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Autore: Ayr    15/05/2017    6 recensioni
Mi hanno accusato di tradimento, ma sono solo una vittima innocente degli eventi, incastrata da qualcuno più furbo e spietato di me, che non ha avuto rimorsi nel coinvolgermi in tutto questo e nel far ricadere la colpa sul mio capo, su cui, ora, pende la lapidaria sentenza: verrò destituito dal mio incarico e cacciato da quella che fino a quel momento era stata la mia casa.
Verrò umiliato, un’ultima volta, la più terribile: mi verrà strappato tutto ciò che fino ad ora ho posseduto ed il mio unico compagno di una vita verrà distrutto. Una parte di me morirà inevitabilmente con lui, quando il Sigillo verrà spezzato e rimarrò spezzato anche io.
Non voglio essere ricordato in questo modo, non se ho anche la più remota possibilità di raccontare come siano veramente andate le cose, e di dimostrare la mia innocenza.
Narrerò la mia storia e lascerò che siano i posteri a giudicarla, nella speranza che qualcuno riesca a vedere come io sia stato solo una vittima ingenua di un enorme inganno ben architettato.
[La storia partecipa al contest indetto da E.Comper sul forum di EFP: ‘The Dragon’s Riders Contest!’]
[Steampunk fantasy (o almeno ci provo)]
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I


«Ehi rossa, ti andrebbe di passare una notte di fuoco indimenticabile?»
Arandil si voltò, e l'uomo che gli aveva rivolto la parola per poco non si soffocò con la birra, che gli era andata di traverso.
«Ma tu non sei una femmina…» esalò in un grido strozzato, «Poco importa, una bottarella la darei pure a te.»
Arandil squadrò da capo a piedi l'uomo, le sopracciglia sottili a formare due archi di incredulità: aveva tratti del volto grossolani e insipidi, una zazzera di capelli castani e spenti occhi azzurri, resi liquidi e vagamente allucinati dall'alcol. Era ubriaco fradicio e faticava a reggersi in piedi. Arandil non si sorprese di essere stato scambiato per una ragazza -gli capitava molte più volte di quante volesse ammetterne- né, tantomeno, che l'uomo fosse disposto ad andare a letto con lui anche dopo aver scoperto che fosse un maschio; probabilmente non sarebbe stato in grado di distinguere una mucca da un cavallo e avrebbe fatto le stesse proposte indecenti a entrambi.
«Ti ringrazio, ma per stasera passo» gli rispose gentilmente e l'uomo scrollò le spalle per poi allontanarsi barcollando, «Sarà per un'altra volta, ma se dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi» aggiunse da sopra la spalla, facendogli l'occhiolino. Arandil, per tutta risposta, alzò gli occhi al cielo, esasperato: perché attirava sempre e solo lui tutti i casi umani, gli psicopatici e i maniaci?
«Ne vuoi un altro?» gli chiese il barista indicando con un cenno il suo bicchiere vuoto, Arandil si concesse qualche secondo per rifletterci: avrebbe potuto berne altri tredici di quegli intrugli amari e annacquati ma non sarebbero serviti a fargli dimenticare la sua umiliazione, né ad affogare la sua disperazione e la sua frustrazione, ancora dolorosamente presenti e brucianti.
«No, grazie. Questo era l'ultimo» rispose alla fine, lasciando cadere sul bancone scheggiato un paio di dracme.
Si alzò e un capogiro lo colse, destabilizzandolo per un momento: non credeva di aver bevuto così tanto, ma doveva aver perso il conto dopo il sesto o settimo bicchiere; gli elfi, di solito, avevano una maggiore resistenza all'alcol e ci voleva ben altro per ubriacarli, ma quell'intruglio doveva essere stato più forte di quanto non sembrasse a prima vista.
Arandil aspettò che le pareti della taverna smettessero di danzargli in tondo davanti agli occhi e si staccò dal bancone, su cui si era appoggiato per non cadere.
«Ehi! Tutto bene?» gli domandò il taverniere con voce atona e senza un reale interesse, probabilmente temeva che da un momento all'altro l’elfo avrebbe riversato il contenuto del suo stomaco sul pavimento appena pulito, ma Arandil annuì lentamente e si avviò con passo strascicato verso l'uscita della "Lucerna".
Il freddo della notte lo accolse e lo aiutò a riprendersi, si strinse nel mantello scuro e affondò le mani nelle tasche della cappa, mentre rivoli di vento gelido gli solleticavano la pelle scoperta, facendolo rabbrividire.
A Rondin il freddo dominava qualsiasi stagione dell'anno, ma con l'avvicinarsi delle Prime Nevi, le temperature erano scese vertiginosamente, e l'aria gelata si era fatta più acuta e pungente. Per un Carnifinde delle rigogliose e miti pianure dell'Illorion meridionale, quel clima era ancora più insopportabile, e non si sarebbe mai avventurato di sua spontanea volontà verso quel paesino arroccato tra le pendici dei monti Talamor. Proprio per questo, Arandil aveva deciso di fuggire a Rondin: nessuno si sarebbe mai immaginato che fosse andato lì, e nessuno lo avrebbe cercato; sentiva la necessità di starsene per conto proprio, solo, con i suoi pensieri.
Questi ultimi ritornavano continuamente al giorno in cui era stato sollevato dal suo incarico, ormai quasi una settimana prima: era stato un incontro triste e imbarazzante, uno spettacolo pietoso e deplorevole, con i più alti rappresentanti del Capitolo che scuotevano la testa rassegnati e delusi perché Arandil si era rivelato non essere in grado di portare a termine un compito così elementare, banale, che rasentava il ridicolo, più volte si era lasciato sfuggire quel pirata, e mai era stato capace di stanarlo e neutralizzarlo. Era una vergogna per l'Ordine e l'elfo si era sorpreso che non l'avessero ancora radiato ma si fossero limitati a passare l'incarico a qualcun altro: erano stati fin troppo indulgenti con lui.
Un moto di rabbia percorse i nervi di Arandil che tirò un calcio a uno dei ciottoli sconnessi della stradina che si inerpicava tra le casupole di legno, vagamente illuminata da radi lampioni al neon sfarfallanti.
La parte che lo faceva più imbestialire dell'intera faccenda era proprio il fatto che avessero affidato il compito a qualcun altro, e non ad uno qualsiasi, bensì a quell'egocentrico di Adam Browning: il suo arci nemico, che non perdeva occasione per sbeffeggiarlo, umiliarlo e ostentare la sua superiorità.
Era anche per sfuggire a lui che si era rintanato tra i monti Talamor: era disposto anche a vivere per sempre con dieci gradi sotto zero piuttosto che rivedere il suo sorrisetto soddisfatto e la sua faccia fintamente contrita quando gli era stata affidata la missione. Quel giorno si era trattenuto a stento dal saltargli al collo e strappargli l'unico occhio che gli rimaneva; avrebbe smesso di fare il presuntuoso, al buio.
Ma Arandil non poteva nemmeno biasimarlo più di tanto: era stata solo colpa sua se Adam aveva avuto l'ennesima possibilità di distinguersi tra i Dragoron e pavoneggiarsi; se fosse riuscito a catturare quel maledettissimo pirata, a quest'ora sarebbe stato lui a camminare a testa alta guardando tutti dall'alto in basso con aria di sufficienza...Ma non ne era stato capace, e ora ne pagava le conseguenze.
In sua difesa, poteva dire che il pirata era veramente sfuggente e possedeva parecchie risorse inaspettate: innanzitutto la mirabolante nave volante, l'Andromeda, che pareva scomparire tra le nubi di vapore e smog, senza lasciare traccia; per non parlare delle armi sofisticate di cui era dotata -baliste con gittate assurde, cannoni che sparavano palle a velocità incredibile e lanciafiamme che sputavano fuoco che si fortificava con l'acqua, rostri e spuntoni acuminati ricavati da ossa di balena, come l'intero scheletro della nave stessa- e l'equipaggiamento della ciurma, dotata di spade e pistole che nemmeno i Dragoron più ricchi e famosi potevano permettersi.
Arandil si domandò come quell'orco rozzo e analfabeta fosse riuscito a procurarsi tutto quell'armamentario e, soprattutto, a saperlo usare con una precisione e un'efficacia disarmanti, senza aver ancora fatto saltare in aria la nave; alcuni congegni avevano richiesto intere settimane di studio da parte dei migliori ingegneri per poterne comprendere il funzionamento!
Con un sorriso cattivo ad increspargli appena le labbra carnose, l'elfo sperò che uno di quei cannoni colpisse Adam in pieno, gli tranciasse metà del corpo e lo facesse precipitare su una distesa di spuntoni rocciosi: sarebbe stato uno spettacolo davvero appagante.
Con questi pensieri vendicativi intrisi di sangue, arrivò di fronte ad una stamberga. Pareva un fungo infestante cresciuto sulla parete rocciosa, e di un fungo aveva anche la forma: un ampio tetto leggermente bombato, e rattoppato con materiali di recupero, si adagiava mollemente su un quadrato di legno, compromettendone la solidità e schiacciando quelle povere pareti sotto il suo immane peso; nonostante la pressione costante, però, la costruzione non era crollata su sé stessa e rimaneva miracolosamente in piedi. Antistante alla casa si apriva uno spiazzo di terra brulla coperta di neve, su cui si adagiava un'imponente ombra scura dalle forme indistinte e inquietanti, l'elfo le si avvicinò e le assestò un'amichevole pacca; l'ombra rispose con un'eco vagamente metallica, ma rimase immobile.
Il volto pallido della luna si affacciò in quel momento dalla coltre di nubi sfilacciate che macchiava il cielo altrimenti terso, ed illuminò la sagoma, svelandone il vero aspetto: sotto la luce lattiginosa, si delinearono i contorni di un mostro arrotolato su se stesso e come addormentato, il corpo filiforme ed elegante era color rame ed era rivestito di un materiale rosso-dorato che replicava le squame delle creature in carne e ossa; la schiena era ricoperta di placche dello stesso tipo, sotto le quali spuntavano tubi sottili che si arrotolavano attorno al collo e terminavano ai lati della bocca, che riusciva a muoversi tramite un complesso sistema di ingranaggi incastrati gli uni negli altri. Altri ingranaggi collegavano le quattro zampe al resto del corpo, mentre una lunga coda serpentiforme, protetta dalle stesse placche, era accoccolata accanto al ventre, su cui si intravedevano sprazzi di una sorta di fornace, ora buia, da cui traevano origine i tubicini. Il muso allungato era decorato da un paio di lunghe corna appuntite e due lunghi filamenti di rame si allungavano dal mento del mostro, facendolo somigliare a un enorme drago cinese di metallo. Gli occhi, al momento, erano abissi scuri e profondi, dei quali non si riusciva a distinguere il fondo; sembravano spenti, come il resto del drago. Solo un lieve lucore proveniente dalla fronte della bestia e pareva l'unica cosa animata: si trattava di un complesso intreccio di linee sinuose e curve che si annodava proprio tra le due corna, ed era simile ai glifi di epoche remote e quasi del tutto dimenticate, studiate dagli eruditi. Il segno emanava un tenue bagliore violaceo che si rispecchiava negli occhi grigio acciaio dell'elfo, Arandil lo sfiorò, e per un momento, la sua luce si intensificò per poi tornare al consueto bagliore vagamente percettibile, non appena l'elfo allontanò le dita.
Quello era Krupfer, il suo drago meccanico, l'emblema della sua appartenenza all'Ordine dei Dragoron, gli ultimi rimasti dei leggendari Cavalieri dei Draghi. Con il passare degli anni queste creature si erano pian piano estinte diventando mito; ne rimanevano solo pochi esemplari, che si erano rifugiati in luoghi lontani e inaccessibili, ed erano ben attenti a non lasciarsi scovare dagli uomini che gli avevano decimati nel corso dei secoli, riducendone abbondantemente la popolazione.
L'Ordine dei Cavalieri, però, era rimasto e necessitava di una cavalcatura resistente, potente, devastante e che incutesse lo stesso terrore e lo stesso rispetto di un drago.
Fiumi di idee e progetti, più o meno realizzabili, erano stati presi in esame da ingegneri, fabbri, architetti, chimici e addirittura alchimisti e studiosi dell'occulto, oltre che, ovviamente, dai Cavalieri stessi, ma senza giungere ad alcuna conclusione soddisfacente. Fino a quando, un modesto studente di ingegneria, tale Vladimir Dragoron, non aveva avuto la brillante illuminazione di draghi meccanici che emulassero in tutto e per tutto le caratteristiche dei loro cugini in carne e ossa: da allora i Cavalieri dell'Ordine cavalcavano quelle bestie mastodontiche di metallo e ingranaggi, che nel corso degli anni erano state sempre più perfezionate e migliorate, fino a giungere alla forma più o meno definitiva di una creatura come Krupfer.
Un'alchimista del secolo precedente aveva aggiunto un'innovazione in più, affinché quelle creazioni così pericolose e distruttive non finissero in mani sbagliate: studiando i vecchi alfabeti delle popolazioni che abitavano prima di lui quella terra, aveva scoperto l'esistenza di un vincolo che legava indissolubilmente un oggetto all'essenza di una persona; l'alchimista analizzò e migliorò i segni che formavano il vincolo e ne partorì una versione più potente e terribile: il Sigillo da lui creato non si limitava solo ad indicare l'appartenenza dell'oggetto al suo padrone e lo legava a lui, ma sigillava la volontà del suo possessore all'interno del manufatto, che dipendeva dallo stesso e si disintegrava non appena quest'ultimo fosse morto. In questo modo nessuno, all'infuori dei Cavalieri cui era destinato, avrebbe potuto cavalcare e controllare una di quelle creature tanto magnifiche e prodigiose quanto letali e pericolose.
Arandil era stato fortunato e aveva avuto la possibilità di supervisionare la creazione del suo drago e di darne le direttive perché riuscisse come lui desiderava: magnifico, bellissimo e velocissimo, perché nessuno degli altri Cavalieri aveva optato per una forma più slanciata e aerodinamica; elegante e sinuoso, che si muoveva nell'aria con grazia, senza l’ingombro di ali enormi, ma grazie ad un complesso sistema di motori a propulsione ideato da lui stesso.
Il progetto aveva tenuto impegnati gli ingegneri per quasi sette anni, ma ne era valsa la pena: la sua creatura era eccezionale.
Lo stesso tempo gli era occorso per diventare un vero e proprio Dragoron e poter lavorare al servizio dell'Impero o di chiunque altro avesse richiesto i suoi servigi. Gli ultimi erano stati i membri della Compagnia Orientale: quei mercanti dalla pelle liscia e nera, vestiti di abiti di seta e adorni di splendidi gioielli, gli avevano chiesto di occuparsi del famigerato Krugar Mano Scarlatta, uno dei peggiori Pirati dei Cieli degli ultimi tempi, che aveva seriamente compromesso i guadagni della Compagnia assaltando e depredando incessantemente le loro aeronavi.
Era stato proprio quel pirata a sfuggirli per ben due mesi, continuando a fare il bello e il cattivo tempo e innervosendo sempre di più i mercanti, a tal punto che gli stessi avevano chiesto che l'incarico venisse affidato a qualcuno di più qualificato.
Così, per colpa di quell'orco, si ritrovava a dover vivere in una stamberga, lontano da chiunque lo conoscesse anche solo di vista, costretto a una vita ritirata e quasi eremitica per evitare che l'insoddisfazione dei mercanti e dell'Ordine lo perseguitassero ogni singolo giorno, attraverso i loro sguardi di amarezza e disapprovazione.
Arandil si riscosse da quei pensieri deprimenti: avrebbe trovato il modo per redimersi e riscattarsi, si era ritirato in quel paesino proprio per riflettere su questo e per trovare la maniera di riacquistare la fiducia e il rispetto del suo Ordine; non lo avevano espulso, pertanto credevano ancora in lui, e l'elfo doveva dimostrarli che non si erano sbagliati un'altra volta.
Che andassero tutti in malora: i mercanti, Krugar e Adam, non erano più un suo problema e poteva concentrarsi solo su come dimostrare agli Cavalieri che era ancora degno di essere chiamato Dragoron e di cavalcare il suo superbo animale.
Ne era stato estratto il Cuore non appena era giunto a Rondin, per non allarmare troppo i suoi abitanti, e ora giaceva spento in quello spiazzo, in attesa che il suo padrone lo riaccendesse e tornasse a solcare con lui i cieli immensi.
Arandil chiuse gli occhi e allargò le braccia, lasciando che l'aria della notte lo accarezzasse e lo illudesse di essere in alto, tra le nubi e gli albatri. Aveva sempre amato volare, e fin da piccolo aveva desiderato diventare un aviatore…fino a quando non aveva scoperto l'esistenza dei Dragoron: da allora si era impegnato e aveva messo tutto sé stesso affinché potesse entrare nel Palazzo di Cristallo per poter apprendere quelle nozioni e assorbire quella conoscenza necessari a diventare un vero Cavaliere.
Non avrebbe gettato via tutti quegli anni di fatica, notti insonni, lacrime, sudore e speranze per uno sciocco errore, per un semplice avvenimento che non era andato secondo i piani. Lui meritava di essere un Dragoron, aveva lavorato sodo per guadagnarsi il titolo e il suo drago, non avrebbe lasciato che Krugar, Adam o chiunque altro gli sottraessero il suo sogno.
Avrebbe lottato pur di mantenerlo e si sarebbe mai più lasciato mettere i piedi in testa da nessuno.
Con questi pensieri, Arandil riaprì gli occhi e si rintanò in casa per riposarsi.



   
 
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