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Autore: vincey_strychnine    09/10/2016    1 recensioni
Lui le assomigliava sotto molti aspetti. Anche lui era vuoto, ma ad un certo punto nella sua vita doveva aver riempito gli spazi con rabbia e odio verso tutto, tutti e magari anche verso sé stesso.
(...)
Cercò di nascondere il dolore mentre gli domandava, con tono di scherno, “Perché? Hai paura?”
“No,” disse lui. “Ma tu sì.”
La risposta innescò dentro di lei un fuoco e il dolore della sua stretta d’acciaio si attenuò per un momento. Avrebbe anche potuto strapparle le mani, non le importava. Lei non aveva paura di Cato, non aveva paura di nulla.
A denti stretti quasi sputò le parole, “Invece no.”
Cato e Clove partecipano agli Hunger Games perché per loro è un onore, perché l'hanno scelto. Ma se nella vita sono stati cresciuti ed addestrati per essere macchine letali, come fanno a sapere che non c'é nient'altro, nulla di meglio al di là dell'uccidere?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brutus, Cato, Clove, Lyme, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lyme camminava come se ogni passo sottraesse sempre di più alla riserva di energia già esaurita del suo corpo mentre Clove si trascinava accanto a lei. C’erano cerchi viola sotto ai suoi occhi che quasi eguagliavano il terrificante colore dei polsi di Clove, ora gonfi. La sua mentore non era tornata alla loro suite la sera prima fino a molto tempo dopo che Clove era già tornata a letto, pensando ad un milione di modi diversi per uccidere quel bastardo del suo compagno di distretto.

 

Ora si muovevano attraverso un dedalo di corridoi nello scantinato dell’edificio, dove si trovavano sia il centro d’addestramento sia l’infermeria.

 

Quella mattina, Brutus aveva aspettato finché Lyme non si era fatta strada pigramente giù dalle scale fino al tavolo interamente occupato per suggerirle con un tono piacevolmente divertito che forse avrebbe dovuto dare un’occhiata ai polsi del suo tributo. Dopodiché Lyme era scattata in piedi e aveva sbattuto la sua tazza di caffè sul tavolo con tanta forza da far sobbalzare persino Brutus. Ma quando aveva preteso di sapere com’era successo, lui aveva semplicemente fatto un cenno del capo verso Cato senza proferire parola. E allora in un lampo aveva afferrato Clove e l’aveva trascinata nell’ascensore.

 

Clove era profondamente stupita da come Brutus avesse la capacità di essere, anche di mattina, uno stronzo ostinato.

 

Tuttavia nonostante la sua reazione immediata, Lyme era stata in silenzio per la maggior parte della loro camminata. L’energia che aveva mostrato quando aveva visto i polsi danneggiati di Clove era sparita tanto in fretta quanto era esplosa. Solo quando furono giunte davanti alla porta dell’infermeria pose una mano sulla spalla di Clove e parlò.

 

“Cos’è successo?” disse. Era curioso che avesse aspettato tanto a lungo per porre quella domanda.

 

Ma Clove non voleva parlarne. Non perché le avesse dato fastidio, ma perché non voleva tutta l’attenzione che stava ricevendo per via dell’incidente. La faceva sentire indifesa. Quindi si limitò a scrollare le spalle.

 

Lyme non l’accettò come una risposta e Clove fu pervasa da un senso di fastidio. Non le piaceva sentirsi forzata a fare nulla.

 

“Perché dovrebbe importare?” ribatté.

 

Il volto di Lyme rimase impassibile mentre continuava ad attendere. Clove strinse i denti. Non poteva vincere.

 

“L’ho minacciato e quindi mi ha stretto i polsi,” disse, tralasciando il discorso del coltello. Se non altro Brutus era stato così gentile da non informare Lyme che il suo tributo aveva tentato di accoltellare Cato la notte prima.

 

Per un attimo non sembrò che fosse stata una risposta soddisfacente ma Lyme alla fine aprì la porta con un sospiro di esasperazione. Ma prima di lasciare che Clove entrasse, Si piegò verso il suo orecchio.

 

“Non fidarti di Brutus,” mormorò.

 

Quando le parole finalmente iniziarono ad assumere un significato, Lyme era già a metà del corridoio.

 

**

 

Meno di un’ora dopo il dolore e il gonfiore dei suoi polsi era stato ridotto ad una quantità quasi inesistente grazie ad un gruppo di dottori dai colori vivaci e ai loro aghi. In effetti, la leggera macchia dove si trovavano una volta i lividi erano l’unico segno dell’esistenza dell’infortunio.

 

Tutto il danno era stato annullato. O almeno… la maggior parte.

 

Voleva ancora il sangue di Cato. La notte precedente si era fatta la piccola promessa che, prima di ucciderlo, si sarebbe assicurata di tagliargli via le mani con la sua stessa spada.

 

Ma questo non era il pensiero principale nella sua mente mentre andava dall’infermeria al centro d’addestramento. Non riusciva a smettere di pensare al semplice avvertimento della sua mentore.

 

Non fidarti di Brutus.

 

Che cosa significava? L’unica conclusione a cui riuscì a giungere fu che Brutus volesse farle del male. L’aveva già ipotizzato data la gloria che un mentore riceveva quando il loro tributo risultava vincitore. Ma forse era peggio di quanto pensasse data la reazione di Lyme quella mattina. Non poteva esserne certa. Ad ogni modo quell’avvertimento era superfluo.

 

Clove non si era mai fidata di Brutus.

 

Mentre svoltava l’angolo per arrivare al centro d’addestramento, dovette fermarsi all’improvviso per evitare di scontrarsi con Lux.

 

L’adorabile tributo del Distretto Uno era impegnata a sistemarsi la chioma bionda in una coda di cavallo morbida sulla spalla con le mani eleganti. I suoi occhi verdi adocchiarono la minuta Clove che era così diversa da lei nell’aspetto in tutti i sensi possibili. Invece che essere alta e atletica, era bassa e aveva ancora un corpo da bambina; invece di un viso stretto dagli zigomi alti e dalla pelle di luna, aveva un volto spigoloso con una spruzzata di lentiggini sulle guance e sul naso; invece di occhi smeraldini incorniciati da ciglia scurite dal mascara, aveva occhi grandi, tondi e di un verde così scuro che spesso da lontano la gente pensava fossero neri, o più realisticamente marroni.

 

Le sue labbra perfette si incurvarono in un sorriso compiaciuto. “Buongiorno Clove,” disse con dolcezza.

 

Clove le rispose aggrottando la fronte. Non vedeva l’ora di tagliarle via quella bocca dalla faccia.

 

Marvel, il suo compagno di distretto, stava accanto a lei a braccia conserte. Come al solito il suo viso pulito appariva assolutamente indifferente. Come Lux, aveva i capelli biondi appena mossi in onde sinuose, zigomi alti e il volto magro. Il suo naso sottile era quasi sempre arricciato verso l’alto come se non avesse potuto sopportare di respirare l’aria delle persone inferiori attorno a lui. Era alto quasi come Cato ma nemmeno lontanamente muscoloso come lui, ma questo era ovviamente una questione di conformazione. Come il Distretto Due, anche il Distretto Uno allenava i possibili tributi sin dalla tenera età e sceglieva ogni anno quali avrebbero potuto partecipare ai giochi.

 

Dei due, Marvel era di gran lunga la minaccia maggiore. Aveva un’abilità senza precedenti con le armi, specialmente se si trattava di lance. Persino Cato che era bravo a brandire quasi qualsiasi cosa non riusciva a scagliare una lancia contro un bersaglio bene quanto Marvel. Lux costituiva comunque una valida rivale: Clove l’aveva osservata una volta mentre inarcava la schiena con la leggerezza e la grazia di una ballerina, per poi tagliare un fantoccio in due in un colpo solo con una spada da duello. Ma nonostante ciò non aveva speranze contro il suo compagno altezzoso.

 

Gli occhi blu e freddi di Marvel saettarono sulla mano di Clove, saldamente fissata al fianco, che nascondeva le bende avvolte attorno ai polsi. Si ricordò troppo tardi che aveva dimenticato di toglierle. 

 

“Ti stavamo aspettando,” disse.

 

Ora che aveva sistemato i capelli, Lux sbirciò dietro a Clove come se stesse nascondendo qualcosa dietro alla schiena. “Dov’è Cato?” chiese.

 

Con un tempismo perfetto l’ascensore si aprì rivelando nient’altro che lo stronzo in persona, e a giudicare dalla sua espressione era più seccato del solito. Clove si chiese se la sua mentore l’avesse redarguito.

 

Lux fu l’ultima a voltarsi a guardare Cato. Ma a Clove non sfuggì il modo in cui fece scorrere attentamente le mani sullo spandex che le avvolgeva le cosce, poi sul suo didietro perfettamente scolpito per poi appoggiarle sui fianchi scoperti. Nemmeno a Cato era sfuggito. Rimase fermo nell’ascensore per un attimo, squadrando il suo corpo.

 

“Buongiorno Cato,” disse con indifferenza, ma una volta che si fu girata un sorrisetto comparve sul suo viso.

 

Marvel gli fece soltanto un cenno e sospirò, “E ora ne mancano solo due. Sono sempre in ritardo.”

 

Cato chiuse il cerchio, appena più vicino a Lux che a Marvel, come Clove non poté fare a meno di notare. Ma i suoi occhi ora si erano posati sulle bende di Clove. E iniziò a sorridere.

 

Ovviamente.

 

“Come procede la guarigione?” le chiese.

 

Clove voleva prenderlo a pugni. Ma si accontentò invece di riprodurre nella sua testa il modo in cui si era piegato in due la notte prima dopo che gli aveva tirato un calcio dritto negli organi di cui, in quanto femmina, non si doveva mai preoccupare.

 

“Bene, e a te?” disse.

 

Le sue narici si allargarono lievemente ma il sorriso gli rimase incollato in faccia. “Non c’e male. Del resto, io non ho avuto bisogno di essere portato in infermeria questa mattina per il mio infortunio.”

 

Con il sorriso più dolce e femminile che riusciva a fare, lei rispose “Non ancora, per adesso.”

 

Poi l’ascensore si aprì per far uscire i tributi del Distretto Quattro. Erano entrambi alti e abbronzati, dal torso lungo e dalle gambe muscolose conferite da una vita passata a nuotare. Il ragazzo pareva quasi un pesce per il modo in cui i suoi grandi occhi marroni erano collocati distanti l’uno dall’altro sulla faccia. Persino i lati delle sue guance squadrate si infossavano in un modo così strano quando parlava che sembrava avesse le branchie. Clove non ricordava mai il suo nome, e quindi si riferiva a lui come Testa di Pesce. La ragazza aveva una chioma di ricci crespi del colore della sabbia che scendevano lungo la sua schiena scurita dal sole. Clove sapeva che il suo nome era Marina perché spesso la coglieva mentre la scrutava con cautela negli occhi blu cielo. La piccola lumaca di mare la temeva. E Clove ne era felice.

 

Mentre facevano tutti la loro entrata in gruppo nel centro d’addestramento, Lux trottò accanto a Clove.

 

“Allora, cosa è successo ai tuoi polsi?” la stuzzicò, divertendosi parecchio.

 

Clove fu rapida a trovare una risposta che sapeva per certo l’avrebbe infastidita.

 

“Beh ecco è stato ieri notte e santo cielo… Non potrei dirlo a dire il vero. Il nostro mentore era così arrabbiato quando ci ha beccati però,” disse, aggiungendo un risolino piazzato ad arte. “Cato fa davvero meraviglie con le mani che si ritrova.”

 

Il messaggio era già chiaro ma solo per divertimento Clove sollevò le mani sopra la testa come se qualcuno gliele stesse tenendo ferme. La reazione sul viso di Glimmer fu immediata. Le sue sopracciglia arcuate si abbassarono e le sue labbra si schiusero in un’espressione che comunicava sorpresa se non addirittura disgusto. Mentre aumentava il passo per allontanarsi da Lux, Clove poté giurare che i suoi occhi smeraldo fossero ancora rivolti verso di lei.

 

**

 

L’allenatore che gestiva la stazione di lancio dei coltelli decise di aumentare un po’ la difficoltà quando fu il turno di Clove: dopo due giorni di allenamento era diventata la sua preferita.

 

I fantocci iniziarono a muoversi automaticamente da un lato all’altro, avanti e indietro. L’allenatore le si avvicinò con un baule pieno fino all’orlo di coltelli di ogni tipo. Diversamente da quello con cui aveva quasi accoltellato Cato la notte prima, questi erano fatti specificamente per le persone, non per il cibo. Prese in mano il primo con delicatezza come se la fretta avesse potuto romperlo. Era totalmente un’illusione, però. Il coltello era degno di nota per la forma, con un’impugnatura di cuoio spessa e una lama che non era mai stata toccata.

 

Con la forza e la precisione guadagnati grazie ad anni di pratica, lanciò il primo coltello dritto al centro del bersaglio sulla testa del fantoccio più lontano. Le piaceva sempre abbinare una faccia ad ogni manichino: quello era la ragazza del Quattro. Subito dopo venne il ragazzo del Sei. Con un po’ più di aggressività stavolta, scagliò il coltello contro il secondo bersaglio.

 

Ancora una volta, non lo mancò. Il coltello tracciò in aria una linea diretta dentro l’occhio del manichino.

 

Quattro, morta. Sei, morto. A chi sarebbe toccato ora? Si girò verso il resto del centro e scandagliò i tributi che vagavano di stazione in stazione, alla ricerca di un candidato interessante. Poi i suoi occhi si posarono sul retro di una testa i cui capelli scuri erano acconciati nella solita treccia. Il sorriso che già era sul suo volto divenne malefico.

 

Sì, lei sarebbe stata perfetta. La ragazza in fiamme.

 

Clove selezionò un coltello sofisticato stavolta, solo il meglio per la cara piccola minatrice. Questo era più pesante, e si presentava con un po’ più di difficoltà rispetto ai precedenti. Il fantoccio che si muoveva lateralmente più vicino a lei, e quindi quello che andava più veloce, all’improvviso aveva la pelle olivastra e un paio di saggi occhi grigi. Con un grugnito impercettibile lanciò il coltello e questo si conficcò esattamente dove lei aveva previsto.

 

Dritto nel cuore.

 

Qual era il suo nome, poi?

 

Katniss.

 

L’applauso dell’allenatore la riportò al centro d’addestramento. Lo ignorò, all’improvviso di cattivo umore alla realizzazione del fatto che quello era solo allenamento e quelli erano solo manichini. Una sconfinata sensazione di vuoto si impadronì di lei come spesso accadeva. Era così concentrata nel tentativo di provare qualcosa che quasi non si accorse di Cato prima di inciampare in lui.

 

“Sta’ attento!” sibilò, nonostante fosse stata lei a scontrarlo.

 

“Scusami,” mentì lui. Poi con un cenno del capo verso il punto in cui Marvel e quelli del Distretto Quattro si trovavano, un paio di stazioni più in là, aggiunse “Ci chiamano.”

 

Quando raggiunsero Marvel, i suoi occhi blu scuro erano fissati su qualcosa dall’altro capo del centro d’addestramento. A Clove non servì molto tempo per capire cosa stesse guardando: era un ragazzo che poteva essere descritto accuratamente come una gigantesca nave in un mare di nullità.

 

Si stava allenando da solo alla sua stazione, le sue mostruose braccia scure sollevarono un’ascia la cui lama doveva essere stata della dimensione del torso di Clove. Il modo in cui colpiva con essa lo faceva sembrare un gigante di montagna uscito da una delle poche fiabe che aveva sentito da piccola. Proprio come uno di quei giganti, il suo volto determinato sarebbe tranquillamente potuto essere sporco del sangue di bambini mentre si concentrava sul suo prossimo avversario-fantoccio con i suoi inquietanti occhi dorati.

 

Poi, come se la sua ascia fosse stata leggerissima, la fece oscillare attorno al suo corpo e tagliò quello del manichino con una linea verticale che partiva dalla testa. Una tecnica così si poteva acquisire solo con anni di allenamento. Solo che quel ragazzo non si era mai allenato, almeno non stando a ciò che lei sapeva del suo Distretto. L’Undici era uno dei distretti più poveri di tutta Panem.

 

Quella mossa aveva convinto Marvel.

 

“Potremmo decisamente usarlo,” annuì. Dal modo in cui l’aveva detto, sembrava stesse concordando sul prezzo finale di un diamante o di uno degli altri beni di lusso che il suo distretto produceva.

 

“Ma ovviamente,” aggiunse con un sospiro, “La decisione non spetta solo a me.”

 

La sua espressione era di nuovo distante quando si voltò verso Cato. Nonostante non l’avessero concordato a parole, Cato era stato nominato leader del gruppo. In fin dei conti, era il più forte, il più aggressivo e il più instabile. Sembrava quasi che avesse ottenuto lo status di divinità fra di loro e che una sola mossa che l’avesse irritato avrebbe causato la loro fine. Tuttavia, Marvel faceva parecchia fatica ad adeguarsi. Clove immaginava che fosse perché in vita sua non si era mai dovuto subordinare a nessuno.

 

Cato scrutò il ragazzo dell’Undici con gli occhi socchiusi. “Ci dirà di no,” disse con un intuito sorprendente.

 

“A noi?” disse Marvel divertito. “Mi sembra altamente improbabile.”

 

“Viene dall’Undici,” disse Cato. “Non accettano volentieri i Distretti i cui abitanti non sono coperti di sporcizia.”

 

I tributi del Quattro stavano ancora fissando il ragazzo dell’Undici con gli occhi sgranati, ed era ovvio che concordassero con Marvel. Ma nessuno voleva opporsi a Cato.

 

Capendo che rischiava di perdere, Marvel si voltò verso Lux che si trovava alla stazione più vicina a loro con un arco pronta a tirare.

 

“Lux!” intimò. “Vieni qua!”

 

La distrazione di sentire il suo nome pronunciato in maniera tanto irrispettosa fece sì che la traiettoria della sua freccia quasi mancasse il bersaglio del tutto. I suoi occhi verdi si strinsero mentre lo guardava ma si girò comunque e consegnò di malavoglia l’arco al suo istruttore. Poi si trascinò verso di loro.

 

“Guarda,” disse lui mentre si avvicinava, indicando con la testa l’Undici. Ora si stava allontanando dalle asce per andare, fra tutte, alla stazione delle piante commestibili. Ma Clove vide il motivo.

 

La ragazzina del suo distretto gli stava facendo dei gesti concitati con un’espressione di gioia sul visetto da bambina.

 

Lux contorse la bocca di lato riflettendo, sembrava un coniglio quando mastica l’erba. Poi il suo sopracciglio si sollevò.

 

“Sarebbe una risorsa,” disse.

 

I tributi del quattro ancora in silenzio annuirono con approvazione. Allora si girarono tutti verso Clove.

 

Una nube nefasta sembrava seguire il terribile tributo ovunque andasse. Clove riusciva quasi a vederla quando lo guardava. Non aveva alcun senso; Cato era grosso quanto lui, forse persino di più. Eppure la prima volta che aveva conosciuto Cato non aveva provato la stessa cosa che provava anche solo osservando quella gigantesca creatura da lontano. Era una sensazione che le diceva di non volerlo nella sua squadra. In effetti, più lontano si fosse tenuta da lui durante i giochi, meglio sarebbe stato.

 

Era così insolito da parte sua, e lei stessa lo sapeva. Ma non c’era modo di negarlo: Clove aveva paura del ragazzo dell’Undici.

 

“No,” disse. “Prima lo uccidiamo, meglio è.”

 

“Vince la maggioranza,” disse Marvel in un tono che non ammetteva repliche, tuttavia i suoi occhi scattarono verso Cato. Solo che Cato non stava guardando Marvel, stava guardando Clove.

 

Questa era tutta l’approvazione di cui Marvel aveva bisogno.

 

Così come Cato era diventato il leader non dichiarato del gruppo, Marvel ne era diventato il portavoce, l’abile negoziatore. Era il ragazzo immagine dei Favoriti di quell’anno.

 

Ciò nonostante, il tributo del Distretto Uno aveva molte facce.

 

Quando era con Clove e con il resto del loro branco, era spesso spento e privo di qualsiasi espressione. Quando recitava per Capitol City, era carismatico e socievole, e sapeva esattamente come muoversi davanti alla folla. Quando incedeva in mezzo agli altri tributi, era altezzoso e terrificante a modo suo, con gli occhi gelidi e la sua eccezionale bravura a maneggiare le lance.

 

Ma quando si avvicinò al ragazzo dell’Undici, la facciata che scelse di indossare fu la solita: fredda e indifferente.

 

Cato lo seguì subito dietro e Clove decise che era sensato che lei andasse con lui. Erano quelli del Distretto Due, il vero fattore intimidatorio. Ma ogni passo che compiva sempre più vicino all’Undici si sentiva tutto tranne che intimidatoria.

 

Non appena li vide, l’Undici fece un gesto alla ragazzina che stava appollaiata dietro di lui. Clove notò con sorpresa che quella ragazzina li squadrava con più coraggio di alcuni tributi grandi due volte lei.  Non si mosse finché Undici non la mandò via.

 

Per qualche ragione una domanda uscì dalla bocca di Clove senza che ci avesse davvero pensato.

 

“Come si chiama?” sussurrò a Cato.

 

Cato non la stava guardando; tutta la sua concentrazione era su Undici. Ma le rispose lo stesso.

 

“Thresh.”

 

Thresh.

 

Dare un nome a quel volto la fece sentire un po’ meglio. Era la prova che quella creatura era almeno umana. Ma non la aiutò a calmare i nervi mentre Thresh si spostava per incontrare Marvel a metà strada. E di certo non si tranquillizzò quando poté vedere la faccia di Thresh e più specificamente i suoi occhi da vicino. La sua espressione era dura come la roccia. Era davvero come un gigante. Un gigante che avrebbe probabilmente strappato Marvel lo spilungone precisamente a metà. Che cosa stava succedendo? Non poteva esserne sicura. Ma Marvel doveva avergli offerto di entrare nel loro gruppo esclusivo perché ora Thresh stava aprendo la bocca per rispondere.

 

“No,” disse, la sua voce come un tuono.

 

Marvel lo guardò come se non avesse capito bene. “No?” ripeté.

 

“No.”

 

Marvel piegò la testa da un lato e un sorriso divertito curvò le sue labbra verso l’alto come se l’enorme ragazzo avesse appena fatto una battuta divertente.

 

Tu stai rifiutando noi,” ridacchiò. “Beh, ad ognuno il suo immagino.”

 

Clove voleva voltarsi e andarsene lì e ora, ma Cato si intromise.

 

“Grave errore,” disse. C’era un sorriso cupo sulla sua faccia ma la sua voce era quasi un ringhio.

 

In quel momento Cato appariva terribilmente minaccioso. Ma a Thresh non serviva tutta quell’animosità, rimase perfettamente immobile e l’effetto fu lo stesso. I loro occhi inusuali si fissarono, firmando un accordo comune che non aveva bisogno di parole: ad un certo punto dopo il suono del cannone a segnalare l’inizio dei giochi, sarebbe stato uno dei due ad uccidere l’altro. Poi senza avvertimento quegli occhi dorati si diressero su Clove.

 

All’istante fu sopraffatta dal desiderio di correre. Ma invece per ripicca puntò i piedi saldi a terra ed inarcò la schiena. Lui non avrebbe saputo quanto la terrorizzava. E poi, da cosa doveva essere terrorizzata in realtà? Era un essere umano. I suoi coltelli sarebbero stati tanto efficaci nell’abbatterlo quanto lo sarebbero stati per abbattere la sua piccola compagna di distretto.

 

Ma per qualche ragione mentre cercava di immaginarsi le sue armi predilette che lo mutilavano, la sua mente le mostrava solo una visione dli lui che se le sfilava dal corpo come fossero state nulla più che fastidiose spine. Era molto più facile immaginarselo mentre la sua forza bruta la sopraffaceva, come quella di Cato aveva fatto la notte prima. Solo molto peggio.

 

Nonostante il coraggio momentaneo, quando Thresh staccò gli occhi dai suoi, si ritrovò ad indietreggiare verso Cato. Era solo un piccolo movimento in sostituzione al nascondersi del tutto dietro di lui.

 

Contro di lei, il petto di Cato era duro ma irradiava calore. E il suo corpo esile si incastrava con quello di lui allo stesso modo frastagliato ma perfetto in cui due pezzi di pietra possono ancora combaciare dopo essere stati appena tagliati. Un soffio del suo respiro raggiunse i ciuffi che sporgevano dalle trecce di lei. Il suo cuore batté forse tre volte dietro alla sua testa. Per il momento, i suoi nervi furono calmati.

 

Poi realizzò cosa stesse facendo.

 

All’istante si staccò da lui. Perché era appena successo tutto ciò?

 

All’inizio pensò di non voltarsi a guardarlo, aspettandosi di vedere un sorrisetto o magari di sentire la classica domanda che sembravano porsi l’un l’altra in continuazione: “Hai paura?” Ma quando la curiosità ebbe la meglio, l’espressione che gli vide in volto era totalmente atipica; la stava squadrando con perplessità e sembrava… confuso. Come se lei fosse stata un rompicapo complicato che lui non riusciva a decifrare. Non c’era nemmeno un’ombra di sarcasmo sul suo viso. Non l’aveva mai visto così spontaneo.

 

Quando Marvel li superò a grandi falcate, stava ancora mettendo in discussione Cato e la sua stessa sanità mentale. Ma quello era il segnale che bisognava tornare al gruppo.

 

La negoziazione aveva avuto fine, la loro richiesta era stata rifiutata.

 

Tuttavia Clove era certa che Cato dicesse davvero quando aveva detto a Thresh che la sua decisione era un errore.

 

**

 

Marvel stava ancora blaterando del Distretto Undici mentre si sedevano nella mensa di fronte al centro d’addestramento.

 

“Dev’essere apatico. Onestamente non riesco a capire questi provinciali,” disse, indicando con una mano la maggior parte dei presenti nella sala. Alcuni dei tributi che si trovavano vicino a loro sollevarono lo sguardo dopo il gesto, e poi tornarono a mangiare a testa bassa.

 

La risata stridente di Cato riverberò dolorosamente nelle orecchie di Clove. Aveva davvero bisogno di essere sempre così odioso?

 

“Ti importa così tanto?” disse Cato, e poi aggiunse con tono più grave, “Sarà divertente da uccidere.”

 

Uccidere. Quella parola restò sospesa nell’aria per un attimo e portò con sé una cappa di intensità che ricoprì tutti loro. Clove si raddrizzò.

 

“Forse per te.”

 

Fu la voce ariosa di Marina a rompere il silenzio. I suoi lineamenti si indurirono mentre proseguiva, “Ma noialtri non siamo alti un metro e novanta e resistenti come dei muri.”

 

Non era un complimento. Le sue parole erano piene di risentimento. Clove percepì i suoi occhi stringersi mentre analizzava la ragazza che ora teneva la testa bassa e fissava lo strano pane sul suo piatto con amarezza. Il pane era punteggiato di alghe verdi.

 

Soltanto quella mattina, in una dimostrazione che persino Clove non poteva negare essere irresistibilmente letale, quella stessa ragazza aveva scagliato in un unico gesto fluido un arpione contro un manichino a sei metri di distanza per poi attiralo rapidamente abbastanza vicino a sé da sgozzarlo con forza.

 

Ma ora, mentre si mordeva il labbro e teneva gli occhi vitrei fissi sul piatto, era innegabilmente patetica.

 

Questa dimostrazione di debolezza pareva imperdonabile. Magari il suo posto era con gli altri tributi che sedevano soli ai tavoli con simili espressioni in volto; pena, amarezza, sconfitta. Marvel stava probabilmente pensando la stessa cosa, perché per un attimo Clove incrociò i suoi occhi blu e pensò di aver capito al volo.

 

L’avrebbero tenuta con loro?

 

Ciò che costituivano- Cato, Lux, Marvel, Marina, Testa di Pesce e lei stessa -era un’alleanza temporanea i cui membri si accordavano per non uccidersi fra di loro finché tutti gli altri avversari fossero stati annientati. Clove non lo dimenticava mai. Si rifiutava di far trasparire qualsiasi emozione davanti a queste persone o di mostrarsi vulnerabile in loro presenza anche solo per un minuto. Perché quando fossero rimasti solo loro, cosa che di certo sarebbe avvenuta, allora sarebbe iniziato il vero spettacolo.

 

Le finali più brutali erano sempre fra i Distretti Uno, Due e Quattro. Talvolta questi scontri erano talmente interessanti che gli Strateghi non dovevano nemmeno inserire artificialmente catastrofi meteorologiche o mutanti. Si ricordava di un’edizione in cui, subito dopo che i tributi meno forti erano stati massacrati, i restanti sei si erano scontrati sui cadaveri e il vincitore era stato dichiarato meno di un quarto d’ora dopo. Ecco quanto tempo era servito perché si rivoltassero gli uni contro gli altri.

 

E quell’anno sapeva che non sarebbe stato diverso.

 

A dirla tutta, all’interno del gruppo non si stavano simpatici affatto. Mettevano su una buona facciata in presenza degli altri tributi a scopo intimidatorio. Ma nonostante le occhiate amichevoli e le pacche scherzose, quasi tutta la conversazione, specialmente fra Marvel, Lux, Cato e Clove, era accuratamente calcolata, e la maggior parte delle frasi avevano un secondo significato nascosto sotto. La tensione fra di loro era quasi sempre alta, e Clove immaginava che sarebbe solo salita non appena avessero messo piede nell’arena.

 

Si chiese quale sarebbe stato lo scontro finale. Chi sarebbe rimasto? Perché se Marina o Testa di Pesce fossero stati ancora vivi, sarebbero certamente stati i primi ad essere uccisi. Ma poi chi? Forse Marvel si sarebbe voltato all’improvviso tentando di infilzare Cato, che fisicamente era la minaccia più grande? O Forse Lux avrebbe escogitato qualcosa di subdolo, come sparire per un po’ finché non fosse rimasto solo uno di loro per poi tornare con un attacco inaspettato? O molto semplicemente Cato li avrebbe finiti tutti prima che chiunque avesse potuto fare qualsiasi cosa?

 

Clove realizzò che se si fosse arrivati alla fine, la realtà non sarebbe stata nessuna di quelle appena ipotizzate.

 

Lei sarebbe stata la prima ad attaccare.

 

Sarebbe stato così facile e veloce colpirli tutti alla gola con un coltello. Ma non sarebbe stato molto divertente, o no? Sarebbe stata l’ultima occasione di uccidere della sua vita, anche se non fosse morta nell’arena. Avrebbe dovuto far sì che fosse memorabile. Chi avrebbe lasciato per ultimo? Lux magari? La sua faccia non sarebbe più stata così bella se Clove avesse avuto modo di calarvi sopra il coltello. E perché non Marvel? Che cosa avrebbe fatto se fosse riuscita in qualche modo a trattenerlo a terra sotto di lei, così tanto più in basso rispetto al suo alto cavallo su cui era solito sedere?

 

Poi la sua mente viaggiò su Cato. Lui sarebbe stato la sfida maggiore. Con entrambe le loro armi sarebbe stato il combattimento migliore di sempre. Lui poteva anche avere la sua forza bruta e la sua potenza, ma lei aveva agilità e tecnica. Una spada non era difficile da schivare, e nemmeno una lancia. Ma lui avrebbe avuto difficoltà. Lei non era solita mancare un bersaglio in movimento.

 

Il suo capo biondo cenere era leggermente inclinato e la sua bocca si stava tendendo in un minuscolo sorriso mentre i suoi occhi vuoti affondavano in Marina. Stava pensando di ammazzarla, Clove poteva leggerlo nell’immobilità del suo corpo.

 

Oh, che coppia perfetta che erano i tributi del Distretto Due.

 

Poteva anche non fidarsi di Brutus, ma l’ordine in cui uccidere che lui aveva suggerito era corretto. Eliminare la concorrenza, eliminare il Distretto Uno, e tenersi per ultimi. E poi, anche nella morte i tributi venivano messi in una classifica. Perciò non era forse un modo per far onore al suo distretto, se sia il primo che il secondo posto fossero stati occupati dai suoi unici due tributi?

 

“Beh,” la voce profonda di Marvel interruppe la quiete. Il bicchiere che si era portato alla bocca non copriva del tutto il suo sorriso. “Non si sa mai quali sorprese potresti trovare nell’arena.”

  
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