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Autore: theGan    23/10/2016    6 recensioni
Quando Kojiro Hyuga aveva deciso di andare a trovare Genzo Wakabayashi in Germania, non aveva previsto Karl Heinz Schneider (GenzoxKarl)
Genere: Comico, Commedia, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Karl Heinz Schneider, Kojiro Hyuga/Mark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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Era una strana mattina quella. L'aria era frizzante, ma appesantita dalla consapevolezza di avere per casa una persona in più. Di troppo. Genzo Wakabayashi non negava, almeno a se steso, di esser un tipo abitudinario. Negli ultimi anni era stato più volte costretto a scendere a compromessi con la propria faticosamente conquistata calma interiore. Tutta la faccenda della naturalizzazione tedesca, il litigio tra Kaltz e Schneider, i problemi con la squadra, il nuovo infortunio e infine il trasferimento a Monaco... Si sentiva frastornato in un certo senso. Forse era per quello che aveva accettato l'invito di Schneider a vivere insieme e che ora di fronte alla richiesta di Kojiro si sentiva strano. Inadeguato. Con un moto di stizza scrollò la testa e si infilò il resto della maglietta che durante le sue riflessioni cosmiche si era limitata a penzolare pigramente tra le sue braccia. Si diresse in soggiorno, scavalcò Hyuga abbandonato sul divano letto, infilò le scarpe e uscì. Niente allenamenti oggi. Ma era sua abitudine correre (a scatti, rigorosamente a scatti) per qualche chilometro ogni mattina, a Amburgo era la distanza che lo separava dallo stadio. A Monaco non aveva ancora una routine consolidata e quelle levatacce erano una buona scusa per conoscere la città. Piano piano quella sensazione fastidiosa di esser tornato a essere uno straniero in casa d'altri sarebbe passata. Alle cinque del mattino una città inizia pigramente a svegliarsi, pochi automobilisti iniziavano a correre verso quel lavoro o quell'appuntamento, ma erano soprattutto i camion delle consegne e i proprietari di cani suoi inconsapevoli compagni in quelle esplorazioni. L'illuminazione stradale dava a questo e a quell'altro contorni indistinguibili, quasi fosse sempre lo stesso uomo, la stessa donna e lo stesso cane. John gli mancava terribilmente. Il vecchio cane a cui Ishizaki disegnava di nascosto le sopracciglia sul pelo pezzato era mancato il mese scorso. L'aveva informato la sua governante per lettera, come se fossero altri tempi. La novità dal Giappone gli era arrivata solo la settimana scorsa. Genzo non era sicuro se quella che sentiva fosse tristezza o solo un senso soffocante di inevitabilità. La sua, dopotutto, era quella: un’esistenza vuota, costruita su fondamenta di sabbia. Macché dare consigli a qualcun'altro. Che chiedesse a Tsubasa che in Spagna si trovava nel suo sugo e che aveva un matrimonio felice e due figli tra le scatole. Lui aveva solo il calcio e tolto quello non rimaneva quel granché. Un odore improvviso gli invase le narici. Una panetteria aveva già aperto e diffondeva nell'aria gli aromi caldi dei prodotti appena sfornati. Genzo verificò di essere uscito col portafoglio e con un sorriso storto pensò alla reazione di Karl del giorno prima per quegli accidenti di biscotti. Dieci minuti dopo correva verso casa con le mani chiuse attorno a un pacchetto fumante.
*
Kojiro Hyuga non era un tipo mattiniero. Che cazzo, aveva lavorato per anni come ragazzo delle consegne e lì sì che la sveglia era presto. Ma quello era lavoro, una necessità. Adesso era in vacanza e al mattino voleva dormire. Punto.
In realtà tra le quattro e le cinque si svegliava sveglio, cioè in quell’orribile stato in cui la mente realizza che sì, è mattina, oh mio dio quante cose ci sono da fare, mentre il tuo corpo ti urla dietro “pirla torna a letto”. E Kojiro avrebbe anche dato ragione a quest’ultimo girandosi dall’altra parte e riprendendo a russare da dove aveva interrotto, se non ci fosse stata un’ombra a scavalcarlo. Mamma mia che era? Un grizzly? Quasi: Genzo Wakabayashi.
La porta dell’ingresso si aprì, facendo arrivare un fastidioso raggio di luce verdognola dritto nel suo occhio sinistro. Giusto qualche secondo, il tempo di rompere le palle, poi la porta sbatté violentemente su se stessa consegnando il salotto all’oscurità. Kojiro Hyuga era definitivamente sveglio. Mannaggia.
Con uno sbuffo abbandonò la testa contro il cuscino, respirando l’aroma di canfora che era rimasto attaccato alle federe di cotone. Cosa c’era andato a fare lui in Germania? Wakabayashi era stato stranamente cortese, non aveva neanche riso (troppo) di fronte al suo evidente imbarazzo, neanche quando alla sera erano andati fuori a bere e Kojiro aveva cercato di ordinare in tedesco e accidentalmente fatto proposte indecenti al barista. Schneider invece aveva riso. Tanto. Ne era rimasto sorpreso, non pensava che il tedesco sapesse ridere.
Ok, non pensava nemmeno che fosse un disordinato cronico e un essere umano in generale, ma tanté… del Kaiser di Germania conosceva solo la pericolosità calcistica e non gli era mai importato altro. Neanche adesso gliene fregava più di tanto, in effetti, ma interrogarsi sulle stranezze di Schneider era un buon modo per non pensare ai suoi problemi. Problemi tipo la sua immagine stampata su ogni accidente di confezione di cereali, o non potersi vedere la tivù senza incappare nel proprio faccione preso a pubblicizzare dentifrici al sapore di schifo. Soldi facili, quasi troppo. Gli aveva spediti a casa da sua madre e  sua sorella si era potuta pagare la retta di quel prestigioso istituto privato che le piaceva tanto. Sì, andava tutto bene.
Chiuse gli occhi, il sonno era lì, a un passo. Lo strozzo intestinale non avrebbe vinto… riaprì gli occhi. Oh, guarda, sul soffitto c’era una macchia tipo rotonda. Non sembrava umidità, magari era un riflesso. Espirò, non era vero che andava tutto bene. Per tutta la vita non aveva voluto altro che vivere di calcio. Ce l’aveva fatta, sogno realizzato yadda yadda, evviva evviva. Perché si sentiva così di merda?
Era un ingrato.
Si girò, mise una mano fuori dalle coperte, poi un piede, poi rimise dentro la mano e tirò fuori l’altra, si voltò sul fianco sinistro. Gli prudeva un piede… Kojiro strinse i denti, accidenti no, non avrebbe permesso al mattino di vincere. Infilò il braccio sotto il cuscino e, miracolo: la posizione perfetta.
Doveva fare pipì.
Maledicendo nel modo più silenzioso possibile l’SGGK responsabile dell’anticipato risveglio, Kojiro ciabattò nella semioscurità verso il bagno. Nel tragitto centrò due porte, una parete e un sacco di altre cose che avrebbe giurato non fossero lì la sera prima.
L’appartamento di Wakabayashi (e Schneider) era ampio, ma per quanto spazioso aveva solo un bagno. Fortunatamente nessuno dei legittimi inquilini lo stava presidiando al momento, Kojiro entrò e girò la chiave nella toppa. O almeno, tentò. La sua mano trovò solo aria: non c’era la chiave. Ma accidenti a loro. Scrollò le spalle, dopotutto cosa importava: erano tutti uomini lì dentro. Peccato che quei quattro passi che separavano il salotto dal bagno avessero fatto maturare un certo stimolo. Nel bagno non c’erano finestre. Kojiro si pose il problema solo a fatto compiuto, cercando inutilmente a tentoni il pulsante per la ventola che PER FORZA doveva essere lì, da qualche parte.
Dopo 15 minuti buoni, si arrese. Aveva bisogno di aiuto.
Uscì dalla camera a gas di nuova generazione e si diresse verso quella che, con buona probabilità, doveva essere la camera di Wakabayashi. L’imbarazzo fece balenare in testa a Kojiro un pensiero buffo: com’è che faceva Wakabayashi a sequestrare a ogni cavolo di raduno l’unica stanza singola disponibile? E che lo faceva a fare se poi tanto gli si piantava fisso in camera il trio Shutetsu più Tsubasa e Misaki a turni alterni. Ma soprattutto, come accidenti faceva a cacciarli fuori?! Liberarsi di Tsubasa era un’arte che valeva la pena di apprendere.
La porta davanti a lui era socchiusa. Kojiro non si fece troppi problemi e la spalancò completamente, in quel momento il tempo si fermò.
Pensiero uno: quella non era la stanza di Wakabayashi.
Pensiero due: anche se quella fosse stata la stanza di Wakabayashi, non ci avrebbe trovato dentro Wakabayashi visto che Wakabayashi era uscito di casa tipo dieci minuti fa.
Il caos regnava su ogni cosa, un calzino penzolava sinistramente dal lampadario sbieco, uno scaffale si ripiegava su se stesso sotto il peso di troppi premi, mentre un ventilatore a piantana cigolava sinistramente sventolando aria bollente, il condizionatore era a palla. E al centro c’era lui, il letto, fatto di lenzuola e federe spaiate; al centro il Kaiser di Germania, profondamente addormentato, ma soprattutto MOLTO NUDO.
*
La luce artificiale dei frigoriferi del minimarket riempiva l’aria di un sapore come di rarefatto. Alla sua sinistra stava un assortimento poco invitante di formaggi freschi e prosciutti con un dito di grasso. Alla sua destra capeggiavano due tristi marche di latte fresco. Genzo ricordava vagamente una conversazione con Wakashimazu su alimentari e allergeni vari (come erano finiti sull’argomento rimaneva un mistero) in quell’occasione l’altro portiere gli aveva accennato qualcosa su un’intolleranza di Kojiro per un qualche tipo di conservante del latte. Osservò storto le confezioni incriminate. Certo che faceva freddo lì dentro. Scosse la testa e le ficcò entrambe nella borsa. Una avrebbe fatto alla bisogna. Stava diventando troppo buono.
In un altro reparto agguantò uno spazzolino per Karl e una confezione di sgrassatore per piatti. Dopo un breve momento di recap mentale, si diresse verso la cassa.
Al mattino presto (e cioè VERAMENTE presto) non trovi nessuno a fare la spesa. Bhè, di solito non trovi nemmeno un minimarket aperto alle 5. Wakabayashi aveva scoperto quel negozietto circa da tre settimane a due isolati dal proprio appartamento e aveva deliberato che: era piccolo, comodo, rallegrati e non indagare.
Un commesso brufoloso in stato di seminconscienza sedeva all’unica cassa aperta, la testa abbandonata contro lo schienale della sedia, si chiamava Frank, Genzo frequentava il posto da abbastanza tempo per averne memorizzato il nome. Si fece largo tra le piramidi di lattine di merce prossima alla scadenza e si fermò: qualcuno lo stava fissando. Ma chi cazz.. Si voltò e si trovò faccia a faccia con una vecchia incartapecorita. Ok, non proprio “faccia a faccia”, più ombelico a faccia: la tipa era una vera nanerottola. Altri clienti erano una novità. Genzo sospirò mentalmente, se andava al mattino presto a fare la spesa in un posto indegno dei ratti era proprio per evitarla, la gente. La vecchia stringeva con forza le dita ossute attorno un barattolo di maionese scadente. Cosa potesse spingere un essere umano a uscire in una fredda mattina tedesca per recuperare uno stupido condimento, Genzo non riusciva proprio a figurarselo.
La vecchia continuava a fissarlo. Mister Mikami non aveva cresciuto un completo fallimento umano, con un sospiro Genzo fece un passo indietro e lasciò il proprio turno in coda alla nuova arrivata.
 “Prego”
La signora lo squadrò con sospetto, ma non si fece pregare a prendere il suo posto. Frank si riscosse dal torpore e passò, sbadigliando, sotto la fotocellula, il barattolo di maionese accompagnato da una busta con tre gambi di sedano e una bottiglietta di acqua tonica che chissà come si erano materializzate dalla giacca della vecchia. La donna affastellò le sue quattro cose in una borsa troppo brutta per essere riprodotta in serie e uscì con un grugnito generale in sua direzione. Genzo scrollò le spalle. Prego.
Frank passò la sua spesa senza nemmeno guardarlo in faccia, il portiere sorrise e si sbrigò a ritirare il tutto in una pesante busta di carta. Con un cenno di saluto verso il ragazzo, ormai profondamente addormentato, Genzo uscì. Non fece molta strada.
Non appena le porte scorrevoli si chiusero alle sue spalle gli si parò di fronte una visione insolita. Seduta su una panca stava la vecchia, la bottiglia di acqua tonica ficcata per terra tra la neve del bordo strada. Tra le mani stringeva un gambo di sedano smangiucchiato e spalmato di maionese. Matta. Le rughe della signora si contrassero in una smorfia sofferta, poi ragliò:
 “Da dov’è un po’ che vieni te?”
*
Karl Heniz Schneider dormiva a pancia in giù. Kojiro Hyuga non era mai stato religioso, ma onestamente pregava che il tedesco non si girasse. Vedere uomini nudi nelle docce dopo una partita era un conto, a casa propria decisamente un altro. Ok, non proprio a casa propria, ok quella di Wakabayashi… e Schneider. E ok a casa sua ognuno può fare come cavolo vuole, ma santo cielo, uomo! Hai ospiti. Chiudi la cazzo di porta! ( A chiave perché se no gli ospiti la aprono, accidenti…)
Schneider grugnì, l’incantesimo che aveva cristallizzato l’orologio e incollato le ciabatte di Hyuga al pavimento si spezzò. Kojiro si precipitò fuori.
Poi tornò indietro e richiuse la porta. Ma porcaccia la miseriaccia. Tutte a lui. Il tedesco, spanciato come una frittella sopra le coperte, continuò a russare.
Promemoria, promemoria per Kojiro: continuare a vivere da solo, non cedere e non prendersi un compagno di stanza, MAI. Che magari gli amici di una vita poi si rivelavano essere dei casi clinici mica da ridere. Chissà che Wakashimazu non facesse uso di bigodini o che Takeshi non gli rasasse a zero la testa nottempo. Sospirò. Come se vivesse ancora in Giappone. Ora i suoi compagni si chiamavano Gino, Lorenzo, Salvador… e non avevano alcun interesse per lui, i suoi affari, la sua famiglia. Colleghi, certo, non amici.
I quasi diecimila chilometri che lo separavano da casa si allungarono fino a abbracciare il mondo intero. In un certo senso invidiava Wakabayashi, coinquilino folle a parte, che riusciva a trovarsi nel suo sugo anche in un paese dove la gente ti chiamava solo per nome.
Kojiro sprofondò nel divano, ma il sonno era una chimera. Ormai era sveglio e la realtà era un’incognita da mille tentacoli. Tirò fuori il cellulare e spedì un messaggio dall’altra parte del mondo.
“Ehi, per te Wakabayashi e Schneider scopano?”
*
La giornata di Ken Wakashimazu fino a quel momento poteva riassumersi in un unico modo. Orrida. Da quando, terminato il liceo, aveva accettato il suo posto accanto al padre presso il dojo di famiglia, la sua vita aveva preso la piega giusta. Conciliare le proprie due anime, gli aveva donato una serenità nuova dove i problemi di tutti i giorni erano sempre lì a attenderlo, ma per la prima volta Ken sentiva di avere la capacità per affrontarli. Forse era questo, pensava, ciò che fa di un ragazzo un adulto.
Tuttavia, serenità ritrovata a parte, suo padre gli faceva girare le palle lo stesso.
“Ken… il dojo non si manda avanti da solo”
“Ken… mentre tu dai calci al pallone io invecchio”
“Ken… c’è bisogno di te qui”
“Ken… quando ti deciderai a darmi una discendenza?!”
Ecco a questo punto il miglior portiere del Giappone (sei voluto andare in Germania Wakabayashi? Ecco, restaci) si era strozzato con un pezzo di alga nori e fortunatamente la preoccupazione di sua madre aveva messo un freno alla questione. Per ora.
Perché per suo padre la cosa non era finita lì. Per niente.
Il cellulare vibrò in tasca. Ken ne approfittò per isolarsi. Kojiro… sia ringraziato il cielo per Kojiro Hyuga cha anche dall’altra parte del mondo lo tirava fuori dai guai. Era felice che il capitano fosse in Europa a inseguire i propri sogni, però non poteva negare che gli mancasse. Tremendamente. Lui avrebbe saputo cosa rispondere a suo padre, come appianare le cose. Lo schermo del cellulare brillava. Lui e Kojiro parlavano poco ultimamente, forse quel messaggio era il segno di un’ amicizia più salda, più forte.
“Ehi, per te Wakabayashi e Schneider scopano?”
Oppure no.
*
Poche cose possono descrivere la piacevolezza di quel torpore che ti prende quando fuori fa freddo e tu sei immerso nelle coperte. Kojiro Hyuga era solo un uomo. Finalmente sentiva la sonnolenza allungarsi nelle viscere. Il cellulare vibrò, la sigla dell’Uomo Tigre invase il salotto. E che cazz…
“Pronto?”
“Dove sei?”
Uh? Aspetta, chi è che lo stava chiamando? La voce era famigliare, ma non aveva guardato il nome sul display, aveva premuto il tasto verde e basta.
“Capitano… stavi dormendo?!”
Oh Wakashimazu! Caro buon, vecchio Wakashimazu. Perché diavolo lo stava chiamando alle 6 di mattina.
“Sono a casa di Wakabayashi”
E Schneider. L’immagine del biondo nudo e russante a una camera e un bagno di distanza, scaturì un brivido freddo lungo la schiena dell’attaccante. Ma come si fa? Chiudi almeno a chiave la porta, imbecille.
“Schneider dorme nudo”
Dall’altra linea solo silenzio. Kojiro si sentì in dovere di precisare.
“Completamente!”
Ancora silenzio. Che fosse caduta la linea? Dopo quella che parve un’eternità giunse infine la voce di Wakashimazu.
“Ah”
Kojiro iniziava a sentirsi stupido. Si passò una mano tra i capelli. Che ore erano in Giappone? Mezzogiorno, l’una? Doveva smetterla di mandare messaggi da mezzo addormentato alla gente sveglia. Rischiava di diventare come Tsubasa e i suoi whatsup fessi da ubriaco. Era tempo di dire qualcosa di intelligente.
“Ecco, sai com’è.. avevo bisogno di parlare con qualcuno e non sapevo a chi chiedere… Così sono andato da Wakabayashi e…”
CLUNK
“Wakashimazu?”
Oh era caduta la linea, che strano. Vabbè…
Il rumore metallico della chiave girata nella toppa, lo richiamò al qui e ora.  Qualcuno stava entrando in casa.
*
Ken Wakashimazu dall’altra parte del mondo chiuse la chiamata. Strinse la cintura del kimono. Stortò il naso e uscì a testa alta.  Kojiro Hyuga era un mostro di insensibilità e che andassero a fanculo lui, Wakabayashi e tutta la Germania. Lui se ne chiamava fuori.
*
Genzo chiuse la porta alle sue spalle con un tonfo secco che diffuse attorno l’eco morbida del legno. Scivolò fuori dalle scarpe, scrollò la maglia della tuta appesantita dall’umidità del mattino e si lasciò avvolgere dal calore del sistema di riscaldamento. Aveva bisogno di un caffè. Ma prima era il caso di fare una doccia. Trovò Hyuga a pochi passi dall’ingresso, manco fosse il suo nuovo personale cane da guardia. La tigre aveva stampata in faccia un’espressione singolare, una sorta di apprensione stordita.
“Non è che sei entrato in camera di Schneider, vero?”
Hyuga si irrigidì visibilmente, poi scrollò la testa. Sì, era entrato in camera di Schneider.
“Ho preso i Vanillekipferl. Accendi il bollitore che lo vado a svegliare”
Genzo recuperò i beni deperibili dalle buste della spesa e abbandonò il resto nel corridoio. Ci avrebbe pensato dopo. Seguì Hyuga in cucina e depositò il latte, le uova e i pomodori nel frigorifero.
I dolci presi per impulso erano ancora tiepidi e diffondevano nell’aria profumo di vaniglia. Più tardi li avrebbe scaldati nel microonde. Dopo un grugnito in direzione generale di Kojiro, uscì dalla cucina e andò a svegliare il coinquilino. Perché, accidenti, Scheneider! Avevano dei progetti per quella stramaledetta giornata!
*
Karl Heinz Schneidr sognava. Nel sogno era un budino e i budini non si devono preoccupare di stiramenti muscolari, sorelle adolescenti o cotte per i propri coinquilini. Sono budini. E basta.
Uh… era un budino alla vaniglia. Anzi no, un cornetto. Un cornetto alla vaniglia. Karl diede un morso, il suo braccio aveva il gusto della pasta frolla. E quelle che cos’erano… uh nocciole. Sì, sua madre ci metteva sempre le nocciole quando li cucinava. Maria stava chiusa in una di quelle gabbie di legno dove si mettono i bambini piccoli e lui sedeva sulla sedia, perché ormai era grande. La mamma ci metteva tutto l’uovo e cantava canzoni che Karl non riusciva proprio a ricordare al momento. Ma erano lì, sulla punta della sua lingua… Doveva solo fermarsi a riflettere.
“Lili Marleen”
“Bentornato tra i vivi”
Oh. Era Wakabayashi. Ciao Wakabayashi, che ne dici di toglierti la maglietta e sdraiarti qui con me, eh.
“Che ore sono?”
Non era più un budino o un cornetto alla vaniglia e sicuramente non era a casa di sua madre a sentire cantare di ragazze sotto i lampioni e infanzie perdute e amori che finiscono nel nulla per uno stupido punto d’orgoglio… che poi era colpa di Kaltz e lui non c’entrava nulla, ma vai a spiegarlo a tutti e due ‘sti storditi e Wakabayashi poteva anche accorgersi dei suoi sentimenti e smetterla di fare il pirla, ahem. Portò le mani agli occhi, ripulendoli da quella pasta appiccicosa che al risveglio si ostina a incollare una palpebra all’altra.
“Le sei. C’è la colazione di là”
Karl voleva sprofondare nel suo cuscino.
Genzo gli diede una botta sul naso.
“Lo so che è presto, ma abbiamo ospiti. E dobbiamo ancora recuperare i regali per la tua famiglia”
*
E per Kaltz. Ma questo il portiere si limitò a pensarlo. Non era il caso di ricordare il nome dell’amico così presto al mattino: da quanto ne sapeva, lui e Karl non si parlavano da più di nove mesi.
Il biondo bofonchiò qualche cose di inintelligibile, immergendosi nelle coperte. Era tutta una scena, ormai era sveglio. Ma a Schneider servivano sempre una decina di minuti per carburare il fatto di essersi alzato. Tempo del tutto sufficiente a Genzo per infilarsi sotto la doccia e fregargli tutta l’acqua calda. Ah ah.
“Ah e mettiti addosso qualche cosa, credo ci sia una tigre traumatizzata di là in cucina”
Schneider boffonchiò qualcosa di indistinto, chiaramente ancora più al di là che di qua. Genzo sentì qualcosa di caldo scivolargli nel petto e poi risalire fino a piegare le sue labbra in un sorriso. Allungò una mano e arruffò i capelli del biondo. Schneider grugnì qualcos’altro e il sorriso del portiere si stortò in un ghigno. Accidenti a lui.
“Vado a farmi una doccia”
E tu te la becchi fredda. Tiè.  Schneider ributtò la testa nel cuscino, ma ormai era sveglio. Genzo uscì dalla stanza e per buona misura spense il condizionatore (puntato da tutta la notte sui 30 gradi) e spalancò la finestra. Ora era solo questione di tempo.
Wakabayashi si diresse fischiettando verso la porta del bagno. Che strano, non ricordava di averla lasciata chiusa. La aprì e…. SANTISSIMA MADRE DEL CIELO!


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Brevissima nota dell’autrice

Causa nuovo lavoro (da aggiungersi agli altri due) e università, il mio tempo per scrivere si è drasticamente ridotto, quindi un capitolo al mese sarà ora in avanti il mio standard. Un saluto e un abbraccio a chi ha letto fino a qui.

 
  
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