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Autore: Mayth    12/08/2016    2 recensioni
La vita è fottutamente difficile quando il tuo coinquilino è un fantasma con la puzza sotto il naso.
Genere: Demenziale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Erik Lehnsherr/Magneto, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il giorno seguente, Erik si avvia in direzione della biblioteca del suo quartiere.
La biblioteca è un’alta catapecchia rinforzata con travi del secolo scorso. Ospita la quantità giusta di libri che permettono ai ragazzi di una scuola media di poter compiere discretamente il tema assegnato, molto spesso gli scaffali sono colmi di polvere e i volumi che li riempiono sono rovinati o con qualche pagina di meno. Erik è, contro ogni aspettativa di chi lo conosca, un assiduo visitatore di quel tentativo mal riuscito di costruzione statale. Il silenzio che regna quei corridoi e l’assenza di disturbi — tra i quali la mancanza di un qualunque essere ectoplasmatico, — compongono secondo lui la formula perfetta per il luogo perfetto. E inoltre, lì può godersi la scarsità di un qualunque obbligo d’essere sociale.
 
La signora Ryan, una vecchia più occhiali che volto, si limita ad indirizzargli uno sguardo di apprensione quando Erik varca lo stipite della porta. Erik non la biasima, tuttavia ricambia con la medesima quantità di disapprovazione. È capitato — in casi rari; rarissimi, lo promette — che qualche volta si fosse tenuto dei libri per un lasso di tempo piuttosto esteso, senza mai pagare la multa o rispondere ai richiami. Alla fine se l’era sempre cavata con un sorriso, un paio di scuse poco formulate, mesi di lavoro a paga zero e gli occhi di una signora Ryan perennemente puntati sulla schiena.
 
Supera gli scaffali di letteratura inglese, tedesca e nordica, per poi svoltare a destra e guardare un mucchio di libri impilati su un carrello abbandonato con una targhetta appiccicata sul davanti. La targhetta dice: Parapsicologia e spiritismo. Erik si sorprende ogni volta che quel buco di cultura scarsamente frequentato abbia speso soldi per una “sezione” del genere.
 
Tira su qualche libro, ne legge i titoli e dopodiché li ripone al loro posto. Era partito con l’idea di cercare qualcosa che lo aiutasse con un fantasma irritante ma non mortalmente pericoloso, eppure non ha la più pallida idea da dove incominciare. Ricorda i suoi tentativi falliti. Ricorda il volto bianco di un pallido cadaverico del fantasma, l’odore di ozono che lo circonda, la sensazione che il freddo gli s’infilasse persino nelle ossa quando lo aveva trapassato da parte a parte. Stando alle deposizioni di qualche invasato accolto alla tv, ci sono varie modalità per scacciare uno spettro, e prima di tutto bisogna rendersi conto quale esemplare di fantasma si stia cercando di allontanare.
Erik fruga fra libri e pagine finché non scorge una copertina che riporta “Find the Ghost”, si siede dove trova posto e incomincia il proprio calvario. Alla fine di una esaustiva lettura la lingua gli si è incollata sul palato, e tutto quel che sente è un retrogusto di amaro sconforto — il sapore della vita, quando si complica ancora di più. Pensa a com’era una decina (secoli) di anni prima: le torte di sua madre appena sfornate, l’entusiasmo di svegliarsi al mattino, la speranza. Ora ha ventitré anni e ventitremila problemi.
 
“Strana lettura per lei, signor Lehnsherr.” Dice qualcuno alle sue spalle. La signora Ryan. Lui fa silenzio.
“Le ricordo che per lei è severamente vietato prendere in prestito qualunque libro.” Poi lo guarda con i suoi occhietti acquosi grandi come perline. Erik avrebbe mille cose da dirle, ma la versione ufficiale esce fuori come un trattenuto cazzo me ne importa. È più concentrato ad osservarle le rughe sulla fronte che altro.
 
La signora Ryan va via, e porta con sé una nuvola di giudizio e insofferenza, che, ad essere giusto un po’ sinceri, è esattamente l’approccio con cui Erik affronta il mondo intero.
 
Non si fa problemi, quel che pensava di dover trovare lo ha ottenuto. Si alza e si liscia la maglietta dei Coldplay, uscendo come se tutto gli appartenesse, combattendo contro la poca luce di uno di quei giorni anemici di luglio.
 
*
 
Oltre ad Erik, di fatto, ci sono altri disperati che popolano il condominio, nonostante il numero non riesca a riempire tutti gli appartamenti. La colpa risiede, secondo il proprietario, fra “palazzo di merda” e “mutanti di merda”. Erik, comunque, dei suoi vicini ne ha incontrati solo una manciata, e non ci tiene a fare la conoscenza di quelli che rimangono.
 
Quando tenta di prendere l’ascensore — nota sul muro: l’ascensore è stato aggiustato, ma usatelo a vostro rischio e pericolo, — la signora Fincher blocca la porta col suo bastone bitorzoluto e ciancia cose come: “Di questi tempi le porte non si tengono aperte neanche di fronte ad una povera signora.” Erik pensa povera signora un cazzo, vecchia strega, ma le rivolge comunque uno sguardo dispiaciuto, il quale viene poco sorprendentemente ignorato.
Forse a lei avrebbe fatto comodo un fantasma in casa, fra le tazzine di ceramica e le vecchie foto dei suoi gatti morti. Lei potrebbe morire di crepacuore e lasciarsi alle spalle solo sospiri di sollievo.
 
Una volta libero da quella gabbia di metallo — quasi uccidendo, effettivamente, la vecchia con l’espediente di utilizzare i suoi poteri per non far perdere ad entrambi troppo tempo, o per liberarli da una compagnia non desiderata, — ad arrestare il suo ritorno nel sudiciume del suo appartamento è la ragazza della porta di fronte.
 
La ragazzi dice: “Buffo.” E sorride. “Ero venuta a cercarti giusto qualche istante fa. Mi era parso di sentire dei rumori nel tuo appartamento, ma poi nessuno ha aperto e credevo volessi ignorarmi.”
 
“Avrò lasciato la televisione accesa,” dice Erik, pensando che Charles Il Fantasma, preda di una leggera rabbia isterica del giorno precedente, gli stia distruggendo il mobilio. Tanto, per quel che vale.
 
“Mmh,” alza le spalle lei.
 
“Cosa volevi?”
 
“Solo recapitare un invito,” allunga il pollice per indicare la porta del suo appartamento. È aperta, e all’interno Erik vi scorge un gruppo di persone sedute su un divano e qualche sedia di plastica, tutte hanno in mano una birra e conversano allegramente fra loro.
“È un incontro abituale che facciamo quando possiamo tra, sai, tra noi amici del palazzo. Più che altro è gente che non ha meglio da fare. E tu sei nuovo e magari ti farebbe piacere—”
 
“Ho meglio da fare.”
 
“Ah sì?”
 
“E comunque,” Erik storce le labbra, assumendo uno sguardo rude, “dov’è tua figlia?”
 
“Sono affari tuoi?” reagisce lei. Erik scuote la testa e fa per superarla, ma lei gli trattiene il braccio. “Dorme in camera sua,” dice, “magari facciamo per un’altra volta.”
 
“Magari.” Lei scioglie la presa e lo lascia andare. Erik tira fuori le chiavi con due paia di occhi ambrati puntati sulla nuca. Fa in modo di entrare aprendo il meno possibile la porta, non sicuro di trovare la casa nello stesso stato in cui l’ha lasciata. Effettivamente, le pareti sono ricoperte di colanti macchie rosse. Si avvicina, temendo il peggio e pensando come cacchio lo lavo via il sangue dai muri!, ma non appena è abbastanza vicino da sentirne esattamente l’odore, l’inconfondibile aroma di pomodoro lo pervade. Gira dunque gli occhi verso la dispensa, dove teneva qualche salsa e pacchetti di snack, e la trova aperta e vuota.
 
“Fanculo.” Mormora, poi più forte: “Charles! CHARLES! Brutto figlio di puttana, Charles!”
Non è che Erik abbia abbastanza soldi da sprecare così il cibo.
 
Gli risponde un grugnito imbarazzato, mentre si lancia sul divano con le mani fra i capelli.
 
“Un fantasma.” Sibila Erik. “I fantasmi non esistono, perché—”
 
“Pensavo che con i tuoi scarsi tentativi di farmi passare oltre avessimo superato la fase «Devo essere impazzito, i fantasmi non esistono»”
 
Erik alza lo sguardo, incontra quello di Charles. Dice: “Proprio perché i tentativi sono falliti credo di essere pazzo.” Poi, aggiunge: “Ho passato il pomeriggio a cercare un altro modo per farti scomparire.”
 
L’espressione di Charles è stoica; è un lenzuolo bianco dal quale non traspare nulla, se non un’indifferenza tale da essere il centro delle sue emozioni. Questo è ciò che Erik pensa di Charles Il Fantasma: che se ne frega di tutto; è morto, perciò è indifferente alle sofferenze di quei poveri sfigati che ancora sono vivi. Erik gli rivolge un’occhiata che attende di essere ricambiata, invano. Si aspetta forse di sentirlo gridare ancora, come la sera precedente, di quanto sia ingiusto che lui sia morto ed Erik ancora vivo. Ed anche acquisendo le parti dello stronzo, Erik non prova il minimo dispiacere nei confronti di Charles. Non per adesso, non dopo tutte le volte in cui gli ha fatto prendere un infarto e gli ha rovinato le poche cose buone che ha in questa casa. Può lamentarsi quanto vuole, Charles, di quanto Erik, in virtù dei suoi respiri, non debba compiangersi, ma resta il fatto che quella è casa sua, di Erik Lehnsherr, e nessun uomo vivo o morto che sia può metterci piede senza il suo permesso.
 
“E cosa hai scoperto?”
 
Una domanda formulata con un tono del genere non porta mai buone cose. Nemmeno un pizzico di interesse. Nemmeno una gradevole irritazione che faccia sussultare di gioia Erik per essere riuscito a ferire il suo indesiderato coinquilino. Appoggia le mani sulle ginocchia e rigira nella testa le informazioni estrapolate dai libri.
 
“Esistono diversi tipi di fantasmi,” inizia a esporre, e ha come la sensazione che sia leggermente divertente spiegare a quell’arrogante di Charles qualcosa che non sa su se stesso. O che, perlomeno, spera che non sappia. “Vedi, e la formula per fargli percepire la cosiddetta luce dipende dal modo in cui sono morti.”
 
Charles lo guarda con disincanto, tuttavia Erik nota nei suoi occhi un riverbero gelido. Si accorge, d’improvviso, che nonostante il caldo di luglio faccia effettivamente freddo, tanto da fargli venire la pelle d’oca.
Ci sono volte in cui una domanda scomoda aleggia nell’aria, attendendo solo di essere pronunciata. Ci sono volte in cui questa domanda, per il bene di molti o anche solo di uno, farebbe meglio a rimanere un pensiero nel retro del cervello, farebbe meglio a non prendere forma e scatenare irrimediabili conseguenze. Erik non è mai stato abbastanza percettivo da comprendere quali siano queste domande.
 
“Come sei morto, Charles?”
 
Il salotto, ora, è un campo della lontana Antartide, i pensieri di Erik vagamente indistinti nella sua mente. Apre la bocca ma non dice nulla; tutto è calmo, ma non in modo pacifico, è il silenzio che accompagna la consapevolezza di una battaglia a breve, il sangue che ti si gela nelle vene quando comprendi di aver detto qualcosa di stupido o irrispettoso, eppure non ritiri le parole, perché in cuor tuo sai che è la strada giusta da prendere. Non c’è risposta da parte di Charles. Erik tossisce, lasciando da parte quello spillo di terrore che gli si è formato nel petto, per poi ripetere: “Come sei morto.”
Charles non sbatte le palpebre, come un gatto che ti osserva dal fondo della stanza e rimugina su solo Dio sa che cosa. Non si muove. Non grida. Non inizia a fargli notare con quel suo indisponente accento londinese quanto gli sforzi di Erik siano oggettivamente inutili. È sorprendentemente fastidioso rendersi conto che è il silenzio a fargli più paura. Erik non si sente molto eroico al momento, solo curioso, tuttavia è una buona mossa non riprendere la domanda per una terza volta.
 
“Non credi,” dice, invece, “che sia davvero solitario essere un fantasma? Insomma, immagino sia divertente girare tavoli, sprecare un’ottima salsa di pomodoro, spaventare la gente. Fidati, la maggior parte delle volte anche io mi diverto ad allontanare le persone; ma tu— tu sei morto. E, con tutto il rispetto, non penso che dopo la morte sia questo il destino che ci aspetta.” Erik sventola la mano intorno a sé, indicando il pomodoro sul muro.
 
Qualcosa negli occhi di Charles brilla. Gli angoli della sua bocca si abbassano e le mani vengono infilate nelle tasche dei pantaloni. Dopo un attimo composto da tensione, Charles sospira.
 
“Non è che io mi diverta.”
 
“No?”
 
“Non proprio,” poi si fa avanti. Marcia sino a raggiungere Erik e gli si siede di fianco, accavallando le gambe e stropicciando il suo ridicolo cardigan. “Non ricordo come sono morto. E non ricordare mi infastidisce.”
 
“Non— ricordi?”
 
“Ricordo solo una cosa, come un mantra, sempre presente nel retro della mia mente: il mio nome è Charles.”
 
Erik ha l’impressione che questa sia una tappa cruciale. Verrebbe da chiedersi se ne vale la pena, stare lì seduti, a parlare con un morto come se fosse il ragazzo con cui ha deciso di dividere l’affitto, ma poi, pensa Erik, l’importante è convincersi di essere all’altezza di una circostanza del genere.
 
“E nient’altro. Ricordo che mi sono svegliato, per così dire, con la vaga consapevolezza di essere in questo appartamento. Vedevo tutto dall’alto, come se non appartenessi a questo presente; poi, sono arrivate delle persone, e nel tentativo di comunicare ho acquistato una forma, ma nessuno poteva vedermi né sentirmi. Ho imparato a muovere gli oggetti, tuttavia puoi ovviamente immaginare le reazioni. Ho fatto così per un po’.”
 
“E io sono il primo in grado di vederti?”
 
“A quanto pare, e la prima cosa che vorresti fare è uccidermi.”
 
“Farti passare oltre,” corregge Erik. “E ti voglio ricordare cosa tu hai fatto a me.”
 
“Cercavo di comunicare, Erik.”
 
“Cercavi di farmi spaventare a morte.”
 
“No, direi proprio di no. Ciò nonostante ammetto che la situazione mi sia scivolata di mano, ad un certo punto.”
 
Charles farfuglia qualcosa di incomprensibile che pare come: “Non volevo rompere il barattolo di salsa, ma una volta accaduto ho deciso di farci qualcosa di relativamente divertente. Non hai reagito nel modo buffo in cui speravo.” E poi alza la voce: “Insomma, sì, forse sono un fantasma, ma è pur certo che non cerco di pugnalarti durante la notte.”
 
Erik si concentra per non uscirne fuori con qualcosa di troppo spiacevole, serra la mascella e rivolge lo sguardo lungo il vetro della finestra. Oltre ad essa, il caldo racchiuso all’esterno fa tremolare l’orizzonte.
 
“Quindi non ricordi come sei morto,” ripete Erik. “Quindi niente «luce prima del paradiso»”
 
“Sono la persona con cui hai avuto la conversazione più lunga da quando sei arrivato qui, Erik, e lo sai.” Esala Charles, per poi dire: “La persona più vicina ad un amico, davvero. E potrebbero servirti degli amici.”
 
Anni e anni tentando di mantenere tutto e tutti fuori, per poi arrivare a questo: scoprire che il fantasma che infesta il tuo salotto si considera un tuo amico e che, nonostante tu lo trovi sgradevole, ti sorrida leggermente come se sapesse esattamente di cosa tu abbia bisogno. Ora che il suo ego è stato brutalmente squarciato in due, non importa quel che Erik voglia fare, quel che farà o quel che gli piacerebbe decidere per sé. Ora Charles lo osserva colmo di aspettative e una serietà che va ben oltre quella di un uomo superficialmente interessato a lui. Ci tiene, Charles, a modo suo, che Erik non tenti più di farlo scomparire ovunque vadano i fantasmi una volta allontanati.
 
“E lasciami dire quest’ultima cosa,” conclude Charles, stando ben attento che Erik lo stia guardando negli occhi. “Penso sia corretto affermare che tu sia un gran coglione.”
 
Erik si morde la lingua dal dire qualcosa, serra le palpebre, e una volta che le riapre, come le altre due precedenti, davanti a sé trova solo il ricordo di un fantasma.
 
  
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