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Autore: Gwen Chan    19/06/2017    1 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Con un passo

La sveglia suonò troppo presto. Il suo trillare giunse insieme al pesante rumore di un paio di stivali militari che sbattevano contro la porta di legno con una violenza che solo una silente rabbia covata per anni avrebbe potuto produrre.
Yuri aprì gli occhi, uscendo dal suo stato di attento dormi-veglia.
Dopo anni nell’esercito era qualcosa che ormai caratterizzava il suo sonno, anche quando la fatica era ai massimi livelli. Fece scivolare un dito dietro le lenti degli occhiali, li raddrizzò e strofinò le palpebre per cacciare lo stordimento dovuto all’alzataccia. Era come una fitta nebbia, qualcosa a cui ormai era abituato. Aveva l’impressione di aver dormito solo pochi secondi.
Di natura Yuri non era mai stato una persona mattiniera. Nemmeno anni di sveglie al sorgere del sole erano riusciti a fargli superare la difficoltà che il suo corpo aveva a svegliarsi la mattina presto.
Sollevò un braccio per guardare l’orologio da polso, socchiudendo gli occhi contro la luminescenza delle cifre bluastre che indicavano le 04:55.
Un gemito sulla sua sinistra gli comunicò che anche Michele si stava alzando, sdraiato sul pavimento perché “meglio questo che beccarsi il tetano”. Sopra di lui, al contrario, Phichit stava ancora russando piano. Un lieve pugno sotto il materasso dell’amico fu sufficiente per farlo schizzare in piedi come una delle molle che cigolavano a ogni loro movimento. Phichit saltò giù dalla branda senza nemmeno usare la scaletta, piegando le ginocchia per attutire l’atterraggio.
In un baleno era già vestito, pettinato, con lo zaino gettato su una spalla. Saltellava da un piede all’altro, con l’eccitazione per l’ignoto che correva sotto la sua pelle bronzea.
Anche Michele si stava vestendo. Si abbottò la giacca dell’uniforme con una mano sola, borbottando sottovoce per il mal di schiena che dormire sul duro cemento gli aveva causato. Con l’altra mano frugò nel suo zaino per controllare di non aver perso o dimenticato nulla.
JJ, da parte sua, sembrava essere ancora profondamente immerso nel regno dei sogni. Il suo russare da alce era l’unico segno che fosse ancora vivo in un’immobilità altrimenti completa.
“Ehi, tu! Hai finito di fare la Bell’Addormentata?”
Tre su quattro si girarono verso la porta. Plisetsky, arrabbiato come se avessero ucciso tutta la sua famiglia, aveva aperto la porta a suon di calci, così forte da far cozzare il pomello contro il muro e causare una cascata di intonaco. Il suo piede, sollevato e pronto a colpire la prima superfice disponibile, ricadde pesantemente a terra.
Una volta, due volte, la suola batté contro il pavimento. Sembrava che Plisetsky vi volesse scavare un buco. JJ, tuttavia, non batté ciglio. La sua espressione addormentata era fin troppo pacifica per la situazione.
“Tu, svegliati, cazzo!” gridò il Capitano russo. Si avviò verso il letto dell’uomo a grandi passi. Calciò via gli zaini di Yuri e Michele sulla sua strada senza troppi scrupoli. Poi afferrò JJ per i piedi e lo trascinò fuori dalle coperte. JJ aprì gli occhi, battendo le palpebre con dolorosa lentezza. Guardò Yuri e sorrise intontito.
“Buongiorno. Sei quasi bello come la mia fidanzata!” esclamò evitando con un salto, stranamente agile per una persona appena svegliata, il tentativo di Plisetsky di prenderlo a calci.
Con le mani chiuse a pugno, fremendo di furia repressa, e le narici che erano sul punto di cominciare a fumare, Plisetsky sibilò: “Partiamo tra mezz’ora. Se non vi vedo arrivare in dieci minuti vi rispedisco in America a suon di calci in culo.”
Annuirono tutti, correndo ciascuno ad afferrare la propria roba con quel miscuglio di velocità e organizzazione che solo anni nell’esercito possono insegnare.
“Il bagno?” domandò Yuri prima che Plisetsky scomparisse nel corridoio.
“Ce n’è uno al primo piano, vicino all’ingresso” gli fu detto.

Tra le varie cose a cui Yuri non si sarebbe mai abituato della vita militare - al punto che era normale chiedersi perché si fosse arruolato in primo luogo e se lo domandava lui stesso, cercando una ragione che dieci anni prima era stata cristallina - c’era una sorta di pigrizia quando si trattava di igiene personale.
Cresciuto fino ai primi anni dell’adolescenza in un complesso termale, era abituato a bagni costanti. L’uomo soffriva ancora per le docce occasionali e il dover trascorrere giorni con acqua appena sufficiente per bagnare il viso quando si era in missione.
Pensò con disgusto alla mania di Leo di non lavare un paio di calzini “fortunati” o alla volta in cui si era verificata un’epidemia di pidocchi. Erano stati tutti rasati a zero, ma avevano comunque trascorso intere settimane a grattare senza sosta un prurito immaginario.
“Simpatici.”
Si girò, con lo spazzolino da denti che pendeva dal labbro inferiore, per ritrovarsi faccia a faccia con Phichit. Anche la sua bocca era piena di dentifricio. Yuri sputò nel lavandino. Aprì il rubinetto, da cui uscì un filo d’acqua giallastra.
“Meglio non toccarla” disse JJ, passando loro accanto per usare uno dei due gabinetti disponibili
“Sì, sarebbe un modo stupido di morire” concordò Michele.
Phichit, sputato il dentifricio e gettato lo spazzolino in una tasca dello zaino, fece segno a Yuri di seguirlo fuori dal bagno. Yuri avrebbe riconosciuto quello sguardo in un attimo, divenuto ormai familiare dopo anni di missioni fianco a fianco.
“Nikiforov” iniziò Phichit.
“Esatto.”
“Victor.”
“Mm.”
“Victor Nikiforov! Riesci a crederci? Andare in missione con Victor Nikiforov. Vuoi che ti dia un pizzicotto per svegliarti?” continuò Phichit. Yuri scansò le dita dell’amico.
“Non osare!” esclamò. Se anche si fosse trattato di un sogno, un sogno stupido e assurdo, non si sentiva ancora pronto a svegliarsi. E c’era qualcosa di strano nel retro della sua mente, come un déjà-vu troppo sfuggevole per essere afferrato. Pensò alle maniere gentili che Victor aveva avuto e alla peculiare attenzione che, nelle poche ore passate insieme, l’uomo aveva mostrato nei suoi confronti. Era quasi come se Victor lo ritenesse più degno della sua simpatia degli altri.
Yuri non capiva il perché.
“Oh, ecco gli altri. Meglio andare.”
Trovarono un giovane in fondo alle scale. Aveva un sorriso gioioso, troppo gioioso, e scattò sull’attenti non appena li vide. Chiaramente, sapeva chi erano.
“Finalmente! Un altro minuto e il Capitano Plisetsky sarebbe esploso. è un’ora che borbotta. Emil Nekola!” si presentò.
Yuri non era ancora ben ferrato in ranghi militari russi come avrebbe voluto, ma ipnotizzò fosse un soldato semplice.
L’inglese di Emil aveva uno strano accento, non russo però. Yuri si sforzò di riconoscerlo. Non che avesse il tempo di pensare alla faccenda, perché Emil stava già camminando giù per il corridoio, non voltandosi nemmeno per controllare che lo stessero seguendo.
“Gli altri sono già pronti” continuò, spiegando che due veicoli li stavano aspettando ai confini del campo. Sarebbero usciti dalla porta di servizio per evitare di essere notati e di causare confusione
“Anche se la sveglia non è ancora suonata.”
“Beati loro” sibilò Michele. Yuri concordò silenziosamente con lui. All’esterno l’alba stava colorando i contorni dei monti afgani, che si stagliavano alti contro l’orizzonte nella nebbia mattutina. Dipingeva le vette con rosa pallidi e strisce di deboli arancioni.
Come annunciato, trovarono due camion di medie dimensioni, uno dei due coperto, ad aspettarli. I veicoli erano già stati caricati con armi, cibo, acqua, carburante e attrezzature varie. Pensando al cibo, Yuri sentì il suo stomaco protestare; a parte la patetica cena della sera precedente, non aveva mangiato quasi nulla nelle ultime ventiquattro ore.
Popovich stava alla guida del camion coperto; il sedile del passeggero era occupato da un soldato che Yuri non riconobbe.
Victor era appoggiato all’altro camion, ignorando Plisetsky che camminava in cerchio attorno ad esso. “Era ora!” li accolse.
“Yura, non essere scortese” lo rimproverò Victor. Sembrava che si fosse appena svegliato da un lungo e riposante sonno di bellezza. Passandogli accanto, tuttavia, Yuri poté notare profonde occhiaie sotto gli occhi azzurri dell’uomo, come se, invece di essersi svegliato fresco e riposato, il Generale non avesse dormito affatto. Dava l’impressione di un uomo che aveva imparato a convivere con una perpetua insonnia.
“Beh, spero che nessuno di voi soffra di claustrofobia. Non che mi importi” commentò Plisetsky.

Il piano era semplice, almeno in apparenza, ma per questo ancora più soggetto a imprevisti. I russi avrebbero guidato fuori dal campo con una scusa - “Spero che tu abbia pensato a qualcosa di plausibile, Vitya” - mentre gli americani sarebbero rimasti nascosti in un qualche modo tra le masserizie. Tirarono a sorte. Crispino e Leroy furono i più fortunati e saltarono sul camion coperto.
Prima di rendersene conto, Yuri si trovò sdraiato supino, incastrato tra una tanica di benzina, tiepida al tatto, e un paio di tende arrotolate alla sua destra e Phichit alla sua sinistra. Le vibrazioni del motore, amplificate dal corpo metallico del veicolo, si diffondevano dal coccige alla nuca, facendogli battere i denti in maniera quasi buffa.
“Questa è una novità” sussurrò Phichit, alitandogli la faccia. Yuri fece una faccia schifata.
“E sono sicuro di averti visto lavarti i denti!”
Dopo un momento di silenzio una scossa comunicò loro che il camion aveva cominciato a muoversi verso l’uscita del campo. Yuri cercò girarsi per avere una visuale migliore. Non ebbe molto successo.
Sentì qualcuno parlare in russo, ma lo spiraglio tra il carico e la ribalta del camion era troppo stretto - e con un pessimo angolo - per vedere qualcosa oltre a una striscia di cielo.
Nonostante ciò Yuri riuscì a comprendere alcune parole, abbastanza per ricostruire il dialogo con un po’ di immaginazione. Victor, Plisetsky e Altin avevano ricevuto il compito di riconsegnare il prigioniero. Avevano bisogno della presenza del Generale Nikiforov in persona? Oh, una priorità alfa. E per quanto riguardava il Capitano Popovich? Una missione di addestramento. Ci fu il fruscio di una lettera che veniva aperta.
“Beh, sembra tutto in ordine.”
E comunque il problema non era quando qualcuno usciva, più quando qualcuno entrava.
Nello stretto spazio in cui Yuri si trovava, per di più senza l’aiuto di una bussola, era difficile capire quale direzione il camion avesse preso dopo aver lasciato il campo, vicino a Herat. Yuri aveva l’impressione che il veicolo si fosse diretto a sud, dopo un breve tragitto est per confondere le loro tracce. Tutto in accordo con quello che aveva detto loro il mujaheddin e le informazioni che Yuri possedeva.
Eppure, solo una volta uscito dal suo nascondiglio avrebbe avuto un’idea più precisa della situazione. Ogni tanto tendeva un orecchio per cogliere frammenti della conversazione tra Plisetsky e Nikiforov o i quei commenti che il prigioniero rivelava a Otabek.
Yuri si ricordava bene dove Leo sarebbe dovuto dirigersi - il nome del luogo era ben stampato nella sua memoria - ma la possibilità che Leo e gli altri avessero deviato dal percorso originale fece capolino nella sua mente. Secondo i russi la squadra di Leo aveva voluto giocare al “buon samaritano” - parole di Plisetsky - e si era trovata invischiata in un’imboscata. Questo era quanto il mujaheddin aveva confessato. Phichit avrebbe detto che un simile comportamento si addiceva di Leo e Yuri sarebbe stato d’accordo con lui senza pensarci due volte. Se c’era una persona con un buon cuore, quella era Leo de la Iglesia.

Era passata almeno un’ora, col caldo sempre più soffocante mentre il sole si alzava nel cielo biancastro quando una voce - Plisetsky - comunicò loro che potevano uscire. Yuri obbedì, con le ossa che schioccarono mentre si stiracchiava in una familiare routine per liberarsi dal torpore. Si mosse nel piccolo spazio disponibile per combattere il fastidioso formicolio che l’immobilità prolungata aveva causato. Aprì e chiuse le dita intorno alla cinghia di un fucile M16. Fu un gesto quasi automatico, reso semplice da anni di pratica. Yuri si mise l’arma in spalla con un movimento fluido. Vicino a lui, Phichit si stava armando a sua volta. Non molto lontano, Crispino e Leroy stavano facendo lo stesso. O almeno Yuri così suppose.

Il sole, ancora basso nel cielo mattutino, feriva già gli occhi, disegnando lunghe ombre sul terreno verde e giallo. C’erano momenti in cui Yuri si rammaricava di non essere in grado di indossare gli occhiali da sole. Purtroppo, non si era mai abituato al modo in cui le lenti scure distorcevano l’ambiente e rendevano difficile distinguere le cose più di quanto non fosse già con la sua miopia.
La valle di Herat era uno di quei luoghi che, senza la macchia della guerra, sarebbero stati un piccolo paradiso. Lo attraversava un fiume grande, lento e possente, che lo rendeva un’oasi di verde in mezzo a deserti e nude pianure. L’altopiano era diviso in campi coltivati, punteggiati qua e là da piccoli boschi di un verde profondo. Nude colline color ocra si sollevavano dal terreno; all’orizzonte: la cima delle montagne che in lontananza si stagliavano per nascondere il cielo. Michele, che aveva trascorso quasi un intero anno laggiù, le aveva descritte come crudeli e sfuggenti. Aveva parlato di burroni avidi, superfici insormontabili e tempeste tanto imprevedibili quanto letali.
A volte comparivano villaggi fatti di fango e pietre, piccole comunità che una volta dovevano essere state vive, ma che ora soffrivano l’abbandono che la guerra porta sempre con sé. Yuri non poté evitare di notare come i nativi corressero a nascondersi, mentre il camion passava. I bambini venivano richiamati. Capre e polli venivano radunati in fretta e furia. Poi, girandosi per guardare quei villaggi un’ultima volta, l’uomo li vedeva ritornare alla vita; solo un po’, come i vermi che sbucano dal terreno dopo una pioggia. Passarono accanto a due nella prima ora.
C’era una profonda malinconia in tutto questo.

Le cifre dell’orologio segnarono le nove. Lo stomaco di Yuri gorgogliò ancora.
“Oh, cielo, cielo!” esclamò Victor, quasi divertito da quel suono - come se la situazione non fosse stat già abbastanza imbarazzante. “Scusate le nostre pessime maniere. Yura, dai loro qualcosa da mangiare!”
Plisetsky incrociò le braccia al petto, facendo un suono di disapprovazione. “Non sono il loro piccolo cameriere, Vitya.”
“Abbiamo qualcosa, non preoccupatevi” rispose in fretta Yuri. Si mise il proprio zaino in grembo e cominciò a frugarci dentro. Era sicuro che ci fossero ancora del cioccolato fuso e un paio di barrette sul fondo, forse tra i calzini di ricambio.
“Patetico” sussurrò il suo omonimo.
“Sciocchezze!” insistette Victor, quasi come se invece di attraversare una fertile vallata che sarebbe stata presto sostituita dal deserto, si fossero trovati tutti in un salotto a Leningrado, a bere tè e mangiare pasticcini. Yuri, seppure indirettamente, conosceva quel particolare lato del Generale Nikiforov. Si diceva che cambiasse umore come il vento cambia direzione. Aveva uno spirito giocoso, ma era anche capace di momenti di estrema serietà. Il suo carattere mutevole, limpido al punto da essere inafferrabile, lo aveva reso un uomo da temere e le sue vittorie rendevano giustizia al suo famoso nome.
A Yuri e Phichit fu offerto un po’ di pane, biscotti e persino un goccio di vodka, che gentilmente rifiutarono. Invece, preferirono un tubo di latte condensato da mescolarsi con il caffè che avevano ancora nelle loro borracce.
“Ne vuoi un po’?” Phichit chiese a Otabek, notando l’interesse che l’uomo aveva nel guardare la bevanda nella tazza di metallo. Il tenente Altin fece finta di riflettere per un momento sull’offerta, ma alla fine accettò. Phichit gli diede la tazza con un sorriso.
“Per favore, non dirmi che lo vuoi anche tu!” Plisetsky sibilò a Victor. L’uomo si accigliò e si voltò verso Yuri, facendo un sorriso così grande e luminoso che Yuri si congelò con la propria tazza a metà strada verso la bocca.
“Ne volete un po’?”
Sapeva che la richiesta silenziosa di Nikiforov era quasi un ordine.
“Non è male, dovresti provarlo, Yura!” disse Victor, dopo averne assaggiato un sorso. Si pulì le labbra con un fazzoletto.
“Per l’amore del cielo, è un caffelatte!”
Ma quando gli fu data la bevanda, non la rifiutò. Fece lo stesso con il cioccolato, non appena Yuri riuscì a recuperarlo dalla sua confezione. La barretta rimasta si era sciolta in un ammasso stantio e appiccicoso, ma Plisetsky divorò la sua parte con frenesia infantile, per il divertimento di Victor.
Nel frattempo, nel camion coperto che avanzava lentamente alle loro spalle, il soldato chiamato “Emil” stava cercando di avviare una conversazione con Michele in ogni modo possibile.
“Oh, chi è lei?” lo sentirono urlare. Michele strappò una foto dalle mani di Nekola.
“Mia sorella, giù le mani” rispose, controllando che la foto non fosse danneggiata. Il caldo e il passare del tempo l’avevano scolorita. I bordi erano usurati, ma la persona raffigurata era ancora ben visibile. Mostrava una donna più o meno dell’età di Michele, con lunghi capelli castano scuro tenuti in uno stretto chignon.
“È carina” commentò Emil, sporgendosi in avanti per sbirciare il più possibile prima che Crispino mettesse via l’immagine, riponendola al sicuro nella tasca dell’uniforme, vicino al cuore.
“Dovrai passare sul mio cadavere.”
Emil si strinse nelle spalle, alzando le mani come a dimostrare le sue complete buone intenzioni.
Anche Yuri stava guardando la foto di una giovane donna. La teneva stretto tra le dita per non lasciarla volare via.
“è la tua ragazza?” chiese Victor, senza nemmeno girarsi, fissandolo nello specchio retrovisore.
Yuri scosse la testa. Al suo fianco Phichit ridacchiò un po’, notando i lieve rossore che si stava diffondendo dal naso di Yuri alle sue guance.
“No, una vecchia amica” rispose, abbastanza imbarazzato. “Ma è sposata”, aggiunse poco dopo per evitare ogni fraintendimento. Plisetsky fece una smorfia. Altin, al contrario, sembrava quasi interessato a sentire il resto della storia.
Nell’ultima lettera che Yuko aveva scritto a Yuri parlava delle sue figlie, tre gemelle, e di come si sarebbero presto diplomate.

Sono cresciute così in fretta, ma sono maliziose come te le ricordi. Loop vuole studiare giornalismo, Lutz si sta allenando duramente per le nazionali giapponesi e Axel si è tuffata negli studi di economia

Yuko Nishigori e suo marito gestivano una piccolo palazzetto del ghiaccio nella città natale di Yuri. Aveva frequentato quel posto da bambino e da ragazzo, prima di trasferirsi in America.
Quando gli altri cadetti avevano scoperto che aveva preso lezioni di balletto durante la sua infanzia, l’avevano preso in giro per mesi. Tuttavia, si erano dovuti scusarsi vedendo come il suo passato da ballerino gli desse un notevole vantaggio nel combattimento corpo a corpo. Era agile, preciso e flessibile, oltre ad avere una grande resistenza.
 
Per mezzogiorno il sole aveva raggiunto il suo zenit. Qualche ora dopo, il caldo divenne insopportabile. Fra tutti, Plisetsky sembrava il più colpito. Si era tolto la giacca macchiata di sudore e l’aveva avvolta intorno alla testa come protezione contro il sole cocente.
Yuri si asciugò la fronte, rimpiangendo di non essere stato scelto per viaggiare sul camion coperto. Lì la cerata sussurrava promesse di una piacevole ombra. Si voltò per controllare il veicolo e vide la silhouette di Georgi, abbandonato sul volante, come se si stesse sciogliendo.
“Cazzo di tempo. Non capisco l’ossessione che le persone hanno per i posti caldi!” grugnì Plisetsky, bevendo a grandi sorsi. Scosse la borraccia verso Otabek, l’acqua che sciabordava contro il metallo; il Tenente rifiutò, così come fece il mujaheddin. Yuri prese mentalmente nota di chiedere il suo nome più tardi. Quei due non sembravano soffrire il caldo come gli altri. Il prigioniero aveva il vantaggio di essere nativo, ma Otabek rimaneva un mistero.
E poi c’era Victor. Aveva spogliato la giacca, ma si comportava come se la calura non avesse effetto su di lui, dando l’impressione che la sua pelle pallida sarebbe stata fredda se toccata.
Yuri si girò ancora una volta, guardando il camion coperto mentre si trasformava in una forma sempre più piccola e vaga. Lo guardò scomparire nell’aria bollente, mentre la distanza con il camion aumentava. Lo vide arrancare sulla strada, sempre più lento.
Quando il camion coperto si ridusse a nient’altro che non un punto sfocato, fu chiaro che qualcosa non andava.
Yuri lo comunicò agli altri. “Dobbiamo fermarci” ordinò. L’urgenza gli fece dimenticare ogni cortesia.
“Che cosa succede?”
Victor frenò e spense il motore. Yuri fece notare quanto il camion coperto fosse rimasto indietro.
“Sì, sembrano avere dei problemi” concluse Phichit, gli occhi incollati al binocolo preso dal suo zaino. Plisetsky gemette come un animale ferito, grugnendo quello che Yuri suppose essere l’equivalente russo del “Perché a me?”
Cercarono di contattare il resto del gruppo via radio, con l’energia statica che interferiva in sottofondo, ma le risposte furono brevi e confuse.
“Niente da fare, dobbiamo controllare” disse Victor.
“Wow, che genio” rispose Plisetsky sarcastico. “Chi va?”
Dopo una breve e animata discussione su chi dovesse essere lasciato dietro su camion - una simpatica variante dell’enigma con le capre e i cavoli - fu deciso che il prigioniero, Otabek e Phichit sarebbero rimasti nel veicolo - “I motori non sono il mio campo“ - mentre gli altri avrebbero camminato fino al camion coperto sotto il sole del pomeriggio.
Prima di muoversi, Yuri controllò che il suo M16 fosse carico e funzionante.
Dei tre, Victor aveva la falcata più lunga ed era difficile stagli dietro. Per ogni suo passo, Yuri doveva farne quasi due.
Trovarono Georgi e JJ piegati sul motore del veicolo, con le teste infilate sotto il cofano. Emil e l’altro soldato semplice stavano bevendo dalle borracce e masticavano strisce di carne secca. I loro fucili, appoggiati lì vicino, indicavano come la loro calma fosse solo apparente. Michele faceva nervosamente la guardia poco lontano.

“Che cosa è successo?” chiese Victor quando furono abbastanza vicini da essere sentiti.
Georgi sollevò la testa, le guance e le dita sporche di grasso. “Non riesco a capire. Qualcosa con il motore” rispose.
“Deve essersi surriscaldato” fu la diagnosi finale di JJ. Il suo suggerimento di aspettare fu accolto da un diffuso mormorio di disapprovazione, ma non c’era molto da fare. Plisetsky lo comunicò Altin via radio. Yuri e Victor diedero il cambio a Michele e Emil.
Mezz’ora dopo la situazione non era migliorata. Georgi girò la chiave dell’accensione, ma il motore tossì invano.
“Fammi provare!” Plisetsky spinse da parte Popovich senza troppi complimenti. Il suo tentativo non ebbe molto più successo.
“Hai controllato il refrigerante?” suggerì Yuri. Stare così fermi ed esposti era una novità per lui e, in quanto tale, lo faceva sentire a disagio. Sentì il sudore colare sui suoi muscoli contratti, pronto a scattare al primo movimento sospetto. I primi segni di paranoia distorcevano rumori altrimenti normali in segnali di pericolo.
Il suo omonimo teneva gli occhi incollati sul camion in lontananza. “La mia mira è molto buona” aveva sussurrato nell’orecchio del mujaheddin. Se non le parole, l’uomo aveva capito il significato.
“Sì” confermò JJ. Si chinò ancora una volta, per un secondo controllo. Il refrigerante sembrava essere a posto, niente da dire.
“La cinghia?” suggerì Michele, sopra il rumore del vento. Ancora una volta JJ si chinò per verificare. “Sì, hai ragione!”
Questa volta ci fu una risposta affermativa. Li chiamò tutti intorno al cofano, indicando la causa del danno. “Vedete? Deve essersi rotto per l’usura. Succede quando si utilizzano veicoli vecchi.”
“Puoi ripararlo?” tagliò corto Plisetsky. Non sembrava disposto ad ascoltare i come e i perché sull’inferiorità dei mezzi rispetto a quelli americani.
“Ad occhi chiusi.”
Michele alzò i propri al cielo. Tuttavia, JJ sembrava essere in perfetto controllo dell’intera faccenda, pienamente consapevole di quello che stava facendo. Era chiaro che il comando era qualcosa che gli veniva naturale, che scorreva nelle sue vene. Yuri aveva sentito che la famiglia Leroy aveva una lunga tradizione in ambito militare e che tutti i fratelli di JJ erano entrati in diversi rami dell’Esercito. Quanto a JJ, che era maggiore, si faceva chiamare “Il Re”, e apparentemente era un soprannome che si era guadagnato. Ancora, erano tutti tesi durante l’attesa, fucili pronti e corpi tremare con anticipazione. Yuri Plisetsky non ha mai perso il sentiero del camion, nemmeno per un attimo. Continuò a comunicare con Otabek per tenerlo aggiornato sul loro progresso.
Yuri avrebbe potuto orientare il suo fucile in una frazione di secondo. Michele aveva i suoi già accennati. Emil e l’altro soldato semplice esaminarono l’orizzonte. Victor sembrava più rilassato, ma Yuri non aveva dubbi che fosse attento quanto ciascuno degli altri, se non di più.
“Fatto, dovrebbe tenere!” JJ annunciò dopo due ore, che parvero durare una vita.
“Speriamo di non avere più problemi”.
Non li ebbero. L’inaspettato danno aveva fatto perdere loro tempo ed energie preziosi, ma riuscirono comunque a coprire circa quaranta chilometri prima che il sole tramontasse e li costringesse a fermarsi. Plisetsky avrebbe voluto continuare di notte, ma Victor e Georgi lo considerarono troppo pericoloso. Otabek concordò con loro. Il prigioniero annuì con fervore.
Alla fine decisero di stabilire l’accampamento quando le ultime tracce di blu scomparvero dal cielo. Michele e Otabek furono scelti per il primo turno di guardia.

“Yura, vieni a mangiare con noi!” Victor invitò il Capitano di fanteria, dando dei colpetti col palmo della mano sulla nuda terra al suo fianco. Aveva estratto le proprie razioni e si era seduto di fronte a Yuri e Phichit, chiedendo: “Vi dispiace?”
Scossero la testa.
Non lontano Emil aveva interrotto l’intenzione di Michele di mangiare da solo e ora stavano chiacchierando animatamente. O, meglio, Emil stava chiacchierando, e Michele gli stava dicendo di tacere.
“Se vuoi frequentarli, fai pure. Io vado a dormire. Beka, aspettami!” gridò Plisetsky, marciando per raggiungere il suo amico. Victor fece un piccolo sorriso di scuse per il suo comportamento.
Yuri piegò le dita attorno al metallo tiepido della tazza di caffè. L’odore della bevanda lo aiutava a calmarsi. Ne sorbì un sorso e il vapore gli annebbiò gli occhiali, nell’aria fresca della sera. Accanto a lui, Phichit fece una smorfia. Il caffè russo era più amaro di quello a cui era abituato.
Victor alitò sulle dita, i gomiti poggiati sulle ginocchia e gli occhi abbassati. Quando sorrise, numerose piccole rughe si formarono intorno ad essi. Sembrava quasi vulnerabile. Sembrava umano.
Yuri chinò la testa.
“Che tipo di persona è questo Leo?”
“Per Guang Hong e Phichit, è il signor Culo Perfetto!” mormorò Yuri. Si scansò lo spazio sufficiente per evitare il gomito dell’amico.
“È un uomo coraggioso, che non si tira mai indietro. Il genere che, non importa quante volte li butti giù, tornano sempre in piedi. Era nostro amico” continuò Phichit.
“È” corresse Yuri. “È.”

Note: Nostalgia portami via. Dunque, la missione è cominciata e anche il treno dell’intera storia si sta lentamente mettendo in moto. È il carrello delle montagne russe che sale lento prima dell’inevitabile discesa.
Nel prossimo episodio: Il passato di Otabek e Yurio; una tempesta di sabbia offre ai nostri eroi l’occasione di superare qualche divergenza.
   
 
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