III – Il Ritorno della Regina
Dopo
la partenza del re, un nuovo sovrano si insediò nella
città: il
profondo silenzio dell’Attesa si prese il palazzo e le case,
i
campi e i fiumi, sorgendo dal suolo arroventato dal mezzogiorno o
cavalcando il vento della prima sera insieme alle nubi che
scivolavano lente e morbide sopra i tetti, verso il mare.
In
alcune di quelle notti prive di luce, mi ritrovai a pregare gli
Dèi
per il ritorno del re, perché solamente Agamennone avrebbe
potuto
dissolvere un futuro angoscioso e incerto.
Elettra
liberò tutte le lacrime che i suoi piccoli occhi potevano
spremere,
ma dopo qualche giorno si calmò, e ricominciò a
dormire, seppur di
un sonno inquieto; Ifigenia era ansiosa quanto la sorella di rivedere
il padre, ma non rinunciava ai suoi lavori, mentre Crisotemi e Oreste
erano troppo piccoli per provare nostalgia.
Io
vegliavo tutti loro fino a quando il sonno non mi coglieva,
perché
la lontananza
del nostro signore non spingesse qualcuno a tentare di far loro del
male: quando il leone allenta la sorveglianza, i suoi nemici non
aspettano altro che chiudere gli artigli sui suoi cuccioli; ma, anche
se pochi lo sanno e ancor meno lo raccontano, la leonessa è
forte
quanto il suo compagno, intimorita da nulla.
Solamente
una cosa mi distoglieva dalla cura della mia famiglia: il richiamo
della Natura che cresceva libera tutto intorno a me, davanti ai miei
occhi. Fin da piccola mi scoprii legata al pacato divenire del
bocciolo in splendido fiore, alla costellazioni di gemme e foglie che
rendevano la primavera un sospiro di bellezza, alle distese di grano
impreziosite dalle chiome dei papaveri; dalle mie stanze potevo
guardare come il vento le faceva giocare, trasformandole in onde
fruscianti, e spesso mio padre mi permetteva di allontanarmi per un
poco dal palazzo e infilarmici dentro, lasciando che il cielo si
riducesse a una pozza di stelle intrappolata in un mare dorato.
Pisa
e Micene avevano allontanato quei momenti con il peso del dovere, ma
a volte il bisogno di abbandonare gli abiti regali e ritornare quella
bambina spensierata batteva forte in me, era parte del mio stesso
cuore. L’assenza
del re lo acuiva istante dopo istante, ma la realizzazione di questo
desiderio era proibita: avevo scoperto, infatti, che prima della
partenza Agamennone aveva incaricato il nostro aedo, il cui sguardo
vacuo vedeva e comprendeva
più di quanto si immaginasse, di sorvegliarmi e vigilare
sulla mia
integrità.
Ciò
non mi preoccupava in alcun modo, siccome non avevo nessuna
intenzione di cercare altri uomini, ma la mia scomparsa, anche se per
qualche ora, avrebbe potuto destare sospetti e portato a pericolose
conseguenze.
Cercai
quindi di calmare la mia smania in lunghe passeggiate notturne nei
giardini, rivolgendo canti e preghiere alla mia Dea argentea od
osservandola nel silenzio che è proprio dei fedeli.
Un
inaspettato aiuto giunse tuttavia dalle mie figlie, in un caldo
pomeriggio dove ogni cosa era immobile.
“Madre...
vorrei vedere il cielo stellato.”
La
voce d’usignolo
di Elettra fece tintinnare l’aria, spezzando la monotonia del
silenzio.
Interruppi
per un istante il mio lavoro al telaio, quindi mi voltai a guardarla.
Anche Ifigenia e Crisotemi si erano bloccate e mi guardavano con
interesse e attesa, facendomi capire che tutte e tre mi stavano
porgendo la medesima richiesta. “Che cosa intendi?”
Elettra
chinò il capo, arrossendo lievemente. “Io e le mie
sorelle...
vorremmo uscire dal palazzo di notte... e guardare le stelle.
Non
dalla finestra o dal giardino, ma all’aperto,
nelle campagne, senza mura a circondarci.”
Sorrisi
dolcemente, quindi sospirai. “Dobbiamo restare nel palazzo.
Siamo
membri della famiglia reale... e vostro padre non è qui per
proteggervi. Se vi accadesse qualcosa?”
“Madre...”,
intervenne allora Crisotemi, “... non andremmo da sole.
Vorremmo
che tu venissi con noi.”
Spalancai
gli occhi, sorpresa. “Figlie mie...”
“Madre,
ti supplico!”
“Solo
per una notte!”
“Non
fuggiremo dal tuo fianco... ma portaci a vedere le stelle, per
favore! Per favore!”
“E
la Luna! Gli alberi del giardino la coprono sempre, e io vorrei
vederla bene...”
“Ti
prego!”
I
loro occhi accesi di supplica e speranza, le loro tre voci che si
accalcavano e confondevano fecero morire le parole che già
avevo in
gola; per riportare ordine dovetti lanciare loro uno sguardo severo,
e quando si calmarono mi decisi a parlare. “Dovremmo essere
scortate, e le guardie sono indispensabili qui, al palazzo.
Tuttavia”, e qui cedetti, forse troppo presto per risultare
irritata dalla loro richiesta, “per qualche ora – e
solamente per
questa volta – potrebbe essere fattibile. Ma che poi non se
ne
riparli più.”
Lo
sguardo complice che le tre sorelle si scambiarono mi fece corrugare
la fronte, ma credevo anche che realizzare un desiderio come quello
non avrebbe portato ad alcun male. “Riprendete il vostro
lavoro,
così prima finirete e prima andremo”, terminai
quindi, realizzando
che anche per me quella breve fuga avrebbe recato giovamento. Era
passato quasi un mese da quando gli uomini erano partiti, e i giorni
trascorrevano tutti uguali, tranquilli e lenti, logorando le nostre
forze: avevamo diritto a un istante di libertà, solo per
noi,
lontano dalla quotidianità e dalle regole.
Per
questo quella sera, quando lasciammo il palazzo seguite da un paio di
guardie, inspirammo con forza l’aria
fresca come se mai avessimo respirato. “Perché
sono così
distanti?”, chiese Crisotemi più volte mentre le
campagne si
aprivano davanti a noi, gli occhi rivolti alla volta traboccante di
stelle e le mani tese in un vano tentativo di prenderle.
La
presi in braccio, la alzai sopra la mia testa. “Anche se non
puoi
afferrarle, ora sono comunque più vicine”, le
sussurrai con
dolcezza, mentre Ifigenia saltellava al mio fianco ed Elettra si
sfogava correndo e gridando, facendomi ricordare quando ero io la
bambina ribelle, spensierata e forte come lei.
Scegliemmo
un piccolo campo traboccante di fiori per osservare la notte volare e
lì rimanemmo strette l’una
all’altra,
chiedendoci se i Beati ci stessero osservando attraverso gli astri.
Tuttavia,
Ifigenia non fissava loro: la sua attenzione era sulla pallida
mezzaluna, e per questo mi chinai verso di lei. “Qualunque
forma
assuma, la Dea è sempre bellissima, non credi?”
Lei
sorrise lievemente. “Come fa a non precipitare al suolo?
Sembra più
pesante del Sole... più concreta.” I suoi occhi
rifulsero. “La
sua luce non ferisce come quella del mezzogiorno, ma rischiara con
discrezione, guidando e aiutando chi è in procinto di
perdersi nelle
tenebre. Sembra... sembra la mano di una madre.”
“Sono
parole bellissime”, mormorai colpita, quindi lei si
voltò, mi
abbracciò appoggiando la testa contro il mio ventre.
“Il Sole
regna con orgoglio, è potente e ci protegge dal freddo e dal
buio;
ma è lo sguardo della regina argentea a consolarci quando
siamo
soli.
Atta
è come il Sole... ma tu sei come la Luna; mai nessuno ci
amerà di
più.”
E
ciò vide la luce all’avvento dell’alba.
Ricordo
che fu al tramonto seguente che lo vidi per la prima volta: occhi
scuri ma dalla sfumatura purpurea, che mostravano come uno specchio
il troppo sangue che avevano visto spargere, e quello che intendevano
versare per riportare la Giustizia.
Era
bianca la sua pelle, neri come le tenebre – quanto
è sempre stato
simile a me... – i suoi capelli: gli Dèi
sembravano averci creato
insieme, e poi diviso per tutti quegli anni.
E
il suo passo non era indeciso quando avanzò nel
mégaron, il fuoco
era silenzioso al suo procedere, quasi lo conoscesse già
– ed era
così [1] – o attendesse di comprendere cosa
sarebbe accaduto.
Ricordo
bene come i suoi occhi mi penetrarono, senza vergogna o esitazione,
fino ad aprirmi il petto e il cuore. Quanta avventatezza, quanta
rabbia nel modo in cui mi sorrise: era solo un ragazzino, ma la sua
bocca ringhiava il rancore di un’anima vecchia.
E
quando chiesi il suo nome, e lui rispose: “Grande wanaxa, il
mio
nome è Egisto”, desiderai non aver mai udito una
voce così
profonda e nera, la Morte che rideva e gridava insieme.
Ed
era già la cupa notte: il giorno dopo il giovane
partì, e altri tre ne sarebbero passati prima il mio Fato giungesse a Micene.
Lui
fu il primo a vederlo, a sapere; e a mettermi in guardia, con il suo
inquietante silenzio, su ciò che più di tutto
dovevo temere.
“È
il grande Agamennone a mandarmi: richiede la vostra presenza e quella
della giovane Ifigenia in Aulide, e vi prega di partire il prima
possibile.”
Il
messaggero era stanco, ricoperto di polvere e intimorito da me: lessi
nei suoi occhi che non c’era
menzogna nelle parole che mi aveva riferito, che era veramente volere
del mio signore che lo raggiungessi; quindi presi un grande respiro.
“Per quale motivo?”
L’uomo
chinò lo sguardo, incapace di sostenere il mio.
“Mia regina... il
principe dei Mirmidoni desidera prendere la fanciulla in
moglie.”
Rimasi
immobile per qualche attimo: “Il figlio di Peleo...
Achille”,
mormorai quindi, chiudendo gli occhi.
Il
momento che da tempo avevo iniziato a temere era infine giunto: la
prima sarebbe stata Ifigenia, e dopo
di lei sia Elettra che Crisotemi avrebbero lasciato il palazzo per
diventare signore e madri al fianco di uomini che, forse, non le
avrebbero mai amate.
Ma
non volevo, né dovevo pensare al peggio: le mie figlie erano
forti,
io le avevo preparate ad affrontare la loro Sorte, qualunque forma
essa avesse assunto, ed ero certa che l’affetto del loro
padre le
avrebbe protette dal dolore; quindi, congedai il messaggero e,
lasciando in fondo all’animo la mia tristezza, disposi subito
i
preparativi per la partenza.
Ifigenia
ascoltò la notizia sorridendo nel suo particolare modo, gli
occhi
che brillavano di stupore, e così le sue sorelle, che
passarono
l’intera
notte a fantasticare di come sarebbe stato il matrimonio e della
bellezza di Achille, che si diceva immensa quanto il suo valore, e
quanto avrebbero voluto venire con noi per vederlo.
Io
sorridevo ascoltando quei sogni di dolcezza levarsi fino al cielo,
sperando che almeno a loro gli Dèi avessero concesso di
realizzarsi;
e negli occhi di Ifigenia lessi la mia stessa virginale attesa, il
ricordo di una vita diversa.
Poi,
poche ore dopo l’alba
partimmo: le parole di Agamennone erano state chiare, non potevamo
indugiare. L’esercito
doveva partire per Troia il prima possibile, e sicuramente il
principe voleva un erede dall’illustre
casa di Atreo, permettendo al sangue più prezioso di Acaia
di
vincere la morte: ecco perché un matrimonio così
tempestivo, con
l’ombra
del futuro più incerto incombente sulle sorti di ognuno.
“Sarai
una saggia regina, e una madre dolcissima”, sussurrai
più volte a
Ifigenia, acconciandole i capelli e controllando ogni istante che il
suo aspetto fosse perfetto; ma poi la strinsi solamente a me, senza
più parlare. Nonostante
desiderassi che il carro non andasse così veloce, la
distanza che ci
separava dall’Aulide
svaniva un po’ di più a ogni istante, e ben presto
il sentore del
sale ci solleticò le narici; e quando divenne troppo forte,
sentii
Ifigenia tremare tra le mie braccia. “Madre...
per favore, potete restare con me? Almeno per i primi mesi... vi
prego.”
“Lo
sai che non mi è permesso. Ma tu non devi avere paura...
Peleo è un
brav’uomo
e tu sei una giovane piena di grazia e virtuosa, sarai come una
figlia per lui e lui come un padre per te.”
Lei
annuì, quindi alzò gli occhi ambrati su di me.
“La famiglia di
Tantalo ti ha accolto così, come una figlia?”
Io
feci per rispondere, ma tacqui. Tantalo.
“Chi
ti ha parlato di lui?”, mormorai. Che cosa sapeva? Da chi lo
aveva
scoperto?
“Una
volta... una volta ho sentito le nostre ancelle parlare di te.
Si
chiedevano se il re Tantalo ti avesse dato la felicità che atta
non è mai riuscito a donarti.”
Rimasi
un attimo in silenzio. Non avevo mai parlato alle mie figlie del re
di Pisa né della sua fine, non volendo che fossero a
conoscenza di
ciò che avevo provato; ma le voci circolavano, non potevo
controllarle, e allora mi chiesi quanta verità avessero
udito le
orecchie di Ifigenia.
“Madre...”
“Quella
era un’altra
donna. Ed era un’altra
realtà.”
“Allora
è vero? Atta
non è stato il tuo primo marito?”
Chiusi
gli occhi, per poi afferrarle una mano e stringerla con forza.
“Amore
mio... ti prego, non chiedermelo più.”
Ifigenia
sgranò gli occhi, sorpresa, quindi chinò il capo
per pochi istanti.
“Avevano ragione, allora. Ti amava molto.”
Ancor
prima di lasciarmi parlare, si gettò sul mio ventre,
abbracciandomi.
“Mi dispiace, mi dispiace così tanto che tu abbia
dovuto
soffrire!”
“Ifigenia,
la tua veste si rovinerà...”
“Non
me ne importa niente della veste! Se solo immagino... se solo
immagino cos’hai
dovuto sopportare...”
La
presi per le spalle, la scossi costringendola a guardarmi.
“Ifigenia”, dissi con durezza,
“ciò che ho sopportato non deve
ferire anche te; perché tu sarai felice, lo so che lo
sarai.
Questo sarà il giorno più bello della tua vita, e
niente deve
rovinarlo.”
“Io
devo sapere”, continuò Ifigenia, e lo sguardo si
incupì. Quale
tempesta la stava sconvolgendo, e da quanto: giorni, o anni?
“No,
non devi... non c’è
bisogno. Grazie
a te, alle tue sorelle, a Oreste è tutto finito da molto
tempo, e
ricordarlo non farà bene a nessuna delle due, ma
farà molto più
male a te: un dolore che non ha alcuna utilità e nessun
onore.
Ti
prego, bambina mia... non parliamone più. Ti
prego.”
Ifigenia
mi guardò un’ultima
volta, quindi girò il viso lontano da me, ferita;
tornò a fissarmi
solamente quando il carro si fermò e dopo qualche attimo una
voce
che entrambe conoscevamo bene ci salutò: “Mia
regina, figliola...
benvenute.”
Ed
è sempre a questo punto che le mie mani tremano, che i miei
occhi
piangono ancor prima che il ricordo raggiunga il cuore.
La
mia memoria non è così coraggiosa, non lo
è mai stata e non lo
sarà mai quando si tratta di affrontare questo frammento del
mio
passato: tace per proteggermi... o forse, per proteggere gli altri.
Ma
chi deve più proteggere?
Chi
deve salvare?
Chi
deve allarmare?
Sono
morta io, così come lo saranno loro.
Sono
pazza io, così come devono esserlo loro.
Sono
spietata io... così come lo furono loro; e per questo che
stavolta
non indugerò... non cederò alla tentazione di far
fuggire i
ricordi, non questa volta.
Non
questa notte.
Quella
spiaggia è ancora risuonante del boato di tutti quegli
uomini
radunati, arsa da un Sole che il vento non poteva placare?
Il
vento, ecco il problema. Il vento che non c’era.
Il
vento che non spirava sul mare e quindi frenava le navi, il vento che
la Cacciatrice tratteneva, per ira e vendetta. [2]
Quando
Agamennone me lo rivelò, io lo guardai confusa; e
istintivamente
strinsi la mano di Ifigenia, così come cercai lo sguardo del
re, per
leggervi la verità.
<<
Clitemnestra, sii forte >> mi mormorò una
voce, forse dentro
me – era la voce di Tantalo, era il sussurro della Luna –, forse proveniente
dalla
terra stessa; ma le braccia di Agamennone mi strinsero con forza,
impedendomi di comprenderla.
“Mio
re...”, mormorai, quindi un’ombra
calò su di me, quando le mani dell’Atride
mi coprirono gli occhi; e il freddo mi invase le membra, mentre il
grido di mia figlia macchiava l’aria
e le grida degli uomini si placavano, tutte insieme, quasi ognuno
avesse smarrito la voce o uno dei Beati fosse apparso.
“Che
succede?”, gridai, cercando di divincolarmi; lacrime cocenti
mi
bagnarono i capelli e mi scottarono le pelle, e mi accorsi che il re
stava piangendo copiosamente; sembrava che i suoi occhi si stessero
tramutando in un’infinita
pioggia.
“Non
volevo tutto questo...”, lo sentii mormorare, e io urlai di
nuovo:
“Che cosa vuol dire questo, Agamennone?
Rispondimi!”, ripresi,
riuscendo infine a liberarmi dalla sua presa; e ai miei occhi
attoniti comparve, nel mezzo della spiaggia, un altare bianco,
allestito per un sacrificio.
Ma
dov’erano
i sacerdoti?
E
dov’erano
gli animali sacrificali?
E
perché Ifigenia vi veniva trasportata a forza, contro la sua
volontà... perché urlava?
E
il suo sposo... dov’era
Achille?
Non
riuscivo a capire...
… capivo,
ma non riuscivo, non volevo credere.
“No...”,
mormorai allora, girandomi verso Agamennone e prendendogli le mani,
“... dimmi che cosa vogliono dalla nostra bambina. Dimmi...
sono
qui, parlami...”
Perfino
le mie parole si rifiutavano di prendere forma.
“Clitemnestra...”
Afferrai
il volto del re, guardandolo con intensità. Oltre il velo
del
pianto, vidi la colpa e la vergogna, la disperazione.
“Perdonami”,
mi sussurrò, prima di lasciarmi cadere nella sabbia e
alzarsi,
allontanarsi da me.
“Agamennone...
non te ne andare!”, implorai, trascinandomi dietro di lui,
accecata
dalla luce e dal calore, “aspetta...”
“Mama!”,
urlò Ifigenia, e anche se non riuscii a vederla seppi che
stava per
fuggire, rifugiarsi da me.
Non
le vidi, ma seppi che le braccia di suo padre la fermarono, ci
separarono. Lui, suo padre, la divise da me; lui… che aveva
promesso di tenere il male lontano da noi.
“Agamennone!”,
urlai allora con tutto il fiato che avevo, la consapevolezza che
sbocciava ferendo come una lama, “hai promesso! Hai promesso
di
proteggerla!”
“Atta!
Atta,
ti prego!”
“Ascoltala,
Agamennone!”
Era
un unico grido, un’unica preghiera.
“Mama...
aiutami!”
“Agamennone...”
“Mama...
atta...”
“Hai
promesso!”
<<
Non voglio morire. >> Le
sue ultime parole. Non voglio morire.
Il
ruggito del vento si alzò all’improvviso,
portandomele.
“Non
voglio morire... ancora”, mormorai anch’io,
prima di alzare il capo e guardare. Non importa che il desiderio di
cavarmi gli occhi con le mie stesse mani divenne così feroce
da
dovermi mordere le dita per reprimerlo; non importa che non scorsi
altro che sangue, un rigagnolo che diveniva ruscello e fiume e onda e
mare: per la seconda volta gli Inferi mi accolsero, e allora corsi.
Corsi
via da quel luogo, corsi dovunque i miei piedi mi portarono, fino a
quando le forze mi sostennero. Via da lì, via da me stessa,
via
dalla realtà e dai suoi inganni, via da quella vita che non
poteva
appartenermi, non poteva essere vera: troppo crudele, troppo spietata
per essere mia.
<<
Mai nessuno ci amerà di più >>,
mormorava la voce.
E
al suono di un canto malinconico, una nenia funebre per me e per la
mia povera bambina, morii ancora: le ali che mi avevano sorretto si
spezzarono, mi fecero ricadere nel baratro da cui molto tempo prima
ero riuscita a emergere. Fui libera di andare in frantumi, come una
volta avevo desiderato; libera di non essere, di smettere di cercare
una cura... libera di essere completamente tenebra, senza limiti
né
freni, senza rimorsi.
In
un solo istante, gli artigli di Thanatos [3] si strinsero intorno al
mio cuore, tramutandolo in acciaio.
Un
cuore duro, freddo... un
cuore d’uomo.
[4]
Il
dolore era così profondo che faticavo a sentirlo.
La
strada era una disegno di vento e polvere, feriva la gola e gli occhi
ma senza impedirmi di avanzare.
La
sua voce fu la prima che mi raggiunse quando i miei piedi stanchi e
gonfi varcarono la soglia del palazzo; le sue mani mi afferrarono per
adagiarmi al suolo, per permettermi di respirare ed espellere
l’orrore.
Un
respiro, e l’inganno prendeva forma; un rantolo, e si svelava
la
bramosia, la crudeltà, l’immoralità.
Una
lacrima, un’altra morte.
I
suoi occhi purpurei non mi lasciarono neppure un istante; e io li
guardavo, vedendo in loro un rifugio... e un aiuto.
“Chi
sei?”, gli chiesi, seppur
già conoscessi la risposta; ma sapevo
che vi era altro, che la sua era una voce e un sospiro degli
Dèi.
Lui,
il ragazzino pallido, Egisto, tacque per un istante; poi mi prese
forte una mano. “Vendetta”, sussurrò
piano.
♦
“Wanaxa,
il segnale!
Il
re è oramai vicino!”
Dieci
anni.
Sono
dieci anni che ti attendo, Agamennone, che il mio pensiero ti
raggiunge e abbraccia ogni giorno, e desidero rivedere il tuo volto.
Non
sono una moglie fedele? Attento a ciò che risponderai, le
parole
feriscono e uccidono come una lama.
Ti
stupirà scoprire quanto siano simili.
“Clitemnestra...”
Dieci
anni.
Sono
dieci anni che mi chiamano regina: prima non lo ero, chiedi?
No,
perché come la Luna regna nel cielo solo fino a quando non
nasce il
Sole, è stata la tua lontananza ad avermi permesso di
sorgere e
guidare questa terra e la mia stessa vita.
E
ad una lunga notte, difficilmente seguirà un luminoso
giorno.
“Atta metterà fine a tutto questo, finalmente.”
Il
mondo, Agamennone?
È
cambiato. È mutato nei sentimenti, nelle stagioni, nelle
regole.
Non
è lecito, non è consentito, gridi.
E
sei proprio tu a urlarlo... tu che per primo hai confuso e distrutto
la realtà, la legge, la pietà.
Dimmi:
in cosa sei diverso da me?
“Figlia della Dea, sei pronta?”
Alzo
lo sguardo, sorpresa; ma non è più la voce del
messaggero, di
Egisto o Elettra a chiamarmi, ad accarezzarmi, a biasimarmi...
è la
mia, ed è l’unica che riesce a strapparmi dai
pensieri.
Per quanto sono rimasta loro prigioniera?
Ed
è già giunto il momento, dunque? Eppure solamente
un’ora fa era
ancora una debole luce... una promessa, un’attesa.
“Gioite! Il wanax è qui!”
Hai
vinto, dunque: la tua potenza ha piegato Ilio superba.
E
dimmi: quante ragazze hai ucciso, laggiù?
Nostra
figlia muore ogni giorno nella tua bramosia di
dominio.
“È tutto pronto.”
Annuisco,
e con calma mi volto verso l’ancella
timorosa.
“Il
wanax
non è ancora troppo vicino, vero?”
“No,
mia signora... mancano ancora pochi istanti.”
“Benissimo.
Fai portare immediatamente un tappeto rosso [5] davanti alla porta,
perché lo calpesti da vincitore; e poi attendimi.”
Gli
ultimi istanti devono essere solo per me. Li chiamo ultimi,
perché
la realtà sta per cambiare nuovamente: ma questa volta il
volto che
mostrerà mi sarà sorridente e
benigno.
La
colpa di tutto quello che accadrà? È solamente
tua, mio sposo.
Se
solo tu avessi compreso la mia essenza, se solo tu avessi rispettato
le leggi che governano gli uomini non sarei giunta a tanto.
Mi
hai umiliato e messo in ginocchio, ma non sconfitto: dovevi
piegarmi, schiacciarmi per vincere. Non lo sapevi, vero?
Ma
ora questo non ha alcuna importanza; è solamente Passato.
È
un regno ricco [6] quello che ti attende, ma non è questo;
è una
primavera rigogliosa quella in procinto di nascere, ma tu non la
vedrai né sentirai, la potrai solamente piangere.
È
finita, Agamennone: una nuova età sta per nascere con me, e
finalmente la Madre ritornerà, indomabile e
pietosa, per
cancellare i soprusi e punire i colpevoli.
E
sorrido, mentre penso a questo e lascio il palazzo, ponendomi sulla
soglia e aprendo le braccia come per stringerti al mio cuore...
e
sorrido, mentre ti invito a entrare e a godere dei tuoi beni, del mio
amore e di ciò che Ilio ti ha fatto mancare...
e
sorrido mentre ti guardo avanzare nel mégaron,
la sala del
potere, con la tua superbia, senza che tu ti accorga che,
appesa
alla parete alle tue spalle, la scure dallo sguardo di rame
già
tramuta i miei desideri in realtà.
NOTE
[1] Secondo una versione del mito, Egisto era figlio di Tieste, quindi nipote di Atreo e cugino di Agamennone: alla luce delle crudeltà che i fratelli si perpetrarono l’un l’altro, la sua partecipazione all’assassinio del re si caricherebbe così anche dell’aspetto vendicativo che contraddistingue la storia di questa famiglia. In questo senso le fiamme lo riconoscono: tutto il sangue che hanno visto scorrere sta nuovamente per sporcare il palazzo, per opera di un animo nero quanto quello di coloro che l’hanno preceduto.
[2]
Tutto ebbe origine per uno sgarbo di Agamennone: durante una battuta
di caccia, colpendo una cerva da una grande distanza,
dichiarò di
essere migliore della dea Artemide (la
“Cacciatrice”). Questa ne
fu offesa, e trattenendo il vento impedì per giorni alla
flotta
achea di partire per Troia.
Interpellato,
l’indovino Calcante rivelò che l’unico
modo per calmare la furia
divina
era sacrificare Ifigenia. Nonostante un primo rifiuto, alla minaccia
dell’esercito di ribellarsi e scegliere un altro capo, il re
fu
costretto ad accettare: quindi mandò dei messaggeri a
Micene,
chiedendo a Clitemnestra di raggiungerlo con Ifigenia, ingannandole
con la notizia di un matrimonio.
Nonostante
alcune versioni del mito riportino non la morte della ragazza, ma il
suo rapimento da parte della Dea e la sostituzione con una cerva
–
versione che però Eschilo non inserisce nella sua tragedia,
dove
Ifigenia viene appunto sacrificata –, non cambiano le
ripercussioni
che questo gesto avrà sulla sorte di Agamennone.
[3] Il dio della Morte.
[4] Così Eschilo definisce Clitemnestra. Tramite il dolore e la ricerca della vendetta, lei scavalcherà tutte le imposizioni e le regole del genere femminile: prenderà il potere e sarà lei a governare, assumendo tutte le prerogative del re, mentre Egisto lo farà solo formalmente.
[5] Scena famosa nell’Agamennone di Eschilo: prelude al massacro – assomiglia a un torrente di sangue – che la donna compirà sul marito e su Cassandra, la principessa indovina, che Agamennone aveva ricevuto come bottino dopo il saccheggio di Troia. Pur essendo innocente, la regina non risparmierà nemmeno lei.
[6] La ricchezza degli Inferi sta nella moltitudine di anime che lì dimorano; e il dio Ade è chiamato “ricco” per l’identico motivo.
ANGOLO AUTRICE
Ben ritrovati a tutti.
Come
al solito, quando concludo una storia non so mai cosa dire: se non
un
doveroso,
enorme grazie che rivolgo
alle mie due fanciulle Flos
Ignis
e Ori_Hime,
e
alla mia dolcissima Leaina:
molte
di queste parole sono state ispirate da voi, quindi senza la vostra
presenza sarei ancora lontana dal concludere questo piccolo ma
sentito viaggio nel cuore della Regina.
Spero
che canterete ancora per me, mie Muse!
Grazie
anche a tutti coloro che hanno recensito o semplicemente letto questa
storia: avete condiviso con me molto più di quanto
possiate
pensare, e ve ne sono grata.
Va
bene, ormai abbiamo capito che sono negata nello scrivere note finali
decenti, quindi vi lascio prima di peggiorare ancora di più
le cose
-.-
Alla
prossima!
Manto