzo nel sonno, questa, pensò Med portando gli occhi al soffitto. Proprio in quel momento, i pipistrelli si staccarono dal soffitto nuvoloso e spiccarono il volo nella sala.
«Gli piace un'altra» concluse in fretta Grace, perché nei piatti dorati stavano cominciando ad apparire le pietanze.
Med avvertì nuovamente una fitta, questa volta più strana da riconoscere. Si servì un coscio di pollo e un paio di patate farcite, ma prima di cominciare a mangiare dovette mandare giù un sorso di succo di zucca. Qualcosa non andava, lo stomaco le faceva già male.
«Allora?» insistette Lobelia. «Non dici niente?».
«Che dovrei dire?».
La reazione di Med fece sbuffare la sua compagna. «Beh, che ne so, gongolare perché Adrian ha respinto Mildred per te!».
«Adrian ha detto che gli piace un'altra, potrei non essere io. E poi hai considerato la possibilità che la sua fosse solo una scusa per scrollarsela di dosso?».
«Oh, Med, andiamo! Perché non vuoi accettare l'evidenza? Il fratello di Grace è cotto di te. Forse un Pucey non è abbastanza per la principessa?».
Le guance di Med si tinsero di rosso. La sua testa scattò verso Lobelia, gli occhi ridotti a fessure, ma non disse nulla. Quella reazione sorprese anche lei. Sospirò e si lanciò sul pollo, iniziando finalmente a tagliuzzarlo e mandandone giù un boccone; udì una risatina trattenuta a malapena provenire dall'altro lato del tavolo e fece il possibile per non rivoltarsi contro Lobelia e lanciarle una fattura.
Adrian è un bambino, si mise a riflettere con lo sguardo fisso sul piatto. Lo conosco da anni e non l'ho mai visto come... come lui ora vede me. Certo, stare con lui mi diverte e per essere un giocatore di Quidditch non se la tira neanche tanto. Ma questo non significa che debba starci insieme...
Maledicendo Lobelia per averle rovinato la sua festività preferita, si lanciò su un altro coscio di pollo e stava per addentarlo, quando qualcosa distolse la sua attenzione.
La porta della Sala Grande si era aperta con un tale impeto che tutti gli sguardi furono sull'uomo che la stava varcando: Raptor, il professore di Difesa Contro le Arti Oscure, sembrava stravolto; il suo esotico turbante sembrava sul punto di sfarsi da un momento all'altro e il volto era pallido, come se nella Sala d'Ingresso avesse incontrato casualmente uno di quei vampiri che tanto temeva. Si avvicinò alla sedia del Preside e parlò a voce bassa, ma perfettamente udibile nel silenzio che era calato nella sala.
«Un mostro... nei sotterranei... pensavo di doverglielo dire».
 
*****
 
«Un cosa?».
«Ma siamo matti?!».
«È uno scherzo, vero?».       
«Ho paura!».
Decine e decine di voci si levarono nello stesso momento, in risposta all’annuncio di Raptor. In tutti i tavoli regnava la confusione più totale, tanto che il professor Silente dovette lanciare una serie di petardi viola con la bacchetta per richiamare l’attenzione e poter prendere la parola.
«Prefetti, riportate immediatamente i ragazzi nelle rispettive Case, immediatamente!».
Fera vide Ed alzarsi e iniziare a condurre via i Corvonero più grandi; fu subito imitato da Penelope e Paul, che invece dovevano occuparsi dei ragazzi del primo anno.
«Bene,» esordì Paul, ergendosi di fronte a loro, «tutti in fila indiana, e…».
«No, scusa, io non ho capito» lo interruppe una bambina dalla voce querula, «avete fatto entrare un mostro a scuola?».
Interdetto, Paul iniziò a balbettare. «Nessuno ha fatto entrare nulla,» rispose, «è solo…».
«Mia madre dice sempre che la scuola è sicura» lo interruppe un altro ragazzino.
«Infatti lo è, ma…».
«Voglio tornare a casa!» esplose una terza bimba, scoppiando a piangere. Sembrava che tutti gli altri fossero sul punto di imitarla, e lo fecero quando Penelope, scansando Paul, iniziò a minacciarli con voce dura che, se non fossero saliti immediatamente nella Torre di Corvonero, li avrebbe portati personalmente a trovare il mostro nei sotterranei.
Fera si guardò attorno: gli altri ragazzi del quinto anno erano già saliti, ma lei non se la sentiva di abbandonare quelle matricole terrorizzate. Fu a quel punto che le venne un’idea. Si mise in mezzo a Paul e Penelope e, con un gran sorriso, guardò i primini piangenti.
«Oh, andiamo, non ve la prendete. Ci cascano tutti, al primo anno».
«Cosa?!» dissero in coro, sia i bambini sia i due Prefetti.
«Ma sì!» Non vista, Fera diede un pizzicotto a Paul e a Penelope. «È la Gara di Fuga dal Troll, non lo sapete? La facciamo tutti gli anni, ad Halloween… La Casa che torna per prima al dormitorio vince cinquecento punti!».
Non era affatto sicura che avrebbe funzionato, anche perché i Prefetti la fissavano come se fosse impazzita; uno dei bambini, però – il secondo ad aver parlato – si asciugò il naso con la manica della veste e le chiese: «Quindi non c’è nessun mostro?».
«Ti sembra che Silente lascerebbe entrare un mostro a scuola?» Ridacchiò. «Avanti, dobbiamo correre di sopra, o perderemo i punti in palio!».
Quella frase convinse del tutto i ragazzi, che finalmente lasciarono il tavolo e seguirono Paul verso il dormitorio. Fera e Penelope chiusero la fila. «Grazie,» disse la seconda, «non so perché non siamo riusciti a gestirli…».
«Erano solo spaventati, bisognava distrarli».
Pochi minuti dopo, giunsero alla base della Torre di Corvonero. Appena prima che Fera e Penelope potessero entrare, davanti a loro comparve Percy.
«Ciao!» lo salutò Penelope, illuminandosi in volto.
Lui le rispose allo stesso modo, ma poi si rivolse a Fera. «Possiamo parlare un momento?».
Sembrava molto turbato. La ragazza lo seguì, anche se sentiva lo sguardo di Penelope sulla propria nuca.
«Che succede?» domandò, non appena ebbero svoltato l’angolo. «Perché non sei nella tua Torre?».
«Ho un problema. Un enorme problema». Percy si mise le mani nei capelli, inspirò e sbuffò. «Ho perso Harry Potter».
«Hai perso cosa?!».
«Non gridare! Io…» Sbuffò di nuovo, irrequieto. «Dovevo controllare i ragazzi del primo anno, e solo quando siamo arrivati alla Signora Grassa mi sono accorto che… Per Merlino,» quasi singhiozzò, «ho perso Harry Potter».
«Magari ha solo sbagliato strada» commentò Fera. «Insomma, ormai conosce Hogwarts, saprà di certo…».
«E manca anche mio fratello Ron!».
«Cosa?!».
«Ho perso Harry Potter e ho perso mio fratello!».
«Va bene, va bene, manteniamo la calma». L’agitazione di Percy iniziava a contagiarla. Se davvero aveva perduto di vista due studenti, le cose potevano mettersi male per lui e per loro. «Dove pensi che possano essere andati?».
«Non lo so! Devi aiutarmi a cercarli!».
«Ma stai scherzando? Io dovrei essere già in dormitorio! Chiedi a un altro Prefetto!».
«Sei pazza? Direbbero a tutti che sono un incapace! E che figura ci farei con Penelope?!».
«Cosa sta succedendo, qui?».
Al sentire quella voce imperiosa, sia Fera che Percy urlarono di spavento. Alle loro spalle era comparsa la professoressa McGranitt, che li osservava con un cipiglio furioso. «Avete dieci secondi per spiegarmi cosa ci fate fuori dai dormitori, ed è bene che sia una spiegazione valida».
Con la coda dell’occhio, Fera vide Percy diventare mortalmente pallido; prima che potesse uscirsene con “Ho perso Harry Potter”, fece un passo avanti. «Weasley mi stava aiutando a tornare in dormitorio, professoressa».
«Cosa?!».
“Cosa?!” sembrava essere l’esclamazione del momento; Fera avrebbe riso, se il suo cervello non fosse stato così concentrato. «Uno studente di Grifondoro aveva perso il suo gruppo, così l’ho portato alla sua Torre… e poi Weasley ha insistito per riaccompagnarmi, in modo che non facessi la strada da sola. Sa, visto che c’è un mostro in giro».
Non tenere mai lo sguardo fisso quando menti, e non trattenere il fiato. Suo padre le aveva insegnato questi trucchetti anni prima, e Fera li aveva sempre applicati, tanto da sembrare molto naturale quando inventava una bugia su due piedi. Anche in quel momento, evitò di fissare la McGranitt e respirò normalmente, sperando che quel cretino del suo amico non la smentisse.
La professoressa guardò Percy. «È vero?» gli domandò.
Lui fece cenno di sì con la testa. La McGranitt squadrò di nuovo entrambi, li ammonì ancora una volta e corse via, diretta chissà dove.
«Grazie» disse Percy, riprendendo a respirare. «Ora…».
«Ora te ne torni nel dormitorio, e io farò altrettanto. Harry Potter e tuo fratello sono al sicuro» aggiunse, impedendo a Percy di interromperla. «I professori si occuperanno del troll, o di quel che è».
Poco convinto, il ragazzo si allontanò. Solo quando fu certa che se ne fosse andato definitivamente, Fera tornò all’entrata del dormitorio.
Visto come lavorava il suo cervello, quella sera, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a superare l’indovinello della porta.
 
*****
 
3 novembre 1991
 
Quella mattina si sarebbe giocata la prima partita di Quidditch del campionato. Grifondoro contro Serpeverde, un pessimo inizio – se si contava che la squadra verde-argento non faceva altro che umiliare le altre da anni. A giocare come Cercatore sarebbe stato il famoso Harry Potter, un nuovo e avventato acquisto per il Grifondoro, dal momento che aveva solo undici anni; la scelta suggerita dalla McGranitt e approvata dal Capitano poteva rivelarsi la strategia vincente o la peggiore dell'ultimo secolo.
Eppure non era per prepararsi a quella prima partita che Oliver aveva costretto la sua squadra ad allenamenti lunghi e sfiancanti: Potter doveva essere ben istruito, era vero, e anche gli altri membri della squadra dovevano migliorare rispetto agli anni passati, ma quello che aveva più bisogno di stare sul campo da Quidditch era lui stesso.
Volare gli faceva bene, così come elaborare nuove tattiche di gioco. Era il primo anno da Capitano e ciò, fortunatamente, riusciva a tenergli la testa impegnata; tuttavia una grossa parte di lui non riusciva a smettere di associare le parole "Capitano", "Cercatore" e "Quidditch" a una sola persona – a discapito della propria salute.
Charlie aveva lasciato Hogwarts mesi prima, dando alla squadra la possibilità di prepararsi in vista del campionato successivo: serviva un nuovo Capitano – Oliver, su questo si erano tutti trovati d'accordo – e un nuovo Cercatore, che fosse allo stesso tempo potente quasi quanto Charlie e abbastanza da sconfiggere la squadra di Serpeverde; si sarebbero tenuti dei provini a inizio anno, ma nessuno era riuscito a convincere Oliver quanto il giovanissimo studente proposto dalla professoressa McGranitt.
Già, l'assenza di Charlie sul campo era stata messa in conto; a pungere il cuore di Oliver era l'inaspettata uscita dalla sua vita.
Charlie era sempre stato portato per Cura delle Creature Magiche, per quella materia aveva ottenuto un M.A.G.O. e tanti complimenti sinceri da parte dell'esaminatore, e Oliver era conoscenza della passione che nutriva per i draghi: era stato lui stesso, molte volte, ad accompagnarlo da Hagrid per parlare di creature non poco pericolose davanti a una tazza di tè; ogni tanto anche Tonks si univa a loro, facendo facce buffe quando il discorso passava da innocui Asticelli a noti ammazzamaghi come le Chimere. Hagrid e Charlie erano in grado di elencare tutte le tipologie esistenti di draghi, ma Oliver era convinto che la passione per quegli animali si fermasse alla raccolta di informazioni. A un viaggio in Svezia per vedere un vero Grugnocorto Svedese nel suo habitat naturale, al massimo.
Charlie amava le creature magiche, ma era nato per il Quidditch. Aveva la bravura nel sangue, era in grado di eseguire una Finta Wronsky alla perfezione e se non erano riusciti a vincere i precedenti campionati era stato solo a causa del resto della squadra di Grifondoro – tra cui lo stesso perfezionista Oliver. Tutti i suoi compagni erano convinti che avrebbe fatto un provino per una qualche famosa squadra di Quidditch, e invece Charlie aveva deciso di punto in bianco di partire per la Romania a studiare i draghi.
Lasciando solo una lettera di spiegazioni.
I suoi compagni di squadra l'avevano presa sul ridere, probabilmente così aveva fatto anche Tonks, migliore amica del secondogenito Weasley, ma per Oliver era stato diverso. Oliver non era né un compagno né un amico per Charlie: era il suo ragazzo. Il loro rapporto era sfociato in amore solo negli ultimi tempi e per qualche manciata di mesi, ma aveva significato qualcosa – almeno per lui. Charlie, invece, non si era fatto tanti problemi a mollarlo con una lettera; ogni volta che Oliver provava a rileggerla, avvertiva l'impellente bisogno di afferrare la mazza da Battitore e spedire un Bolide dritto in Romania. Non dubitava poi molto di poterci riuscire.
Alla rabbia era subentrato il dolore. Un dolore cieco, che lo aveva fatto rintanare in casa per tutta l'estate, a chiedersi dove avesse sbagliato con lui, perché Charlie non lo avesse considerato un bravo fidanzato; in seguito aveva ripreso a odiarlo con maggiore intensità, maledicendo lui e le sue stupide scelte, le passioni, il tempo trascorso insieme. Maledicendo i suoi baci e le false promesse. Dopo quella rottura, Oliver era rimasto senza un ragazzo e un migliore amico – perché Charlie era stato quello, prima di diventare il suo fidanzato, e lui, Oliver e Tonks passavano più pomeriggi insieme di qualsiasi altra combriccola di Hogwarts. E ora Oliver era solo.
Per questo si dedicava tanto al Quidditch. Per questo ciò che all'inizio era stato un semplice sport stava diventando la sua ragione di vita, perché comportarsi da Capitano e occuparsi di un nuovo Cercatore gli facevano pensare a Charlie, ma gli davano anche qualcosa su cui impegnarsi.
«Oh, sei ancora qui?».
La voce di Percy lo riscosse dalle sue riflessioni. Il terzogenito dei Weasley era così diverso da Charlie che Oliver non provava alcuna sensazione dormendo nella sua stessa stanza: come Charlie era robusto e sorridente, Percy era snello e spesso imbronciato, con lo sguardo sempre rivolto a un libro. In quel momento, ne trasportava uno sotto il braccio. Oliver guardò fuori dalla finestra.
«È tardissimo!».
Saltò giù dal letto e si infilò in fretta la divisa del Grifondoro, armeggiando con le ginocchiere e i parastinchi. Rivolse un rapido cenno del capo a Percy e si fiondò giù per le scale diretto alla Sala Grande, dove lo attendeva una ricca colazione: nonostante non sentisse appetito, Oliver sapeva di non poter affrontare un'intera partita a stomaco vuoto. Facendosi largo per raggiungere il tavolo della sua Casa, si scontrò con una Serpeverde che gli stava passando accanto.
«Guarda dove vai, razza di idiota con il cervello marcio!» la sentì imprecare e le rivolse comunque un sorriso di scuse, ma lei era già scomparsa oltre la folla.
Quando si sedette, trovò davanti a sé una pila di salsicce fumanti. Allungò la mano per afferrarne una.
«Però, l'appetito non ti manca, eh?».
A parlare era stata Angelina Johnson, una delle Cacciatrici della sua squadra. La ragazza – che aveva un anno meno di lui – aveva raccolto i capelli in lunghe treccine nere per evitare che le finissero davanti agli occhi; cosa che, notò Oliver, avrebbe dovuto fare anche Alicia, la cui ribelle chioma bionda risultava sempre un problema durante gli allenamenti.
«Non posso battere Flitt senza fare un'abbondante colazione» le rispose, mandando giù un boccone di salsiccia fritta.
«Dillo al nostro nuovo Cercatore». Angelina fece un cenno in direzione di Harry, che circondato dai suoi amici si rifiutava di mangiare alcunché. «Ci farà perdere».
«Non perderemo» la rassicurò Oliver, seguendo il suo sguardo.
«Se solo ci fosse ancora Charlie...».
Il pezzo di salsiccia gli si fermò in gola. Come il resto della scuola – eccetto Tonks, che comunque aveva lasciato Hogwarts – nessuno aveva mai sospettato del vero rapporto tra lui e Charlie; quando lo vedevano adirarsi soltanto a sentirne il nome, attribuivano la causa della sua rabbia alla perdita del miglior giocatore di Quidditch che il Grifondoro avesse avuto da generazioni.
«Ma non c'è e dobbiamo arrangiarci. Fidatevi, vinceremo. E la nostra grande sorpresa prenderà il Boccino in meno di due ore, ne sono certo». Si alzò, pulendosi la bocca con un tovagliolo e sistemandosi le maniche della divisa scarlatta. «Ci vediamo nello spogliatoio alle undici esatte».
Non sapeva da dove gli venisse quella fiducia, ma una parte di lui non vedeva l'ora di scoprire Harry in azione e cancellare così il ricordo di Charlie alla ricerca del Boccino d'Oro. Un'altra parte, più piccola e fastidiosa, gli supplicava di non dimenticarlo mai.
 
*****
 
I giorni successivi ad Halloween si erano svolti in maniera relativamente tranquilla. A parte i ragazzini di primo anno, nessuno accennava più al mostro – gli studenti più anziani erano abituati a trovare ben altro, tra le mura di Hogwarts – e l'unica volta in cui Fera dovette tornare sull'argomento fu quando, dopo una lezione di Incantesimi, il professor Vitious la prese in disparte e le chiese cosa caspita fosse la Gara di Fuga dal Troll di cui i primini parlavano tanto. La spiegazione gli piacque moltissimo, tanto che assegnò cinque punti tardivi a Corvonero; Percy, invece, non apprezzò allo stesso modo.
«Hai dato ordini al posto dei Prefetti! È una cosa terribilmente irrispettosa!».
«Ma dannazione, Perce, sono passati tre giorni!» esclamò Fera, attirando gli sguardi di alcuni studenti nel salone antistante la Sala Grande. «Non è possibile che tu mi rimproveri ancora per Halloween».
«Lo farò, finché non ti sarà entrato in testa che non puoi far passare i Prefetti per incompetenti».
Fera sbuffò con ferocia e provò ad accelerare il passo, ma Percy la raggiunse facilmente. Accidenti a lui e alle sue gambe da struzzo.
«Che dovevo fare? Lasciare che i Corvonero stazionassero in Sala Grande quando c’era un maledetto troll in giro per la scuola?» gli chiese allora. Avevano già affrontato quel discorso una decina di volte, da Halloween a quella parte, ma Percy sembrava proprio deciso a non mollare finché lei non avesse ammesso di aver torto.
La qual cosa era del tutto reciproca.
«Ne abbiamo già parlato: avresti dovuto prendere Paul e Penelope da parte, dir loro la tua idea e poi lasciare che se ne occupassero loro» ribadì Percy. «Io proprio non… E poi» alzò la voce, come se l’idea lo inorridisse ancora di più, «hai mentito a degli studenti!».
«Ah!» Fera si fermò davanti a lui, obbligandolo a una brusca frenata. «Mi stai facendo la morale? Stai dicendo che mentire è sbagliato? Bene,» nella foga, lo spintonò con forza, «me ne ricorderò, la prossima volta che avrai bisogno di qualcuno che copra i tuoi errori con la McGranitt».
Lì per lì, Percy non seppe cosa controbattere – anche perché la sua amica aveva decisamente ragione; annaspò in cerca di una risposta, ma in quei pochi secondi Fera girò sui tacchi e se ne andò in Sala Grande, al contempo innervosita e soddisfatta di aver chiuso la questione. Le discussioni tra loro due non erano affatto rare, e di solito erano intense e di breve durata: dopo un affondo simile, Fera aveva la certezza che quel cretino sarebbe venuto a scusarsi con la coda tra le gambe.
L’atmosfera nella Sala era elettrica – per quanto il concetto si potesse applicare al mondo magico: quel giorno si sarebbe svolta la prima partita di Quidditch dell’anno, Grifondoro contro Serpeverde, e i simpatizzanti delle rispettive squadre avevano già iniziato a scambiarsi sguardi minacciosi e insulti non proprio scherzosi da un tavolo all’altro.
Bah. Quidditch. A Fera proprio non piaceva: troppe palle in gioco, troppe regole… e soprattutto, perché i maghi si comportavano come se esistesse solo quello sport? I Babbani avevano il rugby, il calcio, la pallavolo, la scherma, il ciclismo… I maghi, invece, erano tremendamente monotematici.
Fosse dipeso da lei, avrebbe preferito di gran lunga restare in sala comune a leggere piuttosto che assistere alle partite; purtroppo, uno dei suoi amici era Battitore di Corvonero e l’altro un grande appassionato, e nessuno dei due le permetteva di astenersi dal tifo.
Fece colazione con calma. Era sabato, quindi i suoi le avrebbero scritto nel pomeriggio: ottima cosa, perché non doveva aspettarsi che un gufo del Servizio Postale Irlandese le finisse nella tazza di tè o nel piatto mentre mangiava. Ascoltò distrattamente Paul parlare della partita e di una “grande sorpresa” annunciata dal Capitano Baston; quando fece per alzarsi, fu colpita dritta in un occhio da un minuscolo aeroplanino di carta.
«Ma che caz…». Afferrò il biglietto e si guardò attorno con aria bellicosa, pronta a prendersela con l’autore di quello scherzo idiota, ma notò solo Ed che, dal tavolo dei Prefetti, la salutava con un sorriso. Un po’ sorpresa, Fera ricambiò il saluto, si risiedette e aprì il biglietto.
 
“Scommetto che non tifi Serpeverde, vero?”
 
Grugnì. Persino Ed era fissato col Quidditch. Cercò una penna nella borsa.
 
“Se è per questo, non tifo affatto!”
 
Con la bacchetta diresse il biglietto verso di lui, che rispose immediatamente. L’aeroplanino fece avanti e indietro tra i tavoli ancora un paio di volte, abbastanza da far scoprire a Fera che nemmeno Ed era un appassionato, ma andava alle partite per far piacere ai suoi amici.
“Come me”, pensò. Fu tentata di scrivergli che, se voleva, potevano saltare entrambi la partita e fare qualcos’altro, ma non voleva sembrare sfacciata. Ci pensò lui a toglierla dall’imbarazzo, mandandole un secondo foglietto.
 
“Se la partita finisce presto, possiamo vederci subito dopo. Che ne dici?”
 
Sorpresa per la seconda volta, Fera deglutì. Era… un appuntamento? Ma no, di certo era un segno di amicizia; aveva chiacchierato varie volte con Ed, dal loro viaggio sull’Espresso, e non le era mai parso interessato in… D’altronde, lei non aveva alcuna esperienza in questo tipo di cose, quindi…
Si voltò. Ed la guardava, in attesa di risposta; senza pensarci su due volte, tracciò un “Va bene” sul biglietto e lo rispedì al mittente, per poi scappar fuori dalla Sala Grande. Sentiva dentro di sé qualcosa di strano, un misto di imbarazzo e piacere che voleva esaminare con calma, nella sala comune di Corvonero; e l’avrebbe fatto, se qualcuno non l’avesse bloccata sullo scalone principale.
«Vai già via?».
Prima ancora di girarsi, Fera sapeva esattamente quale espressione avrebbe trovato sul volto di Percy: muso lungo, sguardo a terra e orecchie basse – in senso metaforico. Faceva sempre così: si vergognava a chiedere scusa a parole, quindi lasciava che il suo dispiacere trasparisse dagli atteggiamenti dimessi. Di solito, a lei bastava.
«Ho un po’ da fare» gli rispose, in tono conciliante. «Voglio finire il tema di Pozioni adesso, così avrò il pomeriggio libero».
«Oh. Bene». Percy spostò il peso del corpo da un piede all’altro, ulteriore segno che si voleva scusare in silenzio. Fera lo notò e sbuffò.
«Dai, accompagnami alla Torre, brutto scemo» gli disse, a mo’ di perdono. Lui dismise l’aria afflitta e la seguì sulle scale.
«Hai saputo di Penelope, vero?».
«Sì» rispose Percy. «Sono andato a trovarla ieri in Infermeria. Dice che ha avuto un incidente nella serra».
Più che un incidente, era stato un deliberato tentativo da parte di Catherine di zittire per sempre la fastidiosa collega, ma Fera si guardò bene dal dirlo. «Stavo pensando che forse dovresti andare da lei, invece che a vedere la partita» suggerì. «Poveretta, è tutta da sola, e…».
«No no no. Aspetta». Percy si fermò di scatto e costrinse Fera a fare altrettanto. «Perché mai dovrei saltare la partita?».
«Perché… sarebbe un bel gesto, no?».
«Ho capito, ma… Saltare la partita? Devi essere pazza».
Fera sospirò. Maghi. Nemmeno Percy era immune dalla febbre del Quidditch, sebbene – a differenza dei suoi fratelli – fosse interessato più allo studio delle tattiche che al gioco vero e proprio. Era così appassionato che non riusciva proprio a capire lo scarso entusiasmo di Fera, e in genere la trascinava alle partite di Grifondoro per cercare di convertirla.
«Senti» sbottò la ragazza, «se vuoi dimostrare a Penelope che ti piace, devi darti una mossa. È rimasta parecchio male, ad Halloween, quando mi hai presa da parte fuori dal dormitorio».
Non che glielo avesse detto apertamente, ma le occhiate sospettose e certe parole un po’ taglienti avevano reso chiarissimo il messaggio a Fera.
«E che dovevo fare?» Percy alzò le spalle. «Dirle che avevo perso…».
«No, ma magari potresti essere un po’ più carino con lei. E rinunciare a una partita per farle compagnia sarebbe l’ideale».
«Mi permetto di dissentire».
«Dissenti quanto ti pare, tanto lo sai che ho ragione».
«Fera, amica mia». Il suo tono si era fatto fastidiosamente paternalistico. «Capisco che il tuo background culturale ti impedisca di apprezzare qualcosa di diverso dal rugby – tra l’altro, un giorno mi spiegherai cosa ci trovi di tanto bello…».
Fera alzò gli occhi al cielo. «Cosa c’è di bello nel vedere uomini grossi e prestanti scontrarsi fisicamente per ottanta minuti, spargendo attorno sudore e ormoni? Già, me lo domando anch’io…».
«Dicevo, forse non hai ancora capito che per noi il Quidditch è fondamentale. Nessun mago o strega chiederebbe a un altro di rinunciare a una partita importante, mi spiego?».
La ragazza non rispose. Si limitò a fermarsi un gradino più in alto di lui e a fissarlo con tutta la severità possibile. Percy sostenne lo sguardo per una manciata di secondi, poi cedette. «Va bene, dopo la partita passerò l’intero pomeriggio in Infermeria con Penelope» sospirò, crollando il capo. «Contenta?».
«Abbastanza». Ripresero a camminare. «Lo sarei di più se io potessi evitare la partita…».
«Ah, no!» esclamò Percy. «Non se ne parla! Devi venire a vederla, ci sarà una formazione del tutto nuova, e Oliver dice che ha in serbo una sorpresa… Sarà una nuova tattica, ci scommetto. Magari ha deciso di seguire uno dei miei suggerimenti…».
«Se è intelligente, avrà sicuramente evitato di farlo».
Ignorando i brontolii scontenti di Fera, Percy continuò a parlare di Quidditch per altri dieci minuti. Fu la sua piccola vendetta per la discussione di poco prima.
 
*****
 
Med non amava il Quidditch. No, quella definizione non era corretta: Med detestava il Quidditch. Considerava gli sport un perdita di tempo e chiunque li praticasse un arrogante in cerca di fama e successo nel modo più facile possibile; con una tale disposizione d'animo, la ragazza non riusciva a comprendere come il resto della scuola andasse in visibilio per degli idioti in groppa a delle scope.
Tuttavia, quel giorno Med era sugli spalti insieme a Grace, Lobelia e Pansy, che cercava di darsi un tono facendosi vedere con studentesse più grandi di lei, secondo il consiglio datole dalla sorella. Mentre Lobelia aveva sfoggiato l'espressione più adatta al contesto – un misto di sorrisi e grida entusiaste rivolte al portiere con cui usciva – Grace aveva messo da parte dolci e schifezze varie per urlare colorite imprecazioni ai giocatori di Serpeverde e Grifondoro che, secondo lei, non sarebbero stati in grado di acciuffare una Pluffa nemmeno con un Incantesimo di Appello. Grace, aveva scoperto Med alla sua prima partita a Hogwarts, era la più grande tifosa di Quidditch che la Casa di Serpeverde avesse mai avuto.
«Cos'è, Flitt, non hai mai visto un portiere prima? Ci sono tre pali, cerca di beccarne almeno uno!».
Med rise sotto i baffi. Grace nella versione di tifosa era impagabile, ma non era per lei che si trovava lì: quando aveva finito di fare colazione e si era alzata per avviarsi verso il Lago Nero, dove avrebbe letto un buon libro, Adrian l'aveva intercettata.
«Verrai alla partita?» le aveva chiesto. Stava per rispondergli negativamente, ma poi aveva visto il suo sguardo supplicante.
«Io...».
«Dimmi che verrai, ti prego. Per me è importante che oggi ci sia anche tu».
Med non ne aveva fatto parola con nessuno, convinta che Lobelia avrebbe ripreso a gracchiare su quanto Adrian fosse pazzo di lei, e si era presentata alla partita con la scusa di voler ridere del nuovo acquisto della squadra di Grifondoro, il favoloso Harry Potter.
«Ci voleva un Bolide per togliere la palla a quell'incapace?! Su, così, vai, Adrian!».
Adrian aveva preso la Pluffa e si stava minacciosamente dirigendo verso i pali avversari, ma un secondo Bolide colpì la sua scopa, facendogli perdere la presa sulla palla.
«E ti pareva: Weasley...» commentò Med a bassa voce, riconoscendo una testa rossa con la mazza da battitore in mano. Sopra la sua voce, Grace stava imprecando sempre più forte, mentre Lobelia urlava parole di conforto al suo ragazzo che era appena stato sconfitto da un tiro della Johnson.
«Vai, tesoro mio, non preoccuparti! Resti sempre il migliore del mondo!».
Med guardò in basso, riflettendo seriamente sulla possibilità di lanciarla giù dagli spalti.
Dopo il vantaggio dei Grifondoro, Adrian aveva finalmente recuperato la Pluffa. Era difficile leggere la sua espressione a quella distanza, ma Med immaginò che fosse molto determinata: stava schivando Bolidi e Cacciatori con un'agilità impressionante, dimostrando di essere l'erede di quel grande giocatore di Quidditch che era stato suo padre – prima di scoprire l'alta pasticceria.
«Aspettate un attimo... ma quello non era il Boccino?».
La voce dello speaker della partita attirò l'attenzione di tutti; anche Adrian finì per distrarsi e perdere la palla, osservando il luccichio dorato sfiorargli la guancia. A Med non importava niente del Boccino, continuava a fissare il punto in cui Adrian era in volo, maledicendo Lee Jordan per avere interrotto quella splendida azione.
 
*****
 
Non c'era una tradizione per la sconfitta nella prima partita di stagione. Non ce n'era neanche per le altre due; semplicemente, i Serpeverde non perdevano – almeno da quando Adrian era entrato nella squadra. A giudicare dai volti dei suoi compagni, la precedente sconfitta contro Grifondoro doveva essere avvenuta molto, molto tempo prima.
Adrian cacciò la divisa nella borsa, premendo per farcela entrare senza doverla piegare: era stanco, avvilito e voleva soltanto tornare nel dormitorio e passarci l'interadomenica. Nemmeno la doccia negli spogliatoi era riuscita a calmarlo.
Accanto a lui, Marcus ribolliva di rabbia. Tutti avevano visto l'espressione trionfante di Baston quando quell'idiota di Potter aveva sputato il Boccino. Si era mai vista un'azione tanto assurda? In una partita seria, fuori da Hogwarts, nessuno avrebbe considerato valida quella presa. Purtroppo per loro, Madama Bumb la pensava diversamente da un arbitro vero e aveva concesso ai Grifondoro la vittoria. Marcus era furioso, imprecava e sbatteva i pugni contro gli armadietti tra una frase e l'altra, ma Adrian era quello che se la passava peggio; era il solo, di tutta la squadra, a essere a conoscenza del proprio disagio, ma era anche consapevole che nessuno di loro la stesse prendendo male quanto lui.
Nonostante il caldo, si infilò il mantello e tirò su il cappuccio mentre usciva dagli spogliatoi in silenzio. Teneva la testa china, determinato a non incontrare alcun tifoso sbeffeggiante, e fu per quello che non la vide; tuttavia quando la udì preferì non averlo fatto. Accelerò il passo.
«Adrian, fermati!».
Con un piede ancora sollevato, decise che fuggire non sarebbe servito a niente. Sospirò e si voltò. «Ti ho fatto perdere tempo».
«Sì, è vero» ammise Med senza peli sulla lingua. «Ma avevi detto che dovevo esserci a ogni costo. Una roba del genere».
Adrian alzò lo sguardo al cielo e sbuffò, profondamente irritato con se stesso. «Senti, è stato inutile. Volevo fare una splendida partita e invece ho giocato di merda. Non c'è altro da dire».
«Non penso che tu abbia giocato di merda».
Ci volle un po' per convincerlo che era stata sincera: lo fissava con le palpebre socchiuse e le braccia conserte, forse in attesa che lui dicesse altro. Ma non che la contraddicesse. Nessuno contraddiceva Med. Mai. Gli scappò un sorriso.
«Quel Potter ha avuto una fortuna pazzesca, eh?». Si passò una mano fra i capelli neri, cercando di spiegare il motivo di quella smorfia divertita e triste che era spuntata sulle sue labbra. «Se avessimo avuto altro tempo per giocare, forse avrei potuto... Ma no...».
«Adrian, parla. Ho passato la mattinata in uno squallido campo pieno zeppo di stupidi tifosi di un gioco che neanche capisco come faccia a riscuotere tanto successo, ho rinunciato a un paio d'ore di lettura ben più proficue e ora sono qui, fuori dagli spogliatoi, mentre in Sala Grande stanno già cominciando a servire il pranzo. Quindi...». Fece un passo verso di lui, quasi incenerendolo con il suo sguardo inquisitorio. «Vedi di dirmi per quale cavolo di motivo mi hai implorato di vedere questa cavolo di partita».
«Perché mi sono allenato per tutta la settimana!» sbottò Adrian, incredulo. Come poteva non esserci ancora arrivata? «Perché questa era la prima partita della stagione e volevo segnare un sacco di pali per impressionarti! Così poi... poi...». Avvertì le guance ribollire e si chiese quanto rosse stessero diventando. Con la coda dell'occhio vide la testa di Med inclinarsi verso destra, cercando forse di seguire il suo ragionamento. Sospirò. «Così poi ti avrei chiesto di venire con me a Hogsmeade, sabato prossimo».
Non osservò la sua reazione perché era troppo impegnato a guardarsi la punta delle scarpe: aveva paura di vedere il disgusto – beh, uno ancora maggiore del solito – sul suo volto. Il cuore gli batteva molto più forte di quando aveva cominciato a giocare, perché a Quidditch era bravo, ma con la donna della sua vita non aveva alcuna speranza. Soprattutto dopo avere fallito così miseramente il tentativo di impressionarla.
Stava per decidersi a fare un passo indietro e fuggire via verso la scuola, gridandole che era solo uno scherzo architettato da Grace o roba del genere, quando la sentì parlare.
«Va bene. Ci sto».
 
*****
 
8 novembre 1991
 
«Cosa farai domani?».
Percy fece spallucce. «Andrò a Hogsmeade, suppongo».
«La tua capacità di ribadire l’ovvio ha del sorprendente» sbuffò Catherine.
Era la loro prima ronda notturna insieme e, se continuava così, sarebbe stata anche l'ultima. Dapprima avevano discusso sul giro da seguire all'interno di Hogwarts, poi avevano avuto un diverbio circa l’importanza o meno di rispettare le direttive dei Capiscuola in merito, infine si erano accapigliati sulla competenza (o incompetenza) dei suddetti Capiscuola. In tutti e tre i casi, Catherine aveva avuto la meglio, perciò Percy le stava riservando il trattamento del silenzio: frasi smozzicate, risposte a monosillabi e contegno generale di un bambino di cinque anni.
Se solo Catherine avesse avuto un carattere diverso – un carattere paziente, o quantomeno indifferente – se ne sarebbe sbattuta. Purtroppo non era così. Non era paziente, né indifferente, e soprattutto non lo era nei confronti di Percy Weasley. Aveva iniziato a conoscerlo in secondo anno, dopo aver fatto amicizia con Fera, e avrebbe davvero voluto instaurare un ottimo rapporto con lui, ma quello lì era così testardo che la mandava in bestia. Il che la faceva ostinare ancora di più nel tentativo di essere una buona amica per lui.
«Beh? Che c'è, ora non puoi nemmeno sostenere una conversazione civile?» insistette, di fronte al suo prolungato silenzio.
Percy sbuffò. «Non ho alcun programma in mente».
«Davvero? Nemmeno con Light?».
Seguì un altro silenzio. Catherine non aveva idea di quanto fosse dolente il tasto appena toccato: solo un paio d’ore prima, dopo cena, Percy era tornato in Infermeria dove Penelope stava per essere dimessa, intenzionato a chiederle di uscire con lui l’indomani. Niente di che, solo una passeggiata, una Burrobirra ai Tre Manici di Scopa... Giunto lì, però, si era imbattuto in un gruppetto di Corvonero cinguettanti che circondavano la ragazza dei suoi sogni, gioiose per la sua guarigione, e la invitavano a un pomeriggio di shopping l’indomani.
Che fortuna, eh. Proprio quando aveva deciso di seguire il consiglio di Fera di essere un po’ più propositivo con Penelope...
«Lei ha da fare» rispose.
«Si è rifiutata di uscire con te, vero? Tipico» Catherine ignorò il tentativo di Percy d’interromperla. «L’ho capito subito, quella è la classica ragazza che sulle prime ti fa un miliardo di moine e poi ti molla sul più bello. Non la sopporto».
«Hai frainteso completamente, lei non…».
«Sì, è uguale, non la sopporto lo stesso».
Attraversarono una galleria piena di ritratti addormentati, badando di non illuminarli direttamente con le bacchette. I giri di pattuglia, per fortuna, non duravano tutta la notte né si svolgevano ogni sera; nonostante ciò, svolgerli era in assoluto il compito più noioso per i Prefetti. Resistere alla voglia di addormentarsi, in particolare, era difficilissimo, ma con Catherine il problema non sussisteva: la sua voce querula e imperiosa avrebbe svegliato un orso in letargo.
«E Fera? Esci con Fera!».
«Anche lei è occupata. Ha un appuntamento».
«Lei…» La Tassorosso si fermò e iniziò a balbettare. «Lei ha… cosa?!».
«Un appuntamento» scandì Percy.
«Ma cosa… come… Chi?».
«Edmund Fawley».
«Chi?».
«Come chi? Il Prefetto di Corvonero, quello del sesto anno. Domenica scorsa si sono visti dopo la partita e hanno passato il pomeriggio insieme, poi si sono incontrati altre volte dopo le lezioni, oggi lui le ha chiesto di uscire e…»
«Ma intendi dire Ed?!» squittì Catherine. «Quell’Ed?!»
Per Merlino, cos’era quel tono sorpreso? Sull’Espresso tutti si erano accorti delle occhiate che si scambiavano; a parere di Percy, avrebbero dovuto iniziare a frequentarsi ben prima. Lo disse, ma Catherine non lo stava minimamente ascoltando.
«Non mi ha detto niente!». La sua voce era acutissima, di certo avrebbe svegliato i ritratti dell’intero piano. «Ha un appuntamento per la prima volta in vita sua, e non mi ha detto niente!».
«Forse sapeva che avresti reagito così».
«Ma Ed! Perché esce con quello là?».
«Lo trova un bel ragazzo…».
«A Fera non serve un bel ragazzo, le serve uno alla sua altezza!».
«Fawley è ben più che alla sua altezza: è un Prefetto». Percy pronunciò l’ultima parola come se racchiudesse tutti gli attributi positivi del mondo.
Catherine storse il naso. «Non è mica l’unico Prefetto della scuola…».
Lo disse in tono casuale, ma Percy, che la conosceva dal secondo anno, sapeva quale insinuazione fosse celata in quella frase. Voleva risponderle per le rime, e al contempo non intendeva darle soddisfazione.
«Personalmente, sono contento per Fera». Svoltarono un angolo e si fermarono, in attesa dell’arrivo di una scala per il piano superiore. «Considerando che non è mai stata ricambiata, finora, avere un ragazzo può solo farle bene…».
«No, se il ragazzo non è giusto per lei, e quell’Ed non è giusto per lei!».
La scala si spostò di fronte a loro. Percy vi saltò subito sopra e aiutò Catherine a fare altrettanto. «Ma che ne sai? Se lo conosci a malapena!».
«Non ho bisogno di conoscerlo. So già che Fera dovrebbe stare con te».
Percy si bloccò mentre saliva un gradino. No, non era possibile: aveva davvero tirato fuori quella storia? Ma basta! Da quando Catherine aveva conosciuto Percy, pochi giorni dopo l’aver fatto amicizia con Fera, si era letteralmente fissata con l’idea – insensata, peraltro – che loro due dovessero mettersi insieme. Nessuna ragione in particolare, se non quella che, essendo amici e passando molto tempo assieme, tale passo fosse inevitabile. L’aveva anche detto apertamente a entrambi, e da entrambi aveva ricevuto la stessa identica risposta.
Tu non sei normale, Catherine.
«Ne abbiamo già parlato» sbuffò Percy. «Non potremmo mai metterci assieme, io e Fera».
«Perché?! Insomma, è vero, tu non sei carino o simpatico…».
«Grazie».
«… ma la conosci meglio di chiunque altro, e poi… Oh, io so di avere ragione, e quando so di averla, di solito ce l’ho. Ecco».
Percy fece spallucce. Il loro turno di ronda era quasi finito: non valeva la pena di insistere in quella sterile discussione, visto che tanto lei non avrebbe cambiato idea. «Vedrò di convivere con questa consapevolezza» rispose.
Un fantasma passò loro accanto, ignaro di tutto. Voltandosi ad osservarlo, Percy guardò Catherine: il suo viso, illuminato dalla fioca luce della bacchetta, era aperto in un sorriso enigmatico.
«Che c’è?» domandò, brusco.
«Niente» rispose la ragazza. Percy avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma da qualche parte una pendola suonò le due. La ronda era terminata.
 
*****
 
9 novembre 1991
 
Non aveva mai visto un posto più rosa. Non c'erano altre parole per descrivere il locale di Madame Piediburro: tutto era rosa, dalle pareti alle tazze da tè, dalle tende ai fastidiosi cuscini posati su ogni sedia. Tutto era rosa e, quando poteva, anche di pizzo.
Med si sentiva estremamente a disagio; aveva sperato in un inizio confortevole, quel che serviva per farla adattare alla situazione di per sé imbarazzante, e invece era stata trascinata in quell'improponibile obbrobrio non appena avevano messo piede a Hogsmeade. E per fare cosa? Rimanere in silenzio per oltre mezz'ora, senza guardarsi in faccia e tenendo le braccia strette al petto. Proprio la realizzazione del suo appuntamento ideale.
Me ne vado.
Se lo stava ripetendo per la cinquantunesima volta, sempre più decisa a farlo, ma ancora ben lontana dal prendere una scelta definitiva. Quel posto le faceva venire il voltastomaco, il disagio la stava inghiottendo, tuttavia non voleva ferire i sentimenti di Adrian; se si fosse trattata di una qualsiasi altra persona non ci avrebbe pensato due volte, ma si era affezionata a lui quel tanto che bastava a non spaccargli il cuore dopo una sola mezz'ora di imbarazzo. Altri venti minuti e sarebbe stata pronta a farlo.
La proprietaria interruppe le sue riflessioni trasportando le ordinazioni. Pose davanti a loro due tazze di tè, una zuccheriera e una decina di biscotti allo zenzero e al cioccolato, poi si congedò con un sorriso. Probabilmente disse qualcosa, ma tutto quel che Med riuscì a capire fu: «Rosa, rosa, rosa».
Adrian sollevò il coperchio della zuccheriera e finalmente si decise a guardarla in faccia. «Quanto zucchero?».
Davvero un ottimo inizio. Non parliamo da quando ci siamo seduti e il primo argomento è lo zucchero. Non ci sono più dubbi: è il fratello di Grace.
Ricordò i pomeriggio passati con Louis tra Mielandia e l'Emporio degli Scherzi di Zonko, giornate radiose rispetto al pessimo appuntamento che stava passando; aveva potuto approfittare di pochi sabati prima che il suo migliore amico si diplomasse, ma erano stati i momenti più belli della sua vita. Era stato sciocco pensare che, senza di lui, Hogsmeade sarebbe rimasta la stessa.
«Mezzo cucchiaino» rispose di malavoglia. Da quando aveva perso quei chili durante l'estate stava cercando di fare il possibile per non recuperarli in fretta – anche se ciò significava dover bere un tè più che amaro per i suoi gusti.
«È... è un posto particolare, vero?» tentò di conversare Adrian, versandole lo zucchero richiesto.
«Decisamente».
«Sapevo che Grace e Lobelia avrebbero voluto seguirci. Così mi sono fatto dire quali locali ci fossero a Hogsmeade e ho scelto... il posto meno adatto a te. Quello in cui sarebbero state certe di non poterti trovare».
Di colpo tutta l'antipatia che stava nutrendo nei confronti del ragazzo sparì dalla testa – e dallo stomaco – di Med: c'era un motivo per cui erano lì, un motivo valido, non era un tentativo di impressionarla con gli addobbi più diabetici dell'universo conosciuto. Senza rendersene conto, sorrise.
«Hai avuto una buona idea. Per quanto questo posto... mi dia la nausea».
«Ce ne andremo il prima possibile, te lo prometto.» Adrian sorrise a sua volta, porgendole il piatto con i biscotti. «Mi dispiace, sono una frana, ma non so come comportarmi esattamente».
«Prova a parlarmi come sempre».
Lo stesso consiglio che sto tentando di darmi da un'ora, pensò Med, afferrando un biscotto ricoperto di cioccolato.
«Con i tuoi ex funzionava?».
Aggrottò la fronte e distolse lo sguardo. «Non ho mai avuto un appuntamento prima. Mica lo so, come si fa in questi casi. Però mi sembrava il consiglio più sensato».
«Scusami, scusami» esclamò subito Adrian, avvampando fino alle occhiaie – non doveva avere dormito molto, quella notte. Probabilmente anche Med aveva le stesse occhiaie. «Credevo che tu... che tu... beh... Sei molto carina, quindi era sensato che... Anche se l'anno scorso non eri... ehm... Sto perdendo il controllo».
Med scoppiò a ridere, ringraziando la confusione di Adrian per averla messa finalmente a proprio agio: si sentiva esattamente come lui, il suo stomaco si apriva e si chiudeva di continuo, il cuore palpitava forte nel petto. Non le era mai successo prima e solo l'imbarazzo del ragazzo era riuscito a distrarla.
Adrian la stava fissando a bocca spalancata. Passano tre, cinque, dieci secondi, poi finalmente sbatté le palpebre e si sporse verso di lei. «Aspetta, Med, sei sporca di cioccolato...». Allungò un dito per pulirle la guancia, ma – senza che lei si rendesse conto di come fosse successo – a toccarle il volto furono le sue labbra. Che si posarono esattamente su quelle di Med.
Lo stomaco si aprì di nuovo, questa volta senza richiudersi, e la testa divenne d'un tratto leggera. Non aveva mai provato una sensazione simile. Quando Adrian si ritrasse, rosso più di prima, e cominciò a chiedere scuse su scuse, Med lo afferrò per la maglietta e lo tirò verso di sé, baciandolo di nuovo.
Appena torno a Hogwarts devo scriverlo a Louis!
 
  
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