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Autore: Nereides    23/10/2016    1 recensioni
Diane Lesley è in debito di due promesse, una fatta ad una ragazza sconosciuta, mentre le teneva la mano e aspettava l'arrivo dell'ambulanza, l'altra fatta ad un amico, un eterno Peter Pan con la fobia per i legami. Cercherà di tener loro fede, tra fantasmi del passato con il volto dell'affascinante Edward Hamilton e lo spietato e freddo cugino della ragazza, Mark Hansen, che il destino continuerà a mettere sulla sua strada. La vita di Diane alla Derbydale University si ritroverà intrecciata agli scomodi segreti delle due famiglie più potenti della città e metterà a dura prova le sue amicizie, le sue certezze e i suoi principi.
Sentirsi soli in un dormitorio universitario è difficile, ma quella sera si sentiva più sola che mai. Due promesse, due pesi, due debiti che aveva stretto senza sapere se sarebbe riuscita a colmarli. Un segreto pericoloso, che rischiava di rovinare tutto ciò che aveva costruito con tanta fatica se solo fosse uscito da quelle mura di cartongesso, così leggere, fragili e inaffidabili.
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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Debt of Promise




VII







-Thomas, calmati!- esclamò Diane, rivivendo un deja-vu.
-Sono calmo.-
-Non mi sembra proprio- replicò Diane, incrociando le braccia al petto. Stava iniziando a innervosirsi. L’espressione di Thomas era quella di un cucciolo abbandonato, ma aveva appena aggredito Mark e ora andava avanti e indietro per la cucina dei MacShera senza trovare pace. Quindi no, non era per niente calmo.
-Mi vuoi spiegare cosa diavolo ti è preso?-
-Te lo volevo levare di torno, è così difficile da capire?!- esclamò alla fine, strizzando per la centesima volta la camicia nel lavabo.
Diane inspirò profondamente. –Stavamo solo parlando e tu gli sei saltato addosso. Quindi sì, mi è difficile capire dove sta la logica in tutto questo.-
-Logica?! Non è questione di logica Diane! Mark è un figlio di puttana e ti sta tirando dentro uno dei suoi casini, me lo sento! Quindi scusami se ho cercato di difenderti, scusami, non lo farò mai più, visto che ti dà tanto fastidio!-
-Mark mi aiuterà a incontrare Hilary- affermò Diane con fermezza. Era decisa a mettere fine alla sua sceneggiata melodrammatica e a scoprire la verità. Se era in quelle condizioni c’era un motivo. Quando ricominciò a parlare la voce le tremava di rabbia.
-Cosa hai preso?-
Thomas si fermò e spalancò i grandi occhi blu. –Eh?-
-Cosa hai preso- ripeté.
-Pensi che io sia fatto?-
-Cocaina? Amfetamina? Cosa, Thomas?- insistette Diane, impassibile come una statua. Non l’avrebbe perdonato, non questa volta, anche se la guardava con quell’espressione tradita e delusa. Conosceva fin troppo bene i suoi giochetti, non ci sarebbe cascata. Era alterato, nervoso e non riusciva a controllare le sue azioni. Se non c’era un vero motivo, voleva dire che era qualcos’altro a farlo agire in quel modo. Qualcosa capace di scorrere nelle vene, penetrare negli organi e cambiarne la fisiologia.
-Non ho preso niente- affermò con convincente calma.
-Non ti credo.-
-Vuoi farmi le analisi del sangue qui, adesso?- la provocò.
-No, lunedì, le tue urine- replicò Diane, per poi voltargli le spalle. Non sopportava più nemmeno la sua vista. Quel viso innocente e aperto, che invita a fidarsi, a volergli bene incondizionatamente per il solo fatto che il suo sorriso è più caldo e pacifico del sole stesso, ora le dava la nausea. Era falso, meschino e ipocrita. Come aveva potuto lasciarsi abbindolare per tutto quel tempo? Avrebbe dovuto capirlo dal modo in cui si era comportato con Hilary. Non aveva nemmeno avuto il coraggio di incontrarla, lui, che si professava tanto coraggioso e spavaldo. Era stato vile, codardo, inetto.
-Hai ragione!- le gridò nel tentavo di fermarla. Diane sospirò sentendo una fitta di dolore al petto e tornò a guardarlo. Una ceramica crepata, un cielo grigio, il mare in tempesta. Tutto questo le sembrò il suo volto.
-Mi sono comportato in modo insensato, non avrei mai dovuto aggredire Mark. Questa volta lui non c’entrava … anche se sono convinto ci sia sempre un buon motivo per prenderlo a pugni.-
-Thomas.-
-Sì, scusa!- si sbrigò ad aggiungere. Poi tornò serio. –Non ho preso niente Diane, il motivo per cui sono così nervoso è perché …. – esitò, come se ricordare e parlare al tempo stesso fosse troppo faticoso. -Ho visto Susan insieme a Edward.-
La bocca di Diane si aprì, ma non ne uscì una parola. Continuava a guardare Thomas, i suoi occhi bassi, in cui cercava di nascondere un dolore ancora fresco e una rabbia difficile da controllare. Thomas aveva perso la testa per Susan dal primo momento che l’aveva vista, il primo anno di università, durante la prima cena insieme al dormitorio. Si era innamorato di lei e da allora aveva iniziato a sperare che un giorno anche Susan si sarebbe resa conto di amarlo, che l’avrebbe visto con occhi diversi. Non era accaduto, ma la sua speranza non si era spenta. Nonostante si fosse costruito la fama di dongiovanni, Diane sapeva che nessuna delle storie che aveva avuto era stata seria. Non riusciva a togliersi Susan dalla testa … e Edward era stato il suo migliore amico, prima che partisse, il suo complice, il suo confidente. Sapeva cosa provava per Susan, e lo aveva rispettato anche quando, per crudele ironia, Susan si era innamorata di lui. Ma l’Edward di due anni prima era molto diverso da quello di adesso, Diane lo sapeva meglio di tutti, e ora anche Thomas avrebbe dovuto accettarlo.
Lo aveva tradito nel modo più crudele e doloroso che esistesse.
- … sei sicuro?- gli domandò con filo di voce.
-Li ho visti con i miei occhi. Erano qui, in cucina, e poi sono saliti al primo piano. A quel punto me ne sono andato, ho visto te e Mark … e il resto è storia.-
-Susan non lo farebbe mai- affermò.
Una risata strozzata morì nel petto di Thomas. –E’ molto meno probabile il contrario.-
Diane non lo contraddette. Lo abbracciò e lo lasciò con la promessa che sarebbe andato a casa a farsi una bella dormita. Thomas si offrì di darle comunque le sue urine, ma Diane rifiutò l’offerta con un certo disgusto.
Tornò all’aperto, dove nel frattempo una brezza notturna si era alzata e portava sollievo dall’afa estiva. Si stava facendo tardi, molti ospiti se ne stavano andando, la musica era più bassa. Si chiese dove fosse Sophie e si intristì, perché non era riuscita a parlare con Chris come le aveva chiesto. Si chiese dove fosse Susan e la tristezza divenne preoccupazione. Non poteva aver ceduto ad Edward, non adesso, non dopo tutto quello che era successo.
-Ho chiesto al barman di fallo bello forte.-
La voce che si infilò tra i suoi pensieri era calma e morbida, piacevole come le fusa di un gatto. Steven era così diverso dai ragazzi che era abituata a incontrare per le vie del campus o a lezione che vederlo di fronte a lei, con indosso un paio di jeans e una semplice maglietta bianca, le sembrò irreale quanto un sogno.
-Ma se preferisci ti prendo qualcos’altro- continuò, accennando al secondo bicchiere che reggeva tra le mani. Chissà per quanto tempo doveva averla cercata, vagando con quei due bicchieri in mano.
-Ti prendo un analcolico- si sbrigò a dire, facendo per andarsene.
-No, va benissimo- si avvicinò e sorridendogli grata, afferrò il bicchiere. –E’ esattamente quello di cui ho bisogno.-

***

La festa di Sophie ebbe l’effetto opposto dello scopo di una festa: Diane rimase senza amici. Susan era sparita, Sophie la evitava per evitare Chris e Thomas non usciva dalla sua stanza. L’unico che ancora le rivolgeva la parola e si mostrava vagamente interessato alla sua esistenza era Jay Lee. Costante nella sua anormalità, continuava a sfoggiare il giallo del dipartimento con orgoglio dando a tutti almeno una certezza nella vita. Curioso, visto che se c’era qualcuno che doveva sentirsi perso era lui. Non era un tipo routinario, amava inventarsi nuovi passatempi ed era sempre in cerca di novità. Per questo Diane aveva temuto il peggio quando la sua fidanzata era partita per un anno di erasmus, lasciando il più irrequieto degli studenti ad attendere il suo ritorno. Jay Lee non aveva pazienza, odiava le attese e si buttava a capofitto in tutto ciò che faceva. Anche nelle relazioni era così, e la sua eccessiva fretta era stata spesso la causa di rotture poco serene. Era come un cucciolo di labrador in perenne ricerca di attenzioni, e se non le riceve se le va a prendere sfociando nell’invadenza. Diane credeva che non ce l’avrebbe fatta a rimanere buono e a cuccia per un anno, invece erano sei mesi che aspettava il ritorno di Amy ed era più sereno che mai.
-Belle le tue occhiaie Jay Lee- gli disse, mentre insieme scendevano le scale. Alle quattro in punto di ogni giorno si incontravano con il camice ancora indosso per andare a bere un caffè al distributore automatico. Il laboratorio chimica farmaceutica si trovava al secondo piano, mentre quello di sintesi chimica al terzo e da quando erano entrati entrambi in tesi avevano preso l’abitudine di spezzare il pomeriggio con una pausa nell’area ristoro del Dipartimento. Abbandonavano provette e spettrometri di massa per scambiare due parole, visto che la mattina Jay Lee preferiva andare a correre piuttosto che fare colazione insieme a Sophie e Susan, e alle loro chiacchiere. 
-Lascia perdere. Ieri sera Amy ha fatto tardi e sono rimasto sveglio ad aspettarla- le rispose, e il tono amareggiato con cui lo disse non prometteva niente di buono. Che finalmente la sua natura si fosse ribellata? –Mi sono addormentato dopo dieci minuti a dir tanto, con skype acceso, e quando mi sono risvegliato avevo un rivolo di bava che mi colava sul mento. Che figura! Per fortuna anche Amy si era addormentata e non ha visto niente. Ti immagini se si fosse accorta? Non voglio nemmeno pensarlo!-
Diane rise. Gli AmyLee, come erano solita chiamare la coppia Sophie e Susan, erano indistruttibili e non avrebbe dovuto dubitare. Errore suo, ed era felice di essersi sbagliata. Desiderava solo il meglio per Jay Lee, il suo migliore amico dai discutibili gusti estetici.
-Sally, dove ha lasciato il bastone oggi?- chiese Lee, mentre si avvicinavano al distributore. Sally era la bidella con un chiaro disturbo psichiatrico del Dipartimento di Scienze della Vita. La leggenda narra che in origine fosse una farmacista, impazzita durante il corso di studi che continuava a vagare come un’anima tormentata per aule e laboratori. Sguardo perso, capello a caschetto sul viola malva e gonna sotto il ginocchio dello stesso colore. Girava sempre con un bastone che infilava sotto le macchinette alla ricerca di spiccioli. Parlava da sola, oltre che con i distributori, e aveva la dote di prevedere il futuro. Non c’era studente che non l’adorasse.
-Sally, dacci i numeri del lotto- le stavano chiedendo due ragazzi mentre sgranocchiavano un pacchetto di patatine.
-No, domani- rispose lei, guardando dentro un cestino della spazzatura.
-Dai, Sally, dacci i numeri!- insistettero.
-Va bene: a, b e c.-
-Ma Sally questi non sono numeri!- fece notare uno dei due.
Sally sventolò un braccio in aria. –L’esame, le risposte dell’esame!- E si allontanò borbottando qualche insulto, tra le risate dei due ragazzi. Diane prese il bicchierino che il braccio robotico del distributore le offrì e si fece da parte, mentre Jay Lee digitava “caffè lungo” e “extra zucchero”. Amava quella amara bevanda dal gusto unico e inimitabile, quell’aroma che delizia le narici e seduce il palato. Era una dipendenza, inserita tra l’altro nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, ma era l’unico vizio che si concedeva. Era divertente, poi, pensare che avesse qualcosa in comune con Sally, la quale nel frattempo era ritornata nell’area ristoro brandendo il suo fedele bastone.
-Ehi tu, depresso!- la sentirono esclamare. –Fuma che ti fa bene!-
Sia Jay Lee che Diane si voltarono a guardare chi fosse il malcapitato studente a cui era rivolto il caloroso invito. A Diane quasi cadde il caffè di mano e Jay Lee interruppe il primo sorso per poter spalancare bocca e occhi di fronte ad un Mark Hansen confuso e perplesso. Sally agitò il bastone dicendo questa volta qualche sconceria ad una ragazza che camminava tranquillamente tenendo per mano il fidanzato, mentre Mark continuava a guardare la tozza bidella con circospezione.
Quando si voltò verso di loro, Jay Lee non riuscì a trattenersi dalle risate.
-L’ha chiamato depresso!- esclamò, mentre si teneva una mano sulla pancia. Mark nel frattempo aveva abbandonato lo studio di quella rara specie di homo sapiens e li stava raggiungendo con espressione impassibile. A Diane passò del tutto la voglia di scherzare.
-Spero che ti vada di traverso il caffè.-
Fu la prima cosa che disse una volta raggiunti.
-Scusami davvero tanto Mark- continuò Lee. –Ma non ho da accendere!-
-Certo che ce né di gente strana nel vostro Dipartimento- replicò velenoso, mentre Lee finiva di ridere e Diane guardava da un’altra parte mandando giù il velato insulto che le era parso di cogliere. Era come l’attesa prima dello strappo di un cerotto.
-Sta tornando, sta tornando!- esclamò con gioia Jay Lee. Sally, guardando con sospetto ogni studente che incrociava la sua strada, si avvicinava ai distributori con le movenze rozze di un armadillo. Era destino che tra tutti notasse il più vistoso del loro trio. Piantò gli occhi acuti sul viso di Mark, che non solo era alto il doppio di lei, ma per di più indossava una maglietta nera, simbolo del Dipartimento di Meccanica. Non a caso l’aveva preso di mira.
-Prendi le barrette energetiche- gli consigliò probabilmente notando la sua notevole stazza. Poi, per essere più precisa, picchiettò sul vetro del distributore con il bastone e gliele indicò. –Quelle lì straniere. Così ti vengono i pettorali grossi e le donne ti amano.-
Jay Lee proruppe in un’altra fragorosa risata e anche Diane questa volta non riuscì a trattenersi. L’espressione di Mark era impagabile. Vagamente imbarazzato, sicuramente preso in contropiede. Se avesse saputo che sarebbe bastata Sally per metterlo a disagio l’avrebbe trascinato prima nell’area ristoro del Dipartimento. Il suo sguardo sempre tanto spavaldo e pronto a sottomettere chiunque osasse sfidarlo, guardava smarrito la bidella ora accovacciata a terra. Brandendo il bastone, aveva infilato tutto il braccio sotto il distributore e affermava di vedere una banconota da cinquanta dollari.
-Mark, dovresti ascoltare i suoi consigli. Non ho l’accendino, ma ti posso prestare degli spiccioli per le barrette- lo stuzzicò ancora Lee. Diane lo guardò storto. Non era lui che diceva di non giocare con il pericoloso Mark Hansen? 
-Cosa è quella?- chiese, non riuscendo a smettere di guardare le gesta di Sally.
-Quella è Sally-macchinetta-del-caffè e ciò che dice è legge qui dentro. Quindi, straniero del Dipartimento delle Merendine, non osare insultarla!-
Diane finì il caffè e andò a gettare il bicchierino di plastica, mentre Mark diceva qualche altra cattiveria a Jay Lee. Dalla festa di Sophie non l’aveva più visto né sentito, quindi era abbastanza chiaro che fosse lì per un motivo ben preciso e non per prendere un caffè in compagnia della pazza del Dipartimento. Infatti, quando tornò a voltarsi, era lei che stava guardando.
-Io devo tornare di sopra- disse Jay Lee, non sospettando minimamente che Mark fosse lì per lei. –Mark, dovresti venire più spesso a prendere il caffè qui … o le barrette straniere, o a farti una sigaretta, come preferisci!-
Ricevendo uno sguardo glaciale dal diretto interessato, se ne andò non senza prima rivolgere il doveroso saluto a Sally. –Ciao Sally!- esclamò.
-Ciao, cerca di bruciare tutto.-
Diane sorrise, vedendo Lee fare il segno dei pollici alzati con il sorriso stampato in viso. Quando vide la porta richiudersi, incrociò le braccia e alzò gli occhi su Mark. –Immagino tu sia qui per dirmi qualche cosa.-
-Andiamo da Hilary.-
-Ora?-
-Sì.-
Diane lo fissò contrariata. Non gli avrebbe certo detto di no dopo tutto quello che era successo, ma la sua insolenza nel presentarsi senza nemmeno avvisare era davvero insopportabile.
-Sei fortunato che per oggi ho già finito di lavorare- gli disse allargando le braccia e mettendo in bella mostra il camice bianco. Poi infilò una mano in tasca ed estrasse il cellulare. –Segna il tuo numero, io mi devo cambiare.-
Quando scese indossando solo jeans e maglietta, Diane lo trovò seduto su una delle sedie dell’area ristoro a studiare di nuovo Sally. Sembrava davvero incuriosito dal caso umano e quasi non si accorse del suo arrivo. Infatti, non appena la vide, scattò in piedi e le porse il cellulare senza dire una parola.
-Hai what-up?- gli chiese, mentre lo seguiva fuori dal Dipartimento controllando che avesse fatto tutto come si deve. –Cosa è la tua immagine? Tubi di metallo?-
-Un motore - rispose secco. –Di quella moto in particolare.-
Diane alzò lo sguardo dallo schermo e riconobbe il veicolo che aveva preso in ostaggio qualche settimana prima.
-Non penserai che io salga su quel coso- gli disse categorica. –Andiamo in tram.-
-Sì, così ci metteremo tutto il giorno- replicò aprendo il sottosella ed estraendo un casco, nero anch’esso, che le porse. Diane rimase a fissare il suo braccio teso verso con un’espressione per nulla convinta.
-Prendo un taxi- sbottò.
-E’ l’ora di punta, vuoi rimare incastrata nel traffico?-
Diane incrociò le braccia. Anche se aveva bocciato una ad una le sue proposte con motivazioni ragionevoli, non voleva ancora rassegnarsi a un viaggio in stretto contatto con Mark Hansen, su una moto poi, di cui aveva il terrore.
-Jeff non starà via per sempre- tuonò Mark, cominciando a innervosirsi. Messa alle strette, Diane sbuffò, sciolse le braccia e accettò il casco. Mark indossò il suo, poi con disinvoltura salì in sella e accese il motore. Il solo rumore fece trasalire Diane che dopo aver litigato anche con l’allacciatura si ritrovò a guardare con timore il destriero nero e il suo cavaliere. Non impazziva dalla voglia di accucciarsi dietro a Mark e stringersi a lui, ma si sforzò di farlo.
-Vai piano- lo intimò, dopo che ebbe sistemato i piedi e cinto timorosamente le braccia attorno alla sua schiena. Instabile e terrorizzata dall’idea di rotolare a terra alla prima curva, sperò che il suo consiglio fosse accettato.
Arrivarono a destinazione. Un secondo dopo che il rombo si spense, Diane era già con i piedi saldamente piantati a terra. Aveva capito che era stata una pessima idea accettare il passaggio dopo il primo rettilineo. Lei, che si era preposta di mantenere le distanze, aveva dovuto stringersi ancora più di più per paura di cadere, fino ad appoggiare la guancia alla sua schiena, paralizzata dalla paura.
-Che cuor di leone- la schermì Mark togliendosi il casco e mostrandosi fieramente soddisfatto. Con il cuore che le batteva ancora a mille e l’aria terrorizzata, anche Diane liberò i capelli, ma a differenza del ragazzo sembravano terrorizzati quanto la proprietaria. Odiava le moto e odiava Mark. 
-Non sei divertente!- esclamò, piantandogli il casco contro il petto. Stargli così vicino andava contro ogni suo istinto. Sentiva di doversi allontanare con la stessa forza che respinge di due magneti opposti. Mark l’afferrò ridendo, mentre Diane si allontanava da quell’idiota che guidava come un criminale nel tentativo di smettere di tremare.
-Non ti hanno ancora arresto per come guidi?- chiese cercando di riprendere fiato e di sfogare la tensione.
-Sei più codarda di quanto pensassi.-
Diane lo fulminò con lo sguardo, e solo voltandosi verso di lui si accorse di non essere davanti all’imponente inferriata di Coral House, ma a un cancello decisamente più piccolo e nella norma. Durante il viaggio aveva chiuso gli occhi e non aveva idea di che strade avesse imboccato, quindi non aveva nemmeno la certezza che l’avesse realmente portata nella dimora di suo zio e sua cugina.
-Dove siamo?- gli chiese.
-A Coral House- rispose, rimettendo a posto i caschi e raggiungendo il cancello. –Non avrai pensato che ti facessi entrare dall’ingresso principale. Quello si apre solo nelle occasioni importanti, e tu hai già avuto il tuo momento di gloria.-
-Ho solo suonato il campanello- replicò.
-Sei stata notata in ogni caso. Questo è l’ingresso secondario, che usiamo io e Hilary.-
-Anche tu vivi qui?-
-Ti sembra che stanze manchino?- rispose sarcastico finendo di aprire la porta. All’improvviso si fece serio. –Nessuno sa e deve sapere che tu sei qui, ricordatelo.-
Diane annuì e lo seguì dentro. Non appena oltrepassò la soglia le sembrò di entrare in un altro mondo. Un prato perfettamente curato si apriva dolce, attraversato solo dal vialetto in pietra su cui stavano camminando. Dei pini in lontananza rompevano il correre sconfinato dell’erba e lasciavano intravedere un immenso edificio rinascimentale. Il vialetto che stava percorrendo, infatti, non portava alla dimora regale, ma a una casa più piccola.
-Questa è casa tua?- gli chiese fermandosi ad ammirarla. Era più piccola, relativamente parlando, e manteneva lo stesso tenore regale della principale. Pareti bianche, imposte in legno scuro e cornicioni incisi in decori floreali. Di fronte all’ingresso, preceduto da colonne, si apriva un piccolo spiazzo dove una fontana zampillava e ricchi vasi di fiori rossi le ballavano attorno.
-Sì- rispose, superandola spazientito.
Diane seguì Mark che imboccò un altro viale lastricato in pietra, costeggiando il lato sud della casa. Il prato cominciò a inclinarsi e presto comparvero dei gradini. Diane osservò la scalinata scendere armoniosa tra i fili d’erba e i gelsomini, che ad arco si chiudevano sopra le loro teste creando un tunnel profumato. Ma non aveva tempo per meravigliarsi, Mark aveva fretta e continuava a voltarsi.
-Ci siamo- le disse, una volta fatto l’ultimo gradino. Un enorme albero di noce si alzava verso il cielo con la sua chioma dalle foglie chiare; davanti ad esso era stato preparato un piccolo tavolo bianco con delle sedie, e Hilary era lì. Si alzò in piedi non appena li vide arrivare.
Indossava un sorriso tenue e timido, debole come la fiamma di una candela sul bordo di una finestra aperta. I lunghi capelli neri cadevano lisci come seta sulle sue spalle esili e gli occhi azzurri brillavano gentili in un volto di porcellana. Riusciva ad essere bella nonostante fosse evidente che non si fosse ancora ripresa. La maglia di cotone bianco a maniche lunghe nascondeva un corpo troppo magro, a cui non basta il calore della prima estate per placare i brividi. I capelli erano sì incantevoli, ma sembravano sul punto di spezzarsi; così come la pelle, senza imperfezioni ma della pallida sfumatura della luna.
-Buon pomeriggio- le disse, unendo le mani e rimanendo composta. –Mi dispiace accoglierti nell’angolo più remoto e meno curato del giardino, Diane. Spero che potrai scusarmi.-
Il prato che sembrava disegnato con un pennello si interrompeva aprendosi in macchie scure e sgradevoli appena sotto l’albero. I fili d’erba sopravvivevano a fatica, la terra brulla era infertile e spoglia.
-Il noce fa questo brutto scherzo- replicò quasi sovrappensiero.
Hilary alzò lo sguardo verso le fronde sottili. Persino la corteccia della pianta era poco piacevole: grigia, secca e con scanalature che sembravano scavate da artigli di enormi felini. I rami erano possenti, ma fragili, eppure portavano foglie larghe e dal colore brillante.
-Credevo che il problema fosse la terra- replicò, stranamente interessata.
 -Oh, no, la terra è sempre la stessa. E’ il noce, che produce una sostanza che impedisce alle altre specie di crescere troppo vicine, in modo che non gli rubino le sostanze nutritive. Una tecnica difensiva efficace, anche se esteticamente non delle migliori.-
Hilary fu soddisfatta della spiegazione e tornò a guardarla. –Studi biologia?-
-Sono cresciuta in campagna. Studio chimica- rispose Diane, accettando poi la sedia che le veniva offerta. Era finalmente seduta davanti a Hilary e stava mantenendo le sue promesse. Poco le importava adesso il modo in cui era arrivata al fine, l’importante era averlo raggiunto. Tuttavia, dopo che le ebbe versato un bicchiere di limonata, non seppe più che cosa dire. Non conosceva Hilary se non di vista, non sapeva cosa studiasse, né che gusti avesse. Non sapeva niente di niente, ed era difficile parlare del niente.
-Tu, invece, che cosa studi?- le chiese.
Hilary si rabbuiò all’improvviso. -Economia.-
Il cambiamento d’umore non sfuggì a Diane. –Dipartimento di Comunicazione. E ti piace?-
-Sì- rispose in un sussurrò. –Anche se la mia vera passione è la letteratura classica. Però cosa me ne faccio, nel mondo reale, di due lingue morte come il greco e il latino?-
Sebbene la voce fosse quella di Hilary, Diane ebbe la sensazione che quelle parole non provenissero delle sue labbra, ma che qualcun altro l’avesse obbligata a pronunciarle. E sospettava anche chi fosse quel qualcuno. Hilary Hansen, erede di Jeff Hansen, il più spietato e abile uomo d’affari di Darbydale non avrebbe potuto studiare altro se non economia, visto il futuro che l’aspettava. Le lingue morte, come le aveva lei stessa definite, dovevano rimanere un sogno rilegato nel cassetto della fantasia. Diane cominciò a capire il motivo della sofferenza di Hilary e del suo viso perennemente triste. 
-Tuo cugino, comunque, potrebbe farsi la stessa domanda sullo studio di funzione- rispose lanciando un’occhiata a Mark, che si era accomodato mantenendo però una certa distanza. Se doveva rimanere ad origliare tanto valeva divertirsi un po’.
-Tieni la bocca chiusa se non sai di cosa parli, Leslie- replicò lapidario.
-Oh oh!- Diane rise e incrociò i suoi acuti occhi azzurri. -Dipartimento di Meccanica, dei veri bruti!-
-Dipartimento di Scienze della Vita, dei veri palloni gonfiati!-
-Almeno noi non dimentichiamo le tabelline non appena sentiamo una fragranza femminile nell’aria.-
-Neanche le sapete le tabelline.-
-Tu quale preferisci?- continuò Diane ignorando la replica. -Vento del deserto? Fiori di Loto?-
Lo sguardo di Mark si indurì. Il suo intero volto sembrò essersi tramutato in pietra, i tendini ai lati del collo emergevano nervosi ad ogni respiro profondo che prendeva. Il tiro mancino di Diane lo fece infuriare, e Mark si preparò a replicare, quando venne anticipato.
-Scusa, Hilary- disse Diane, abbassando lo sguardo. -Non sono venuta qui per litigare con Mark. Penserai che sono fuori di testa.-
La ragazza, stancamente appoggiata allo schienale della sedia come se non avesse nemmeno la forza di tenere sollevata la testa, sorrise. –Un po’ lo pensavo già- rispose, -ma in senso buono. Non ho idea di chi tu sia né perché ti interessi così tanto della mia salute. Eppure sei qui, che tieni testa a Mark come non ho mai visto fare a nessuno, e continuo a non sapere niente di te.-
-Non c’è molto da sapere- continuò Diane. –Mi chiamo Diane Leslie, vengo da Sheffield e studio Scienze della Vita. E anche io non so niente di te.-
-Qualcosa sai- replicò con inaspettata prontezza.
-E so anche che è molto più complicato di quanto sembri.-
Alla risposta pronta di Diane, gli occhi di Hilary, che si erano spostati verso il basso, tornarono a risollevarsi. Diane non aggiunse altro, ma quella singola frase di comprensione bastò perché la ragazza alzasse il mento dal petto e non si rinchiudesse in se stessa.
-Hai detto che vieni da Sheffield. Da quanto sei a Derbydale?-
-Da quando ho quattordici anni.-
-Vi siete trasferiti qui?-
-No, la mia famiglia è ancora ad Sheffield.-
-Quindi vivi qui da sola da quando hai quattordici anni?- chiese sorpresa.
-Dovevo avere la migliore istruzione possibile per superare gli esami ed entrare nella Derbydale University.-
Hilary rimase in silenzio. Dalla sua espressione intimorita era chiaro che sapesse benissimo cosa dire, ma le parole non trovavano il coraggio di lasciare le sue pallide labbra. Il motivo, Diane lo capì dal breve e invisibile sguardo che riservò al cugino seduto di fianco.
-Hansen, non hai un sacco da prendere a pugni o qualcosa del genere?-
-Limonata?- Hilary si alzò in piedi all’improvviso e con la fragilità di un giunco sferzato dal vento si mise a riempire i bicchieri che erano stati preparati sul tavolo. Mark ignorò l’atto di gentilezza della cugina, aprire un foro sulla fronte di Diane con lo sguardo era più urgente. Quest’ultima capì di aver fatto un passo falso e si ritirò nelle retrovie. Che il rapporto tra Mark e Hilary fosse strano era chiaro, ma non aveva capito che il limite da non valicare fosse così vicino. Hilary temeva Mark come niente al mondo, e non era difficile capire perché.
-Riprenderai l’università a settembre?- domandò. Avrebbe desiderato saperne di più, ma non poteva. Hilary era pallida come un fantasma.
-Non credo- rispose. -Sto pensando di studiare da casa.-
-Dovresti invece!- esclamò Diane. –La festa di inizio anno sarà la più bella dell’ultimo decennio. Ti devi iscrivere solo per quella!-
-Sei nel comitato che l’organizza?- le chiese, mostrandosi interessata. L’ombra scura era sparita un’altra volta.
-In teoria- rispose Diane ridendo. –Dovrei trovare il posto adatto per una serata di gala, ma non so da che parte iniziare. Dove lo trovo un posto tanto elegante a Darbydale? Esisteva nell’ottocento, forse.-
Non appena pronunciò la domanda ad alta voce la risposta le comparve di fronte agli occhi. Susan era stata chiara, quasi lapidaria, nella mail che aveva mandato a tutti gli organizzatori e in cui assegnava a ciascuno un compito. Il suo, malauguratamente, era quello di trovare la location adatta.
-No.-
Secco e brusco, il no di Mark interruppe il flusso dei suoi pensieri, che già gioivano per aver risolto un problema senza faticare troppo.
-Perché no?- chiese Hilary, mostrando per la prima volta un barlume di entusiasmo. –Coral House sarebbe perfetta!-
-Perché abbiamo già attirato abbastanza l’attenzione.-
Diane fremette sulla sedia. Farla sentire in colpa non l’avrebbe di certo aiutata a guarire e purtroppo sospettava che non solo Mark si mostrasse insensibile verso Hilary, ma la sua intera famiglia. Finalmente sapeva come mantenere la sua promessa.
-Hilary- la chiamò. –Per te sarebbe un problema se passassi alla sera a trovarti? Di giorno sono impegnata con il lavoro di tesi.-
-Per me non fa alcuna differenza- rispose con voce debole.
-Cosa ne dici di martedì e giovedì alle nove?- le chiese.
Annuì. Trovò la forza di alzarsi solo perché sapeva che l’avrebbe rivista da lì a pochi giorni, e sarebbero state sole. La salutò osando un abbraccio, poi seguì Mark che l’accompagnò al cancello.
-Dov’è la fermata del tram più vicina?- gli chiese una volta fuori. Mark, però, non le rispose, ma la guardò con aria di rimprovero.
-La sera non va bene- replicò. –Mio zio sarà sicuramente in casa.-
-Anche nella tua?- domandò, facendolo sospirare esasperato.
-Il giovedì non ci sono io, non va comunque bene.-
-A me sembra perfetto.-
A quella risposta, la fronte di Mark si rischiarò, quasi imitasse la sua mente, che finalmente aveva capito il piano di Diane. Così come lui conosceva le sere in cui andava in palestra, anche lei sapeva gli orari dei suoi allenamenti.
-Leslie, stai giocando con il fuoco- le disse minaccioso. Il suo sguardo glaciale era ritornato aggressivo. Aveva preso in contropiede il geniale Hansen, ma sapeva di non dover gioire troppo per quella piccola vittoria. Non essere riuscito a prevedere la sua mossa era per Mark una sconfitta difficile da digerire.
-Vuoi o non vuoi che ti scali le ore?- replicò senza mezzi termini. L’unico modo per non soccombere sotto la valanga di ghiaccio e neve della sua freddezza era cercare di non rimanerne investita.
-Ti avverto- le disse, facendosi avanti e abbassando di un tono la voce. –Fai del male a Hilary e non sarò io quello che ti tenderà la mano per tirarti fuori dalla fossa. Mio zio, a differenza di me, salta le minacce e passa direttamente ai fatti.-
-Correrò il rischio- rispose, sostenendo il suo sguardo senza esitare. Mark era forte, sicuro di sé e determinato, ma lei dalla sua parte aveva motivazioni che vincevano di gran lunga sul semplice desiderio di apparire arrogante.




Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
In realtà sto pensando di rivedere completamente la storia perchè credo che ci siano dei passaggi poco chiari e degli aspetti che mi piacerebbe sottolineare di più.
Ogni consiglio è ben accetto!
N
ereides
   
 
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