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Autore: Gwen Chan    03/07/2017    2 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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La morte non discrimina


Questa volta fu Yuri a vedersi assegnato il secondo turno di guardia, quello di mezzo. Non era contento del risultato perché il doversi svegliare nel bel mezzo della notte interrompeva sempre i suoi già difficili tentativi di addormentarsi. Tuttavia conosceva abbastanza di dovere, obbedienza e solidarietà tra commilitoni per astenersi dal protestare, sebbene l’idea di chiedere a Phichit di fare cambio gli avesse attraversato la mente.
Il suo amico aveva molti meno problemi ad addormentarsi rispetto a lui. Una volta Yuri aveva chiesto a Phichit quale fosse il suo segreto, un po’invidioso della facilità con cui l’altro riusciva a scivolare dentro e fuori dal reame dei sogni. In risposta Phichit aveva detto qualcosa su tecniche di meditazione e su certi insegnamenti derivanti dalla sua educazione buddista; qualcosa a proposito dell’importanza di respirare insieme a certi trucchi ormai dimenticati per placare la mente. Quando era arrivato il momento di mettere in pratica i suggerimenti dell’amico, Yuri si era trovato più perso che mai. Inoltre, se ciò poteva significare qualcosa, non era mai stato una persona particolarmente religiosa, soprattutto negli ultimi anni. I suoi genitori e la sorella, come la maggior parte degli abitanti della sua città natale, erano scintoisti; quando si era trasferito negli Stati Uniti, Yuri aveva incontrato la grande varietà di religioni che solo una metropoli può offrire. Nessuna lo aveva veramente incantato. Sapeva ancora recitare alcune preghiere dalla sua infanzia, ma erano passati così tanti anni da quando aveva visitato un tempio, che a malapena si ricordava come fossero fatti.

Come se non bastasse, era stato abbinato con Plisetsky, fedeli al modello che la squadra aveva stabilito il primo giorno: assegnare il turno di guardia sia a un soldato sovietico sia a uno americano. Nonostante la loro tregua straordinaria, infatti, erano tecnicamente ancora in guerra tra loro e, come dice il detto, meglio prevenire che curare. L’incidente della tempesta di sabbia li aveva avvicinati un po’, più di quanto avrebbero ammesso nella loro attuale situazione, ma la posta in gioco era troppo alta per lasciare cadere la guardia.
In ogni caso, nemmeno Plisetsky non sembrava felice dell’abbinamento.

A parte la breve conversazione che avevano avuto alla base russa, il giorno dell’arrivo degli americani, Yuri non aveva avuto nessuna possibilità di confrontarsi faccia a faccia col suo omonimo. In verità aveva cercato di avviare piccole conversazioni durante le fermate obbligatorie per mangiare; aveva usato semplici parole diplomatiche che non avrebbero fatto male a nessuno, stando attento a rimanere lontano da qualsiasi cosa che avrebbe potuto essere percepito come un tentativo di spiare i segreti sovietici. I suoi tentativi, purtroppo, avevano sempre cozzato contro uno spesso muro di rifiuto. Fedele a ciò che Victor aveva detto loro, Yuri Plisetsky sembrava accettare e apprezzare solo della compagnia del tenente Altin. Il suo comportamento cambiava bruscamente nella presenza dell’altro.
Nella speranza di dormire un po’, Yuri si era ritirato prima del solito quella notte. La temperatura era diminuita notevolmente rispetto al torrido giorno. L’aria fredda si intrufolava sotto i vestiti, che parevano ora un po’ troppo leggeri. Yuri non si era mai abituato al freddo, il bisogno di caldo ben inscritto nei suoi geni. Quando si era trasferito in America il suo primo inverno era stato un’esperienza abbastanza traumatica, con la neve trasformatasi improvvisamente dall’essere un saltuario, esotico e piacevole passatempo in una mostruosa crudeltà.
Gattonò nel sacco a pelo, con l’improvviso pensiero che l’essere stato messo in coppia con Plisetsky non era la cosa peggiore che sarebbe potuta accadere. Sarebbe potuto essere assegnato a un turno di guardia con Victor Nikiforov.
Yuri aveva trascorso una buona parte della sua vita ad ammirare Victor, ad adorarlo. Lo aveva idealizzato Victor in segreto, come un giovane giappo-americano venerante un russo che viveva a chilometri di distanza, che non era nemmeno consapevole della sua esistenza. Aveva accarezzato il volto sfocato di Victor in ogni foto che era riuscito a collezionare, con un misto di riverenza e paura, mentre osava immaginare l’impossibile: parlare con Victor Nikiforov.

Phichit era solito ridere dicendo che Yuri era un amico molto strano. E Yuri si trovava d’accordo con lui; perché , nel silenzio dei suoi sogni, certe fantasie vagavano incontrollate e scoperchiavano desideri così lerci che Yuri non aveva nemmeno il coraggio di definire.
Non riusciva dormire. Si strofinò gli occhi e si mise seduto, slacciando il sacco a pelo per liberare il torso. Si toccò la nuca, sfregando il punto dove Victor lo aveva afferrato solo pochi giorni prima. Poteva ancora sentire il tocco dell’altro, le dita forti che scavavano nel cranio con urgenza, il palmo di Victor che gli cullava la testa nella tempesta. Un brivido corse da quel punto al resto della spina dorsale.
“Sei uno sciocco” si disse, ma aprì completamente il sacco a pelo e afferrò la giacca dell’uniforme. Si gettò anche il fucile in spalla, per prudenza. Scavalcò con cautela la forma addormentata di Phichit e uscì dalla tenda.
La bellezza del chiaro cielo stellato lo gelò sul posto. La mancanza di luce artificiale nel raggio di miglia sottolineava le stelle e la mezzaluna nello scuro cielo di mezzanotte, brillanti nella notte fredda. Un leggero alone circondava la luna, ammorbidendone i contorni.
Sarebbe stato più facile tornare a dormire - o almeno fingere di provarci - ma era come se una forza potente e invisibile lo stesse trascinando dove il suo subconscio desiderava essere: la tenda fronte alla sua, dove stava dormendo Victor.
Yuri si mosse con cautela alle spalle di Nekola e Leroy, impegnati col loro turno di guardia, e, prima che potesse anche solo rendersi conto di quanto stava facendo, entrò nella tenda di Victor.
Si chinò un poco sull’uomo addormentato. Una bolla di saliva tremava all’angolo della bocca, non ancora pronta a scoppiare. Yuri si accovacciò per essere più vicino a quel viso. C’era una ruga verticale tra gli occhi chiusi di Victor, appena sopra il naso. E poi altre linee agli angoli degli occhi e delle labbra, con l’età e la stanchezza che cominciavano a mostrarsi su un volto che presto avrebbe raggiunto i quaranta. Victor non era ancora tecnicamente vecchio, sicuramente non lo era se paragonati ad altri del suo stesso grado, ma non era più nemmeno giovane.
Nel sonno Victor aveva spinto un braccio fuori dal sacco a pelo e adesso lo teneva appoggiato a quasi novanta gradi sul suo ampio petto. La testa era voltata verso la destra e la sua frangia carezzava il suolo.
Yuri tenne le sue dita sospese in aria, solo un tocco di distanza dalla guancia pallida di Victor. Era il sottile spazio di un capello, un desiderio, una scommessa. L’uomo dei suoi sogni era lì, in carne e ossa, a dormire quasi con innocenza. Yuri sentì il respiro bloccarsi in gola. Arricciò le dita e lasciò che le sue nocche passassero lievi contro lo zigomo di Victor. Era un tocco di piuma, più pensiero che azione.
Victor mugugnò nel suo sonno, mormorando con voce impastata.
“Makkachin, fai il bravo, va’ a prendere la palla!”
Il nativo russo era pesane intorno alle sue parole, troppo confuse perché Yuri potesse capirle.
Yuri seppe di aver commesso un errore nel momento in cui compì il gesto. Non solo, era fottuto. Lo sapeva. Avrebbe dovuto sapere che l’azione avrebbe avuto chiare conseguenze; sapeva di non poter scappare. Sapeva che Victor non aveva fatto carriera nell’esercito limitandosi a essere bello e a spargere sorrisi smaglianti qua e là, soprattutto quando gli alti funzionari sovietici non lo avevano in simpatia.

Sapeva che Victor aveva più esperienza sul campo, più di lui senza dubbio. Insomma, seppe che il suo tocco avrebbe svegliato Victor una frazione di secondo prima che accadesse.
Yuri avrebbe potuto giurare di aver udito il rumore delle palpebre di Victor che si aprivano. Era il fruscio di una vela gonfiata dal vento marino, un frullio d’ali di farfalla. Ciglia d’argento batterono contro la pelle mentre Victor apriva gli occhi. Prima che Yuri potesse muoversi, il braccio che giaceva sul petto dell’uomo scattò in avanti e le dita del russo si chiusero intorno al polso di Yuri. In realtà non c’era alcuna rabbia nel gesto, solo sorpresa. Non era un ordine o una minaccia. Era una richiesta.
Yuri, però, era troppo nel panico per accorgersene.
Liberò il polso con uno strattone e cadde sul sedere, le mani dietro di lui. Gattonò all’indietro, non pensando nemmeno a rimettersi piedi; non ne aveva il tempo. Non riusciva a pensare con lucidità, l’imbarazzo che offuscava la razionalità. La sua mente vuota non poté nemmeno pensare a una scusa.
Uscì dalla tenda, pregando che Victor non lo seguisse. L’uomo non lo fece. Quando l’ingresso della tenda si aprì, Yuri trattenne il respiro, ma la figura era più piccola di Nikiforov.
“Oh, sei già sveglio. Ottimo! “ lo salutò Plisetsky.
Giusto, Yuri si ricordò all’improvviso, il turno di guardie guardia. Conficcò le unghie nel palmo per uscire in libertà dallo stato di trance in cui entrava sempre quando accadeva qualcosa di molto stressante; ed essere stato a un fiato da Victor Nikiforov era ben stressante per Yuri.

Pregò anche che non accadesse nulla nelle due ore della sua veglia, perché non si sarebbe mai perdonato se avesse abbassato la guardia perché troppo impegnato a riflettere su un comportamento avventato. Non voleva ripetere la stessa esperienza.
Ebbe fortuna.

La mattina successiva Victor lo salutò con un ampio sorriso, mentre sgranocchiava la colazione. “Dormito bene?” chiese e Yuri annuì, nonostante fosse ben lungi dalla verità. Non aveva chiuso occhio, nemmeno dopo il turn di guardia, troppo occupato rimuginare su quanto aveva fatto per abbandonarsi tra le braccia di Morfeo. Il fatto che Victor non tirasse fuori la questione non aiutava per niente.

Il quinto giorno rotolò via senza che accadesse nulla. Il paesaggio era cambiato molto poco, per quanto non ci fosse davvero il tempo di guardarsi attorno. E comunque un alto livello di attenzione per individuare possibili pericoli era sempre richiesto quando ci si trovava in territori nemici e di guerra. Behrooz si muoveva rapidamente e con facilità, nonostante l’anziano corpo. I suoi passi erano sicuri, il suo respiro stabile, e più di una volta aveva dovuto fermarsi per aspettare gli altri. Yuri suppose che indossare morbidi calzari al posto dei loro pesanti anfibi avesse alcuni vantaggi. Le suole lasciavano tracce nella polvere, che passi successivi o il vento presto cancellavano o confondevano.
Adesso l’area non era nulla se non un miscuglio monotono di ocra, arenaria e ruggine. Proprio davanti a loro le montagne, più altre di quelle che stavano attraversando, bloccavano l’orizzonte; era uno linea spezzata di picchi e ruvidi pinnacoli. Le lontane cime coperte di neve brillavano al sole.

Col tempo avevano cominciato a comprendere i vantaggi e le procedure più adatte per la straordinaria composizione della loro squadra. Se mai si imbattevano in un villaggio, o qualcosa di ancora più piccolo, poco importava da che parte fosse schierato. Si dividevano sempre e lasciavano che solo le persone giuste di volta in volta approcciassero i locali. Ciò rendeva tutto più facile, togliendo parte di un carico invisibile dalle loro spalle.
Avevano appena ricominciato la marcia dopo aver riempito le loro borracce, quando Emil si avvicinò a Michele, scambiandosi di posto con Georgi, e tentò di avviare una conversazione. Michele non era incline a parlare in quel momento, più interessate a risparmiare il fiato per le irte salite, con la bocca secca, la schiena curva sotto il peso dello zaino e le gambe che dolevano in una maniera così familiare da far male. Emil, tuttavia, come Michele aveva ormai notato, apparteneva alla stessa categoria di Phichit o Leo. Irradiava speranza, positività e felicità. Aveva una sorta di purezza interiore che nulla poteva macchiare e gli altri erano semplicemente costretti ad accettarla, come se il restare arrabbiati in sua presenza non fosse possibile.
L’inglese di Emil era appena passabile, e Michele sapeva che nemmeno il russo era la sua lingua madre, perciò la domanda fu ovvia: “Di dove sei?”
Così, una ridicola curiosità. Mentre aspettava l’eventuale risposta, Michele fu colpito dalla consapevolezza di quanto poco tempo avessero. Il tempo scivolava attraverso le dita come sabbia o acqua corrente; un orologio invisibile ticchettava, misurando ogni passo che facevano, ogni pausa, ogni ora persa. Non avevano il tempo di fermarsi più di quanto non fosse umanamente necessario - ed era già un lusso - se volevano trovare qualcuno vivo. Così, non avevano il tempo di costruire alcun tipo di rapporto. Erano sconosciuti, messi sulla stessa strada per caso, e sconosciuti sarebbero rimasti, le loro vie presto destinate e dividersi.

Ma, si disse, mentre osava lasciare cadere un po’ la guardia, si può chiedere a un estraneo da dove viene e dove sta andando.

“Praga!” fu la risposta di Emil. Seguì una filippica di cinque minuti su quanto bella e ricca la città fosse, sulla storia del suo famoso orologio e sulla bontà del suo cibo.
Michele aveva sentito parlare del non proprio fortunatissimo tentativo di liberarsi dal controllo della longa mano dell’URSS nel 1968 e di come il Paese stesse ancora soffrendo l’occupazione sovietica come punizione per il suo comportamento ribelle.
In realtà Emil non era esattamente di Praga, più di un piccolo villaggio nella area dominata dalla capitale; uno di quei posti che nessuno, oltre ai locali, conosce. Il nome sulla bocca di Emil era strano, duro di lettere sconosciute, e Michele riuscì a malapena a comprenderlo
La città natale di Emil fu una cosa che lo rese un po’ più simile a Michele; anche Michele ha avuto difficoltà a spiegare da dove veniva suo padre. Con il tempo aveva preso l’abitudine di dire “Napoli”, troppo stanco per spiegare ubicazione di un villaggio di venti anime.
Lo disse a Emil.

Michele non avrebbe saputo dire esattamente come o perché , ma a un certo punto la conversazione si spostò sulla folle - aggettivo cortesemente offerto da Michele nei suoi pensieri - passione di Nekola per quelli sport che andrebbero classificati sotto la categoria “tentato suicidio”.
Parlarono dei rispettivi paesi di origine, delle famiglie, di Sara e degli hobby. Appunto, hobby. L’hobby di Emil erano gli sport estremi. Parlò con entusiasmo della scarica di adrenalina data all’arrampicata libera o dall’ondata di pura gioia che quella sola esperienza di bungee-jumping gli aveva procurato. Michele scosse la testa, nel modo riservato a una persona le cui parole e le azioni erano al limite della pazzia, ma continuò lo stesso ad ascoltare. Aveva notato, in effetti, che ascoltare Emil parlare aveva il potere di alleviare un po’ la fatica sia dalla mente sia dal corpo. Per un attimo poteva dimenticare il dolore dei suoi arti, e sebbene non abbassasse mai del tutto la guardia, era più rilassato di quanto non fosse stato per giorni.
Emil aveva anche la passione per la fantascienza. Nominò autori di cui Michele non aveva mai sentito parlare. Un certo Ćapek era il suo preferito, insieme ad altri più famosi; Isaac Asimov primo fra tutti.

Si fermarono quando la luce scomparve completamente dal cielo. Era stata una giornata sorprendentemente tranquilla, una benedizione rispetto a ciò a cui erano abituati; l’atmosfera era più leggera del solito. Persino Plisetsky ne era influenzato e, anche se parlò a malapena con qualcuno che non fosse Otabek, afferrò le sue razioni e si sedette con gli altri. Solo Victor, stranamente, non sembrò disposto a indulgere in chiacchiere. Yuri si chiese se avesse qualcosa a che fare con quanto era successo la notte prima. Non ebbe tuttavia il coraggio di domandarglielo.

Con Victor ad avere il primo turno di guardia, Yuri trattene il fiato mentre tiravano a sorte per decidere le coppie. Quando il verdetto fu annunciato, ringraziò gli dèi in cui di solito non credeva. Si sentì solo un po’ colpevole, come una puntura, al triste sorriso di delusione che Victor gli rivolse
Quando si sedette per il suo turno di guardia, il viso di Victor era tornato ad avere un’espressione neutra e pensierosa. La sua apparente distrazione era solo una facciata, la mente sempre pronta anche se usava quel tempo per pensare; e continuò a farlo durante il sesto giorno di marcia.

Da soldato, Victor Nikiforov aveva spesso sentito parlare del fenomeno dell’arto fantasma. A volte si chiedeva se qualcosa di simile non accadesse anche con i capelli tagliati, perché c’erano momenti in cui poteva ancora sentirlo, il lieve solleticare dei capelli sulle guance quando erano più a lunghi. Poteva ancora sentire la pesantezza della sua spessa treccia d’argento che riposava tra le scapole. Ora era la sua treccia fantasma.
La scelta di lasciare crescere i capelli in maniera femminea era stata l’atto di ribellione più importante che il se stesso dodicenne aveva potuto escogitare. Ricordava perfettamente le notti trascorse all’addiaccio, dopo che la porta della casa gli era stata sbattuta in faccia. Quelle immagini erano impresse a fuoco nella memoria. Quando era fortunato c’era una vicina gentile a offrirgli ospitalità. La maggior parte del tempo, tuttavia, doveva lottare per rimanere sveglio e non congelare a morte, finché sua madre non aveva pietà di lui e lo lasciava rientrare. Altre volte trovava riparo a scuola.
Victor sopportava tutto per sfuggire a suo padre e a quelle forbici che sembravano voler tagliare la sua stessa anima. Ricordava tutti i nodi che aveva pettinato con le dita tremanti, mentre si raggomitolava per combattere il freddo.
In certe occasioni trascorreva l’intera giornata a scuola, dove un insegnante lo aveva preso sotto la propria ala protettrice. Alla fine, tuttavia, Victor era stato espulso. Quel giorno era uno di quelli che non voleva ricordare.
Sua madre lo aveva sempre difeso. Era piccola, un poco tozza, ma forte e dura come solo le donne nate in lande invernali sanno essere. Aveva visto la guerra, aveva combattuto nella Resistenza, ed era rimasta intrappolato in un matrimonio che si era rivelato completamente diverso da quello che aveva immaginato. Aveva scelto suo figlio su suo marito senza alcuna esitazione.
Alla fine il padre di Victor rinunciò, in un certo senso. Smise di inseguirlo con le forbici o di picchiarlo, ma non perse mai occasione per commentare tutti i difetti del ragazzo che riusciva a trovare. E poiché non erano molte le lacune di cui parlare, a parte una cattiva memoria, suo padre iniziò ad attaccarlo per altre cose. Lo chiamava debole, femminuccia. Frocio.

E quello che faceva più male era che gli insulti di suo padre avevano un fondamento.
A Victor piacevano le ragazze. Le trovava piacevoli, divertenti. Sapeva anche apprezzarne la grazia e la bellezza. Il suo, tuttavia, era un semplice apprezzamento estetico, nient’altro; lo stesso che avrebbe avuto con un bel fiore o una bella camicetta. Le rispettava profondamente, godeva della loro compagnia, amava chiacchierare con loro di tanto in tanto, ma non gli piaceva in quel senso.
Victor aveva quasi quattordici anni quando baciò un ragazzo per la prima volta e tutto divenne chiaro. Aveva da tempo dimenticato il nome dell’altro ragazzo, per colpa di una memoria che non era mai stata molto buona, ma ricordava il suo volto. Poteva ancora descrivere con accuratezza le guance paffute e chiazzate di rosso del ragazzo, i ricci capelli castani e i suoi occhi azzurro ghiaccio. Ricordava i fiocchi di neve che si fondevano intrappolati tra i ciuffi e sulle labbra del giovane.
Quel primo bacio segreto era stato l’unico. Era stato tuttavia sufficiente perché Victor capisse che le ragazze non avrebbero mai potuto attirarlo allo stesso modo dei maschi.
Due anni dopo aveva gettato alcune sue cose in una borsa ed era scappato via da casa, saltando sul primo treno per Leningrado. Sognava un futuro pieno di arte e di bellezza. La guerra era l’ultimo dei suoi programmi.
A Leningrado aveva conosciuto Georgi, con i suoi occhi tristi e le sue canzoni malinconiche. Avevano condiviso un piccolo appartamento per un po’, prima che Georgi si trasferisse da Anya. Era tornato alla fine, dopo una rottura piuttosto disastrosa. Nel frattempo, Victor aveva adottato un cane randagio per sentirsi meno solo. Fu intorno a quel periodo che conobbe Christophe Giacometti, un ragazzo svizzero con le idee non ancora chiare di cosa fare della sua vita. Anche lui era stato catturato dal fascino di Victor, solo per svilupparne uno egli stesso un paio di anni dopo.
Nonostante ciò che i suoi amici avevano pensato allora, Chris non era stata la sua prima volta; né Victor era stato il primo amante del ragazzo svizzero. Tuttavia avevano giaciuto insieme, con una facile accettazione. Era stato Chris, questo giovane sensuale e senza pudore, ad aiutarlo a accettare chi fosse. Come era nato. Allo stesso tempo Chris lo aveva anche messo in guardia, preoccupato per la sua sicurezza.
Victor aveva trascorso meno di un anno con Chris, ma era stato sufficiente per sviluppare una stretta amicizia, rinforzata dalle lettere che si erano scambiati negli anni successivi. Alla fine, tuttavia, avevano smesso. La posta di Victor veniva passata al setaccio e gli argomenti su cui potevano parlare divennero meno interessanti ogni anno. Aveva inviato una cartolina con gli auguri di Natale all’incirca quattro anni prima, e siccome aveva scordato l’usanza occidentale di festeggiare la ricorrenza il 25 Dicembre, l’aveva mandata in ritardo.
Scoprire che Chris era nella squadra che stavano cercando di salvare era stato uno shock che Victor aveva potuto mascherare solo grazie ad anni di pratica. Costrinse la sua mente a cambiare argomento prima di poter pensare agli scenari peggiori.

Il giorno prima aveva domandato al Tenente Altin quanto fossero distanti dalla loro meta finale. Non poteva essere ancora molto lontana, dato che Behrooz aveva raggiunto il campo sovietico correndo per circa cinque giorni; un risultato impressionante, pur considerando che l’uomo stava fuggendo in preda al panico per salvarsi la vita.
“Un giorno al massimo” era stata la risposta. Lo aveva soddisfatto. Li aveva soddisfatti tutti. Non erano lontani dal Gulestan.

Ora, tuttavia, stava diventando chiaro che avevano festeggiato troppo presto. Secondo Behrooz erano vicini a dove la squadra di Leo era incappata in un’imboscata. Eppure, mentre le ore passavano, nessuna traccia di recente attività umana poté essere trovata per rassicurarli. Il sentiero si era ristretto in un collo di bottiglia, chiuso da entrambi i lati da alte pareti rocciose. Invero, sembrava la posizione perfetta per una trappola, la fuga facilmente bloccata da entrambe le parti, specialmente per soldati non abituati al territorio. Quando uscirono finalmente dal passaggio, il piccolo spiazzo non li rassicurò affatto. Nonostante fosse vero che le pareti rocciose si erano abbassate per mostrare nuovamente il cielo, lo stretto sentiero si snodava tra alte rocce, dietro le quali un gruppo di uomini avrebbe potuto facilmente acquattarsi e attendere.
Tentarono di esaminare il terreno mentre camminavano, cercando tracce di ciò che era accaduto circa un paio di settimane prima; ma il tempo e il passaggio di animali selvatici avevano confuso quasi ogni cosa.

Behrooz suggerì che il Sergente De la Iglesia e i suoi uomini avevano forse trovare rifugio in una grotta non molto lontana, se erano sopravvissuti all’agguato come suggeriva la mancanza di cadaveri. Poi indicò un punto in cui la via si biforcava: un sentiero procedeva in salita verso un buco nella parete del monte. Yuri, Otabek e Leroy andarono ad indagare.
Là trovarono una radio rotta, alcune bende, tracce di sangue e un paio di sandali, di misura infantile. Chiunque fosse stato lì tuttavia, se ne era andato da tempo. Una volta ricongiuntisi col resto del gruppo, Yuri prese Phichit da parte. Rifletté sul fatto di rendere Behrooz partecipe di quanto stava per dire, ma alla fine optò per non farlo. Di certo anche il Tenente Altin si sarebbe avvicinato a loro e ciò che Yuri desiderava discutere con Phichit era classificato nella categoria “cose che i sovietici non dovrebbero sapere”. Neanche il mujaheddin sapeva, la spiegazione che aveva dato ai russi dopo che la sua cattura era stata sincera .
“Immagino che Leo abbia deciso di continuare” sussurrò Yuri a Phichit, muovendo appena le labbra. Phichit annuì leggermente con la testa per manifestare il proprio accordo. La storia secondo cui la squadra di Leo stava facendo una ricognizione per esaminare un villaggio era solo una parte della storia, una facciata. In realtà avrebbero dovuto testare le acque per un incontro con un importante uomo locale. Yuri non aveva dubbi che Leo avesse avuto tutte le intenzioni di completare la missione, anche quando si era trovato senza una guida del posto.
“Se si sono persi, sarà un miracolo ritrovarli” puntualizzò Phichit. Yuri scrollò le spalle.
“Supponiamo per ora che il senso dell’orientamento di Guang Hong sia abbastanza buono. Probabilmente hanno cercato di raggiungere da soli il villaggio” concluse. La sua voce, però, era densa di dubbio. Circa dieci giorni erano già passati dalla scomparsa di Leo e degli altri , senza che ci fosse stato un singolo tentativo di contattare la base. Se avevano davvero trovato il villaggio, perché non avevano cercato di comunicare o di tornare indietro? La radio rotta che avevano trovato un attimo prima chiariva parte dei dubbi di Yuri, ma non abbastanza per calmare il suo battito cardiaco.
“Inoltre, Behrooz ha detto che c’erano dei bambini coinvolti. Questo cambia tutto “.
Limitiamoci a supporre che siano vivi.

Di nuovo alla base della salita, l’intera squadra cominciò a discutere su cosa fare. Yuri espose la propria ipotesi, trovandosi quasi a pregare che gli altri ascoltassero. Più ci pensava, tuttavia, più possibilità produceva la sua mente, ed era terribilmente difficile scegliere una invece di un’altra.
“Hai spiegato un po’ la strada per gli uomini che avresti dovuto guidare?” chiese Victor a Behrooz, sorprendentemente in inglese senza chiedere l’intervento di Altin. L’uomo socchiuse gli occhi e mormorò qualche parola, ma alla fine annuì. “Un po’”
“Ottimo. Sembra chiaro che qualunque cosa ci aspettavamo di trovare non è qui. Andremo al villaggio che il Sergente de la Iglesia avrebbe dovuto raggiungere. Se non li troviamo lì o sulla strada, ciò mette termine la missione” concluse

Ripresero la marcia subito dopo. Camminando, Michele inciampò nei suoi stessi piedi. Incolpò la sua stanchezza. L’ultimo evento imprevisto aveva solo peggiorato le cose. Emil, che procedeva davanti a lui, si fermò per offrirgli una mano. Michele l’accettò, arrivando a ricambiare il sorriso dell’altro.
“Sai, stavo pensando che, forse, potrei venire a Praga qualche volta” esordì, ricordando con quanto entusiasmo Emil ne avesse parlato.

“Sì, sarebbe ...”

“Fantastico” concluse Michele nella sua mente. Ma le parole non lasciarono mai la bocca di Emil. Si fermarono su quell’ultima sillaba, le labbra ancora torte in preparazione di una frase che il giovane non avrebbe mai avuto la possibilità di completare. Rimase in piedi, gli occhi sgranati per la sorpresa; non ebbe nemmeno tempo di comprendere cosa fosse accaduto prima che la gravità arrivasse a tirarlo giù. Cadde in avanti con un solo, brusco movimento, con gli occhi spalancati, le labbra aperte, la tempia rovinata da un sanguinante foro di proiettile.

Note
Welcome naughty children, it’s murder time.

Avevo avvisato che il capitolo 6 sarebbe stato il giro di boa ed eccoci qua. Certo la tensione non rimarrà sempre alta per tutti i capitoli 7-12, ma presi nel loro complesso saranno pieni di feels (o almeno questo sarebbe l’obiettivo).
Il titolo è tratto da Wait for it dal musical Hamilton.
“La morte non discrimina tra santi e peccatori. Lei prende, prende, e prende. E noi continuiamo lo stesso a vivere.”

Nel prossimo episodio: La squadra di Leo è stata dispersa da un agguato. Ora la situazione rischia di ripetersi e per Yuri l’esperienza potrebbe risvegliare brutti ricordi. Plisetsky riflette ancora sul suo passato. E Michele continua a ripetere di stare bene.

   
 
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