Milano, 31 agosto
1860
Mio adorato,
come state?
Sono molto addolorata per il giovane
Gaspare, la notizia è giunta a noi assieme alla sua salma,
poco prima che mi
arrivasse la vostra missiva. Conosco i Tibelli, ed è stato
un onere straziante
e imbarazzante porgere loro le nostre condoglianze. Cosa si
può dire ad una
madre in lacrime per la morte prematura del proprio unico figlio? Come
la si
può risollevare dal dolore e dalla desolazione? Nessuna
parola né gesto saranno
mai abbastanza per riportare in vita quello che le è stato
strappato.
È così penoso conversare con qualcuno
in lutto: ogni parola sembra detta a sproposito, e stonare con il
contesto, ma
anche il silenzio è increscioso e opprimente, simile ad una
coltre pesante che
schiaccia e toglie il respiro.
Mi rammarica confessarlo, ma fu con
sollievo che mi allontanai da quella casa ammantata di nero e tristezza.
Prego Iddio ogni sera perché vegli su
di voi e sulla vostra incolumità e vi ho raccomandato alla
Vergine Santissima
perché vi preservi e vi riporti da me sano e salvo.
È un desiderio egoistico,
ma il solo pensiero che vi possa succedere qualcosa mi stringe il
cuore. Mi
affido a loro, perché possano ricondurvi a me vivo, se come
vincitore o vinto
mi è indifferente.
Le barbarie descritte nella vostra
ultima missiva sono giunte alle nostre orecchie qualche giorno
addietro, e un
sentimento di sgomento e orrore ha avvinto tutti, sottraendoci per un
momento
l’aria dai polmoni e lasciandoci boccheggianti e sconcertati.
Per quanto ne
fossi già a conoscenza, non ho potuto reprimere
l’ondata di sconforto e
tristezza che si è abbattuta su tutti, lacerando i nostri
cuori e sgretolando
un poco la nostra serenità e la nostra speranza.
Mamma stava per avere uno svenimento, e
solo per il tempestivo soccorso della cameriera non è ceduta
alla forza delle
proprie emozioni. Papà ha commentato che, come sempre, non
ha potuto fare a
meno di sfruttare le proprie doti di attrice melodrammatica e attirare
l’attenzione di tutti.
L’atmosfera è molto tesa e le notizie
dal fronte contribuiscono a esacerbarla. Voci poco confortanti giungono
da
Torino: la vostra impresa, per quanto sia stata accolta con entusiasmo,
inizia
ad essere vista con occhio sospettoso e guardingo. Temono che
Garibaldi,
trascinato dal fervore che sempre lo ha caratterizzato, e dal desiderio
bruciante di una patria unita, possa commettere qualche gesto avventato
e
compromettere gli accordi precari che assicurano la pace e rabboniscono
la
Francia. La politica e i meccanismi che regolano questo mondo non sono
mai
stati un’attrazione per me, troppo complessi e aggrovigliati
per la mia mente
istruita con letteratura, musica, danza e cucito- conoscenze ben poco
utili per
comprendere argomenti tanto spinosi…ma anche la mia
istruzione frivola e superficiale
è bastante per comprendere quanto preoccupante e nervosa sia
la situazione.
Sono in pensiero per voi, e spero che
codesti pettegolezzi malevoli siano infondati, e la vostra ardita
impresa non
venga così barbaramente affondata.
Ricordo con piacere le vostre accese
discussioni sull’importanza di una Nazione che raccogliesse
tutti gli abitanti
della Penisola e desse loro un’identità in cui
riconoscersi e rifugiarsi. Il
colore che tingeva le vostre guance quando pronunciavate quasi in
estasi la
parola “Italia”, era paragonabile al rossore che
imporporava le mie gote quando
vi ho scorto le prime volte, fiero e cupo come una statua di granito di
un
condottiero. Mi avevate conquistato con quel vostro contegno riservato
e
schivo, che celava un animo sobrio, umano, leale, prodigo e schietto;
vi siete
rivelato di lingua, e spesso di man, prode, di ratti passi,
pensieri, atti
e accenti. Questo vostro fuoco indomabile mi ha lambito e mi ha
bruciata,
consumandosi nel mio amore per voi.
Spero che riusciate a trovare un poco
di conforto nel mezzo di quell’Inferno, come io lo trovo nel
libro di poesie di
cui mi avete fatto dono prima della partenza.
In ogni componimento rivedo una parte
di voi: ogni verso è il tassello di un mosaico che
costruisce la vostra
immagine, e bacio trepidante le pagine che rievocano le vostre labbra.
Bramo di
rivedervi ancora, e poter assaporare nuovamente le promesse della
vostra bocca,
prego perché quel bacio, rubato sugli scalini del cortile,
non si tramuti in un
bacio d’addio, ma possa essere replicato infinite volte, in
maniera sempre
diversa eppure uguale quando tornerete a Milano.
Indosserò lo stesso abito di quel
giorno, quello dello stesso colore del cielo di Sicilia,
cosicché, quando vi
bacerò, sembrerà che il tempo non sia mai
trascorso ma si sia cristallizzato in
quell’attimo di sublime bellezza. Sarà cambiato
tutto, ma tutto sarà rimasto
immutato. Voi sarete diverso e anche io lo sarò, ma il
nostro amore, quel
sentimento profondo e indissolubile che ci lega nonostante la distanza,
sarà
rimasto invariato.
Vi amo con tutta me stessa. E nei miei
momenti di maggior sconforto, quando la lontananza mi trafigge e mi
lacera il
cuore con i suoi artigli, rievoco quel bacio, e la tempesta che strazia
il mio
animo si placa.
Ricordo con chiarezza ogni attimo: voi
che fremevate per la partenza, ma nel contempo non volevate
abbandonarmi, io
che da un lato cercavo di trattenervi, ma dall’altro vi
spingevo a partire,
perché come il mio, anche il vostro cuore era diviso tra i
doveri verso di me e
quelli verso la patria. Rimembro la dolcezza delle vostre labbra e
quella
lacrima salata che ha reso il bacio più amaro e
più vero.
Ricordo persino i passi della fantesca,
lievi eppure inesorabili come il tempo che corre e non si arresta. Mi
stava
cercando, e voi, all’udirli, capiste che quegli attimi
sarebbero stati gli
ultimi – granelli di sabbia preziosi trafugati, in segreto,
alla clessidra
della vita- e siete diventato più ardente e passionale. Il
vostro bacio si è
fatto più languido ed infuocato e, a volte, ritrovo tra i
recessi più profondi
delle mie labbra, le ceneri assopite di quel fuoco.
E il ricordo è straziante e bellissimo
assieme, come un quadro che non si può toccare ma solo
ammirare.
Con esso, giungono anche le rimembranze
galeotte dei baci sottratti di nascosto negli abbandonati anfratti
gotici di
Villa Lavanda, con i suoi soffitti alti e gli antri grigi e polverosi e
le
gorgoni truci che sorvegliavano i portoni, a una delle quali voi, un
dì,
staccaste per errore il naso e me lo donaste, come spiritoso pegno del
vostro
amore. Riemergono, come compagne di una danza della reminiscenza,
l’’incontro
casuale e l’intreccio accennato delle dita durante le
passeggiate lungo il
Corso, tenuti segreti per non destare scalpore, e resi più
eccitanti per la
loro segretezza, e i tramonti barocchi sui Navigli, e il gelato che
rinfrescava
quell’incendio di luci e nuvole scarlatte, simile ai cieli
dell’Apocalisse
affrescati sulla volta di quella chiesa in campagna, dove ci rifugiammo
quando venimmo
sorpresi dall’acquazzone. Codesti momenti trascorsi assieme
ritornano in
maniera inaspettata e subdola, cogliendomi negli istanti in cui la mia
mente
non è concentrata, e lascio che spazi per i meandri della
mia fantasia.
E dopo un folle volteggio tra queste
memorie care e preziose, evoco sempre quel bacio, l’ultimo,
straziante ricordo
che ho di voi, per questo più squisito e amato degli altri.
Ricordo il desiderio bruciante delle
vostre labbra, la loro ricerca affannosa e il loro abbandonarsi contro
le mie.
Sento ancora sotto le dita la stoffa ruvida del vostro mantello da
viaggio,
gettato in fretta sulle spalle per correre dal vostro comandante.
Papà, scherzando, sostiene che dovrei
preoccuparmi del fatto che preferiate rincorrere un uomo, piuttosto che
rimanere con la vostra promessa. Mamma,
come sempre, inasprisce la questione e la distorce completamente
insinuando che
siate un ribaldo avventato e animato da troppo fervore, sfuggente come
il vento
e non ancora pronto a legarvi a qualcuno.
Ma è proprio questo che mi piace di voi
e che mi ha conquistata: siete sempre così pieno di energie
e di vita, ardente
nelle vostre passioni e saldo nelle vostre convinzioni, disposto a
immergervi
in esse completamente e a sostenerle fino alla morte.
Vi ammiro molto per questa vostra
forza, e per il coraggio con cui affrontate i rischi che continuamente
correte
in quel luogo, lontano da casa, impervio e sconosciuto.
Le meraviglie del paesaggio
dell’assolata Sicilia, che mi avete descritto, paiono sublimi
e accoglienti. Mi
riportano alla memoria le figure smaltate delle scatole di latta dei
confetti
che portava a casa vostro zio, la Domenica. Ancora viene a pranzo da
noi, e
ogni volta mi permette di leggere le lettere che gli inviate,
anch’esse ricche
di spettacoli raccapriccianti ma anche di speranza.
Mi piacerebbe molto vedere di persona
ciò che, al momento, mi è concesso solo
immaginare, e ammirare assieme a voi le
rovine che tanto vi ammaliano.
La vostra lontananza mi è per me la
peggiore delle agonie e un’ambascia continua, e cerco, con
ogni mezzo
possibile, di relegarla in un angolo del mio animo, e di distrarmi e
tenermi
occupata come posso.
Vi sto confezionando un nuovo mantello;
quello con cui partiste era già vecchio e provato, e con le
peripezie che
vivete ogni giorno diverrà logoro, stracciato e
inutilizzabile. È di un caldo
color caffè, come quello che indossaste il giorno in cui
partiste…Mi sembra di
essere una vecchia vedova sola, che reitera e macina i ricordi
continuamente,
tormentandosi con le misere memorie che ancora la sua mente stanca e
afflitta
riesce a trattenere, mai uguali agli originali o a quelli precedenti,
se non
per i sentimenti e l’affezione associati a essi. Lentamente
sto prendendo le
sembianze della Vedova Caccia, quella cara signora che vi
fermò quel dì per
chiedervi di portare per lei le borse della spesa, ché i
suoi figli erano
entrambi lontani e lei non aveva più nessuno se non i loro
ricordi e i loro
ritratti sbiaditi. Allora ebbi occasione di sperimentare anche il
vostro cuore
generoso e il vostro animo gentile, che vi portano a sostenere e
soccorrere i
più bisognosi, come ora è indigente
quest’Italia ancora divisa e spezzata.
Avete udito il suo grido d’aiuto e siete accorso in suo aiuto.
Non vi sto rimproverando per essere
partito, ma mi rammarico solo di non sapere quando vi
rivedrò ancora, e se
sarete lo stesso che baciai quando vi lasciai tre mesi orsono.
Spero che sfiorando di nuovo le vostre
labbra possa ritrovare il sapore familiare e rasserenante del vostro
ardimento,
della passione e della determinazione che le accesero quel
dì, assieme alla
nobiltà d’animo e alla composta riservatezza che
mi fecero innamorare di voi.
Vi amo e vi rispetto come la prima
volta che vi incontrai, in Piazza Duomo, e vostro ci
presentò. Il vostro nome
suonò subito soave alle mie orecchie, sebbene il vostro
sguardo serio mi
intimorì, subito mitigato dal vostro sorriso radioso, che mi
trafisse il cuore.
Lo stesso sorriso me lo riservaste quel
dì, poco prima di fuggire inghiottito dalla tromba delle
scale. Fu la
rassicurazione che avreste mantenuto la promessa di tornare in trionfo,
paladino di un’Italia unita, per congiungere nuovamente
ciò che è destinato a
rimanere unito ed era stata diviso, la Nazione come le nostre anime.
Vi aspetto,
Giulia