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Autore: Lilith in Capricorn    21/06/2016    1 recensioni
In un mondo in cui la magia è scomparsa da ben 1300 anni e gli dèi hanno smesso di parlare con i mortali ormai da tempo, l'Impero Katileo è all'apice del suo sviluppo tecnologico e la sua sete di conquista sembra incontrastabile. Ha ormai sotto il suo controllo gran parte del Grande Continente, ma una nuova alleanza di regni del nord sembra essere in grado di tenergli testa: la guerra con il Wesmark Settentrionale e Meridionale, infatti, va avanti già da diversi anni e sembra non vi sia modo di uscire dall'impasse ... Finché l'Imperatore Kut non ha un'idea brillante e ambiziosa e decide di mettere insieme una spedizione per realizzarla.
Intanto, antichi misteri, enigmatiche profezie e arcaiche forze da tempo sopite iniziano a riemergere dalle profondità dell'oblio, ma non tutti sembrano rendersene conto ...
Genere: Avventura, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Violenza
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Capitolo 3: La schiava di Kendart
 
Tac ... Tac ... Tac ...

Zap ... Zap ... Zap ...

Intervallati da qualche colpo di tosse, erano questi gli unici suoni che Mereis sentiva da giorni, per tutto il giorno. Ogni volta che veniva calata nella miniera di Kendart assieme agli altri, nei primi minuti quei suoni erano soltanto fastidiosi; poi il loro continuo ripetersi senza sosta la riempiva di un'ansia che non sapeva spiegare, infine diventavano quasi ipnotici e la sua mente li riduceva ad un rumore di sottofondo, al quale neanche faceva più caso, a meno che le sue orecchie non avvertissero qualche strana variazione.

A forza di lavorare in quei cunicoli bui e stretti, infatti, il suo udito si era affinato a tal punto che aveva imparato a riconoscere ognuno dei suoi compagni dal modo in cui maneggiava il piccone o la pala e dai colpi di tosse. Se c'era anche solo un elemento fuori posto in quella cacofonia, Mereis lo capiva subito e più di una volta si era ritrovata a dover trascinare all'esterno qualcuno che era svenuto per la fatica, o perché aveva i polmoni talmente saturi di polveri che non riusciva più ad inspirare abbastanza aria. Una volta, purtroppo, non era arrivata in tempo.

Era proprio questa la sua paura più grande, più delle sferzate dei guardiani e più del non riuscire ad andarsene mai da Kendart: morire soffocata nell'oscurità di quei cunicoli, immersa nella polvere e nello sporco sia fuori che dentro, lontana dalla luce e da qualunque cosa buona al mondo, ironicamente circondata da una miriade di pietre preziose. Era questo, infatti, che cercavano là sotto: gemme allo stato grezzo che andavano ripulite il più possibile dalla terra e accumulate in piccole casse che, una volta riempite a sufficienza, dovevano trasportare fuori, fino al campo di lavoro.

Non si usciva dalla miniera finché le cassette non erano piene e questo, il più delle volte, richiedeva interi giorni durante i quali quasi ci si dimenticava la sensazione del sole sulla pelle, la carezza del vento tra i vestiti e tra i capelli e il sapore dell'aria fresca e pulita. Era pressoché impossibile fare un po' di conversazione: gli altri schiavi, proprio come lei, provenivano dalle zone di conquista dell'Impero Katileo più disparate e le uniche parole in comune che tutti conoscevano erano gli ordini abbaiati dai guardiani.

Quando questi vennero finalmente ad annunciare che il materiale raccolto era sufficiente e che era ora di tornare in superficie, Mereis dovette trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo, per evitare di inalare ancora più polvere. Legandosi i propri attrezzi sulla schiena, andò verso una delle cassette e aiutò lo schiavo che la stava sollevando a trasportarla. Non che fosse pesante, ma dopo qualche giorno di spalate e picconate le braccia o non te le sentivi più, o te le sentivi fin troppo.

Non appena Mereis riemerse dalle profondità della miniera, l'intensa boccata di aria fresca e libera dalle polveri la fece tossire violentemente e, sebbene la notte fosse già calata, la pallida luminescenza delle due lune, Zèchtos e Zechtosèa, bastò ad accecarla per qualche istante. Come lei, anche gli altri schiavi di Kendart dovettero fermarsi un attimo a recuperare fiato e parte della vista, prima di poter procedere giù lungo il ripido sentiero, scortati verso il campo di lavoro dallo sguardo sempre vigile dei guardiani.

Questi procedevano in mezzo a loro a cavallo dei loro robusti tarkal di montagna, del tutto identici a quelli che delle zone più calde, eccetto che per le dimensioni e per la folta peluria che ricopriva i loro corpi massicci e coriacei. In sella ai giganteschi rettili, i guardiani tenevano sempre la mano destra sul fianco, tra il bastone sottile e flessibile e la spada, in modo da poter subito sferzare o all'occorrenza uccidere chiunque, secondo loro, lo meritasse.

Nel giro di pochi minuti, la vista di Mereis si adattò alla nuova luminosità e i polmoni smisero di farle male. Non aveva idea di quanti giorni avesse trascorso là sotto. Non ce l'aveva mai, era impossibile capirlo senza il sole. Difatti, non avrebbe neanche saputo dire da quanto tempo si trovasse lì, nel campo di lavoro di Kendart, tra le vette dei Monti Luccicanti, chiamati così per l'incredibile abbondanza di metalli e pietre preziose che era possibile trovare scavando nella roccia.

Per fortuna non sarebbe dovuta tornare laggiù tanto presto, dato che le squadre di minatori si calavano a turni giù per i cunicoli. Certo, in superficie non avrebbe potuto riposarsi, ma qualunque altro compito era meglio che lavorare in miniera. Quando non sgobbavano laggiù, i guardiani affidavano loro le mansioni più disparate, a seconda delle capacità di ognuno. C'era chi puliva i loro alloggi, chi stava in cucina, chi si occupava dei tarkal e degli altri animali ... Mereis, di solito, doveva mantenere in ordine le officine in cui alcune delle pietre venivano tagliate, prima di essere vendute. Non tutti i gioiellieri, a quanto pareva, le tagliavano da sé e c'era chi preferiva comprare le gemme già pronte per essere incastonate nelle loro creazioni.

A differenza dei minatori, gli intagliatori non erano schiavi provenienti da lontane terre conquistate, o ex uomini liberi che avevano un debito da saldare verso il proprietario della miniera. La maggior parte di loro erano artigiani. Tutti gli altri, invece, erano bambini o ragazzini, molti dei quali orfani, portati lì per apprendere da loro il mestiere. Per un orfano era una gran bella fortuna, poiché non solo gli intagliatori erano discretamente retribuiti, ma anche perché alcuni dei gioiellieri che preferivano modellare da sé le gemme di tanto in tanto ne portavano qualcuno via con sé.

Certo, non era una garanzia, anzi: era una finestra di opportunità che si apriva molto di rado; ma quando accadeva tutti gli intagliatori erano eccitatissimi e la competizione raggiungeva dei livelli spaventosi, tanto che i giovani più promettenti dovevano continuamente guardarsi le spalle dalla perfidia dei più ambiziosi. L'anno precedente, ricordò Mereis, uno dei ragazzi migliori aveva avuto uno strano "incidente", in circostanze mai del tutto chiarite, in cui si era ustionato a tal punto le mani che aveva dovuto mettersi a riposo per settimane, perdendo l'occasione di dimostrare le sue capacità.

Il rapporto tra gli intagliatori e gli schiavi era alquanto tiepido: nonostante i primi guardassero i secondi con aria di sufficienza, non li maltrattavano mai, anzi, quando i guardiani punivano o picchiavano uno schiavo, talvolta senza alcun valido motivo, i loro sguardi si riempivano di compassione e qualcuno si adoperava anche a fornire al malcapitato un po' di cibo in più e qualcosa per medicare le ferite.

Fra i guardiani più sadici, con la tendenza ad abusare del proprio potere, c'era EilanTārmend, figlio del proprietario della generosa miniera di Kendart. Eilan era uno di quei giovani rampolli di famiglia altolocata convinti che sia sufficiente gridare ordini a destra e a manca per mandare avanti una miniera, un podere, o persino una nazione, senza impegnarsi a studiarne a fondo le meccaniche. Eilan era un pessimo guardiano e sarebbe stato un padrone persino peggiore, una volta ereditata la proprietà del padre, di questo Mereis ne era convinta.

Se solo Kendart non fosse stato un posto tanto orrendo, sarebbe rimasta volentieri per godersi il giorno in cui il ragazzo avrebbe sperperato tutto il suo patrimonio e si sarebbe visto portare via anche la miniera. Allora sì che avrebbe potuto vendicarsi per bene di tutte le angherie subite, assieme ai suoi compagni. Soprattutto per quella volta che aveva cercato di violentarla.

A Kendart non era insolito che gli schiavi subissero anche questo genere di violenza da parte dei guardiani e Mereis aveva sempre saputo che prima o poi qualcuno avrebbe messo gli occhi sui suoi tratti esotici. Così, quando Eilan si era fiondato su di lei una sera, mentre era intenta a riordinare le ultime cose nell'officina, Mereis aveva saputo reagire prontamente, senza curarsi delle conseguenze, riuscendo ad avere la meglio su di lui colpendolo in faccia col primo attrezzo su cui era riuscita a mettere le mani.

Per sua fortuna, il giovane era fortemente orgoglioso e non avrebbe mai rischiato di compromettere la sua immagine di uomo forte e vigoroso accusando pubblicamente una donna, per di più schiava, di avergli fatto saltare due denti mentre cercava di sottometterla. Mereis era così scampata ad una dolorosa punizione, anche se nei giorni successivi il giovane guardiano aveva continuato a negarle tutti i pasti, finché lei non aveva perso i sensi nell'oscurità della miniera.

Doveva essere un vizio di famiglia, visto che era accaduta una cosa simile anche con il suo precedente padrone, zio paterno di Eilan. Genan Tārmend, infatti, l'aveva comprata al solo scopo di farne la sua concubina e, quando lei aveva opposto resistenza, riuscendo persino a cavargli un occhio, lui si era vendicato marchiandola a fuoco sul collo e relegandola nella miniera del fratello, per non rendere pubblica la faccenda.

A Kendart, e forse in tutto l'Impero, Mereis era l'unica a portare il Marchio dello Schiavo, poiché si trattava una pratica barbara e ormai desueta. Un tempo, il triangolo rovesciato, con all'interno un ovale più grande sopra uno più piccolo, avrebbe avuto un effetto molto più concreto sulla sua vita, poiché avrebbe sottomesso la sua volontà a quella del suo padrone. Tuttavia, era dai tempi della congiura del Traditore, quasi quattordici secoli addietro, che la lingua degli dèi aveva perduto la sua magia, perciò la pratica, oltre che brutale, era anche del tutto inutile.

Certo, quando il marchio era impresso in un punto tanto esposto la sua sola presenza poteva influire comunque sulla vita di chi lo portava: Mareis sapeva che, semmai fosse stata di nuovo libera, non avrebbe potuto vivere il resto dei suoi anni nel modo semplice e sereno che aveva sempre desiderato. Non con quell'orribile grumo di pelle raggrinzita e sporgente sul collo. Nessuno l'avrebbe mai considerata davvero sua pari e nessuna magia avrebbe mai potuto cancellarlo.

Se non altro, si era rassegnata presto all'idea e ormai neanche ci pensava più: il suo unico desiderio era riuscire ad andarsene via da Kendart, non importava come, né verso quale orizzonte. Tutto ciò che voleva era allontanarsi da quel posto maledetto che stava pian piano uccidendo il suo corpo e il suo spirito. E per fortuna presto, molto presto, le cose sarebbero finalmente cambiate.

*
 
«Mereis» la chiamò piano e soltanto una volta il vecchio Dinke, scuotendola leggermente. Poiché negli ultimi tempi aveva iniziato ad avere il sonno leggero, la donna si svegliò immediatamente, osservando nella semioscurità il lungo volto del vecchio intagliatore.

«Cosa c'è?» bisbigliò stanca, stropicciandosi un occhio.

«È qui.»                   

«Chi?»

«Che vuol dire "chi"? Urem Tolban, ovviamente!»

«Cosa?» sibilò incredula la schiava, mettendosi a sedere sulla sua sporca e pidocchiosa cuccetta, uguale a tutte le altre su cui dormivano gli altri schiavi del capannone. «Non è possibile.»

«Ti dico che è qui: l'abbiamo visto arrivare questo pomeriggio, poco prima che il sole calasse. Dovevi vedere i giovani intagliatori, sembravano impazziti! Pensa che il piccoletto con i capelli rossi ha addirittura ...»

«No» ripeté Mereis sconvolta. «Non è possibile, non doveva essere qui prima di tre giorni.»

Il vecchio Dinke si strinse nelle spalle. «Che vuoi che ti dica? Non so perché sia arrivato così in anticipo, ma sta di fatto che è qui.»

«No ... No ...» ripeté lei come ipnotizzata, fissando scioccata il vuoto davanti a sé.

«Mereis» la chiamò l'intagliatore, prendendole le mani nelle sue. «Mereis, ascolta: devi finire il lavoro. Questa notte.»

«Non posso. Non ce la faccio, non posso. Sono troppo stanca, mi fa male tutto. Le braccia mi tremano e ... e non riesco nemmeno a concentrarmi! Non po ...»

«Ssh» la rimproverò il vecchio, tappandole la bocca con una mano. «Abbassa la voce.» Poi si guardò intorno, accertandosi che nessuno si fosse svegliato.

«Non posso farcela, Dinke» proseguì la schiava, stanca e rassegnata.

L'uomo portò le mani ai lati del suo viso e la costrinse a guardarlo negli occhi. «Mereis, ascoltami attentamente: tu devi andartene da questa miniera e devi farlo adesso, perché la prossima volta che si ripresenterà un'occasione del genere, e solo il dio Mechnin sa quando ciò accadrà, francamente dubito che tu sarai ancora qui per approfittarne.»

La donna lo fissò in silenzio per qualche istante, stupita e interdetta. «Ma cosa ...»

«Lo sento come respiri, Mereis. Sento il rantolo che fai ogni volta che tiri dentro l'aria e il fischio che esce quando la butti fuori. Soprattutto quando dormi.»

La schiava esitò ancora, prima di parlare. «No ... Ti sbagli. Io mi sento bene.»

Il vecchio scosse la testa. «Lavoro qui da tanti anni, mia cara, è una cosa che ho visto già altre volte. Credimi: se non smetti al più presto di respirare tutte quelle polveri, sei fortunata se vivrai ancora un altro anno.»

Mereis, per tutta risposta, continuò a fissarlo inebetita.

«È questa la verità. Mi dispiace» aggiunse l'uomo, accarezzandole il viso aggraziato e tondeggiante, anche se non più pieno e luminoso come un tempo.

«Guardami» sussurrò lei con voce rotta, porgendogli le mani e gli avambracci perché lui capisse. «Guarda.»

Dinke guardò e vide che i suoi arti tremavano incontrollati e che erano tanto indeboliti che le mani penzolavano dai polsi come se non appartenessero più a quel corpo.

Il vecchio sorrise. «Per questo ho la soluzione» disse, tirando fuori da una tasca un involucro di stoffa. Quando lo aprì, Mereis vide che conteneva delle lunghe foglie chiare e appuntite che non aveva mai visto prima.

«E queste come dovrebbero aiutarmi?»

Dinke fece un sorriso ancora più ampio. «Masticale.»

La schiava osservò di nuovo il contenuto dell'involucro, poi gli lanciò uno sguardo scettico.

«Fidati: allevieranno la fatica e ti faranno stare bene, per qualche ora.»

Allora, Mereis ne prese una e, dopo averla squadrata ancora un po', se la mise in bocca. Il sapore era amarognolo e tutt'altro che gradevole. Inoltre, per quanto masticasse, non percepiva alcun effetto particolare.

Dinke non riuscì a trattenersi dal ridere, davanti alla sua faccia disgustata. «Prendine ancora, una non basta.»

«Ma cos'è questa robaccia?»

«I guardiani se le fanno spedire della penisola Katilea. Pare che costino una fortuna.»

«Le hai rubate a un guardiano?» chiese Mereis stupita, costringendosi a masticare un'altra foglia.

«A più di uno, in realtà. Per una buona causa.»

«Beh, grazie, Dinke.» Poi, inarcando le sopracciglia, aggiunse: «Credo.»

Il vecchio rise di nuovo. «Dagli qualche attimo e vedrai che ti faranno subito sentire meglio.»

Proprio come lui aveva promesso, alcuni minuti dopo Mereis si sentiva già più sveglia e rinvigorita, oltre che sazia.

«Non so cosa fossero quelle foglie» dichiarò dopo essersi messa a lavoro in una delle officine, «ma quando sarò libera giuro che le coltiverò su ettari ed ettari di terreno. Sono meglio di un buon pasto e di una lunga dormita messi insieme.»

«Non lasciarti ingannare dai benefici di questa pianta» la ammonì il vecchio, che le faceva da palo alla porta. «È solo un inganno: quando l'effetto finirà, sarai ancora più stanca e affamata di prima.»

«Non importa: è sufficiente che duri abbastanza da farmi finire questa pietra.»

La pietra in questione era niente meno che un diamante che Mereis, dopo aver estratto dalla terra alcune settimane addietro, si era nascosta tra i folti ricci aggrovigliati. Con la complicità di Dinke, notte dopo notte, aveva iniziato tagliarlo, non più di un'ora alla volta, perché a fine giornata era esausta e non poteva permettersi di commettere errori.

Il piano era semplice: approfittare del primo gioielliere in cerca di un intagliatore per mostrargli il suo lavoro e sperare, così, di potersene andare con lui. Mereis aveva pochi dubbi sul fatto che la sua gemma sarebbe stata apprezzata: aveva visto i lavori degli altri ed era abbastanza sicura di poter fare di meglio. Dopotutto, la sua gente aveva fatto dell'intaglio una vera arte e, sebbene la loro tecnologia fosse di gran lunga inferiore, la loro abilità era impareggiabile. Anche senza l'ausilio di tutti quei macchinari complessi e rumorosi, Mereis avrebbe realizzato un taglio molto buono, se non addirittura eccellente.

Inoltre, il solo fatto di essere riuscita da sola e con pochi mezzi a realizzare un taglio superiore a quello buono su di un diamante, la pietra più dura al mondo, l'avrebbe sicuramente fatta notare. Se solo Urem Tolban non fosse arrivato così in anticipo, avrebbe potuto finire il lavoro con più calma, invece di trascorrere più di tre ore nell'officina, con il rischio di commettere errori, o di essere scoperta. Non sapeva come avrebbe reagito un guardiano trovandola lì a maneggiare un prezioso diamante, ma di sicuro non bene, visti anche i suoi precedenti.

Mereis, infatti, aveva già cercato di fuggire assieme a un manipolo di schiavi, una volta, poco dopo essere giunta a Kendart. Eilan Tārmend, purtroppo, era riuscito chissà come a trovarli nelle immense foreste e, dopo averli riportati dritti al campo, quasi li aveva ammazzati a bastonate. Era stato allora che aveva stretto amicizia con Dinke: il vecchio era stato a sua volta uno schiavo, molti anni addietro, e doveva aver rivisto qualcosa di sé nella furbizia, nella determinazione e nel senso di dignità della giovane Mereis. E la sua ammirazione per lei non avrebbe potuto non consolidarsi, dopo che la schiava era riuscita a sfuggire all'aggressione di Eilan nell'officina, poche settimane dopo.

Da allora, il vecchio intagliatore aveva sviluppato una grande simpatia nei suoi confronti e aveva sempre cercato di proteggerla e aiutarla, ogni volta che poteva. In tutta sincerità, la giovane schiava provava un profondo imbarazzo nel non poter fare nulla di concreto per ricambiare la gentilezza e le cure di Dinke, nonostante lui insistesse nel dire di non desiderare nulla in cambio.

«Il fatto che tu ricambi questo affetto e che mi permetti di prendermi cura di te è una ricompensa sufficiente» le aveva detto, dopo che lei aveva espresso il suo imbarazzo. «Sai, io non ho mai avuto figli: in gioventù sono stato uno schiavo e, quando sono stato liberato, il mio unico pensiero era riuscire a trovare un modo per tirare avanti. Non c'è tempo per pensare alle donne e a sistemarsi, mi dicevo, che razza di vita speri di poter offrire ai tuoi figli? Così, purtroppo, non ne ho mai messi al mondo, ma se lo avessi fatto probabilmente oggi avrebbero la tua età.»

Mereis, allora, non aveva aggiunto altro. Non c'era ragione di negare al vecchio quel piacere.

Perciò, quando lei gli aveva illustrato il suo piano e chiesto di coprirla mentre lavorava il diamante, non era rimasta sorpresa dall'entusiasmo con cui Dinke aveva accettato, anche se si era sentita terribilmente in colpa per averlo coinvolto in quella pericolosa faccenda. Gli aveva proposto di fingere di averla appena colta con le mani nel sacco, semmai qualcuno li avesse scoperti, ma l'intagliatore si era categoricamente rifiutato di tradirla e Mereis aveva presto capito che insistere sarebbe stato inutile.

Per questo ora stava tentando di limare e levigare la pietra alla massima velocità con la quale sentiva di poter andare, senza correre il rischio di commettere errori e danneggiare irreparabilmente il diamante. Non voleva finire nei guai, ma soprattutto non voleva che il premuroso Dinke pagasse per lei.

E l'uomo, inevitabilmente, se ne accorse: «Rallenta pure, mia cara, abbiamo ancora tempo a sufficienza davanti a noi.»

«Prima finisco, meglio è. Non voglio farci scoprire» ribatté Mereis, risistemandosi sul naso i pesanti occhialoni con le lenti a tubo, uno dei pochi e utili strumenti a lei nuovi che si fosse concessa. Quel modello in particolare, il più comodo in tutta l'officina, era stato messo a punto dallo stesso Dinke, che si intendeva di meccanica e si dilettava a costruire strumenti di vario genere.

«Non temere: non verrà nessuno. Lo sai che quando abbiamo ospiti tutti sono invitati a cena nella casa del padrone.»

«Vero, ma la ronda passa comunque almeno una volta. Anche se il guardiano di turno non avesse intenzione di entrare a controllare, potrebbe sempre notare la luce della lampada a olio.»

«E io che ci sto a fare qui, secondo te? Stai pure tranquilla: se scorgo il minimo movimento ti avviso all'istante. Sarò anche vecchio, ma ho ancora gli occhi di un ruh
   
 
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