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Autore: Guido    06/07/2017    2 recensioni
Un anno dopo la fine della Seconda Guerra, Hogwarts riapre i battenti su un Mondo Magico molto cambiato e molto insicuro, dove anche la pace appena conquistata non sembra destinata a durare. Quale destino attende i giovani allievi, i professori vecchi e nuovi, dentro e fuori la Scuola? E la nuova guerra, se scoppierà, sarà sempre tra maghi, oppure... contro i Babbani? Domande molto pressanti per Draco Malfoy, improvvisamente catapultato sulla cattedra di Difesa, e anche per qualcuno che, di nascosto, tenta di rintracciare un Harry Potter svanito nel nulla ormai da anni...
(NOTA: ho cominciato a scrivere la storia prima che uscisse "I Doni della Morte", l'esito della guerra è stato molto diverso, ma scoprirete i dettagli principali già nel primo capitolo. OOC per il personaggio di Draco, del resto la serie è incentrata proprio sulla sua evoluzione)
Genere: Angst, Azione, Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Draco Malfoy
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Da Mangiamorte a...'
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Il funerale di Caramell



Il funerale di Caramell



Ringraziamenti:
su questo cap. mi sono arrovellato fin da quando ho cominciato a scrivere la storia. Da mera digressione, esso si è via via trasformato in uno snodo importante della trama e, così, la mia
impasse ha finito per bloccare l'intera fic. Forse dovevano proprio passare dieci anni, perché potessi tornare a lavorarci in maniera nuova, più tranquilla e distaccata. Ma comunque, non è senza trepidazione che lo presento al giudizio del pubblico.
E adesso, i recensori, che hanno tutto il diritto di maledirmi per il decennio di attesa...
Mariademolay: hai ragione sulle controindicazioni genetiche, ma diciamolo, il semplice fatto che la
limpieza de sangre venga valutata secondo la quarter rule e non la one-drop rule dice tutto sul fatto che, gratta gratta, nessuno ha il sangue veramente “puro”. Soprattutto, nel frattempo è uscita la pagine “Pure-Blood” di Pottermore, che ci dice che i Potter – quantomeno in passato – hanno sposato Babbani (!) e che non fanno parte delle cc.dd. “Sacred Twenty-Eight”, quindi già il matrimonio di Dorea andrebbe considerato sospetto. Per contro, e scusa se divago un momento, mi sembra lecito chiedersi quanto sia reale il cambiamento post-Seconda Guerra, dato che l'elenco dei cognomi geneticamente irreprensibili comprende anche gli Shacklebolt. Va bene l'aristocrazia illuminata, ci mancherebbe, ma quanto sono salde le reti relazionali tra Purosangue? Parecchio, ci scommetterei. Castelli, forzieri alla Gringott, secondo me anche trust magici in stile maggiorascato, per preservare l'unità del patrimonio tra le generazioni... e poi, tutti parenti, cugini e cognati, in un mondo che già è piccolo di suo.
Sì, il “What if...?” ci starebbe tutto, e naturalmente ho introdotto queste lettere perché Draco scopra un risvolto del passato di sua madre che gli era completamente ignoto... solo che nel frattempo l'ho dimenticato anch'io! E così, me lo dovrò reinventare. Magari salterà fuori una storia a sé, anche se preferirei finire quelle già cominciate (sarebbe l'ora, me lo dico da solo!).
Che sta combinando Lucius? Be', si vede che il “piccolo mondo antico” con le bacchette gli dà un senso di claustrofobia, vuole allargarsi e non si accontenta di ridurre in schiavitù i Babbani, come Grindelwald a suo tempo. Il suo problema, quando si tratta di lanciare una guerra di conquista, è che i Maghi non sono mai stati numerosissimi, ma due guerre in così poco tempo li hanno proprio falcidiati. E quindi, deve provarle tutte per infoltire i ranghi, anche tentare esperimenti folli come quelli sulla reversibilità del Bacio. Sì, credo si sia visto che l'idea di una “resurrezione” di Crouch lo ha preoccupato alquanto... ma, verosimilmente, ha autorizzato, a suo tempo, l'impiego come cavie umane di tutte le vittime dei Dissennatori, in massa: non ha pensato a nessun nome in particolare e certo non gli è venuto in mente che, tra tutti, proprio Barty Crouch dovesse dimostrarsi il più reattivo. Al momento, più che all'Avada precauzionale, sta pensando alla soluzione di Davide con Uria (anche se non credo che ragioni in termini di analogie bibliche).
Sabry: no, Lucius non perde tempo davvero, del resto comincia a sentirsi impaziente, dopo un anno e mezzo di preparativi. Pensi davvero che il mio sia migliore di quello della Row? Non sono degno... anche se certo, gli errori cretini durante la Battaglia ci sono stati eccome! Ma, secondo me, in parte ha imparato dall'esperienza, in parte ragiona meglio ora che non deve più fare i conti con la pazzia omicida di Voldemort, in parte dev'essere più facile governare il Mondo Magico postbellico che fare il comandante in seconda di una pattuglia di Mangiamorte, che mi dan tanto l'idea di vivere all'insegna del motto “Ognun per sé e Avada Kedavra per tutti”. Povero Lucius, quante volte deve essersi detto “Potrei conquistare il mondo con questi Maghi... se solo riuscissi a far puntare tutte le bacchette nella stessa direzione!”.
Comunque, gli sviluppi ci saranno. Presto.
Ne vedrete qualcuno già qui. Minore, magari... ma è questione di opinioni.

Try now we can only lose
And our love become a funeral pyre
.

[J.M., Light My Fire]



A Londra, sulla soglia della piccola chiesa di Nostra Signora della Vittoria, il parroco, don James Mowett, F.S.S.P., scrutava corrucciato il mattino londinese, a dire il vero non più uggioso del solito, ma fin troppo intonato ai suoi paramenti neri. Anche la statua di San Michele, che sorvegliava l'ingresso, appariva scura in volto, sotto quel cielo velato, come se neppure l'Arcangelo psicagogo gradisse attendere un defunto in modo tanto irrituale.
Irrituale e imposto.
Don James, di norma, guidava i cortei funebri fin dalla camera ardente, facendo pregare i dolenti lungo tutto il percorso, come Santa Madre Chiesa comanda. E sapeva bene quanto ci avrebbe tenuto questo defunto in particolare, così attento alle regole, tanto sensibile al fascino della Liturgia.
Sospirò. A Caramell sarebbero mancati il De Profundis, il Miserere, la processione che accompagna il feretro all’interno della chiesa... Purtroppo, la famiglia si era opposta recisamente alla sola idea: secondo loro, era già abbastanza disdicevole che il loro congiunto ricevesse un funerale Babbano; non intendevano “mettere in piazza una simile vergogna”. Il nipote, Rufus, si era espresso proprio così e don James, pur abituato ad incontrare ostilità verso i cattolici, tanto più se tradizionalisti, non aveva potuto fare a meno di sentirsi ferito.
D’altra parte, non aveva mai sperimentato sulla propria pelle il razzismo. Fino a due anni prima, non conosceva neppure il termine “Babbano”: l'aveva appreso proprio dal fu Cornelius Oswald Caramell, alla sua prima Confessione.
Ricordava perfettamente il suo tono di voce, esitante, venato di ansia contenuta a stento: “Padre, io sono un Mago”.
Nessuna risposta dall’interno del confessionale; solo un silenzio esterrefatto.
Non mi crede, vero? Be’, non so darLe torto. E’ sempre così, con i Babbani…”
E, ben presto, don James aveva dovuto ammettere che quella personcina anzianotta, in apparenza insignificante, diceva la verità.
Dirigere la sua anima non era certo stato facile. Povero Caramell, così tormentato dai rimorsi, così preoccupato per il Mondo Magico e per la sorte dei Babbani… Anzi, a dire il vero si sentiva responsabile della sorte di tutti quanti, nonché colpevole di ogni minimo guaio degli ultimi vent’anni o giù di lì.
Era sorprendente che un animo tanto provato avesse retto così a lungo, fino all’ultimo colpo: la morte della moglie. Tre mesi prima, un Cornelius taciturno gli aveva riferito la notizia, in tono quasi privo di emozione: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore."
Da allora, non l'aveva più visto. Era passato più volte a casa sua, ma senza trovare mai nessuno.
E adesso, il Signore aveva chiamato a sé questo Giobbe del Mondo Magico. Sazio di giorni, e di giorni amari. Abbandonato da tutti quelli che si erano proclamati suoi amici, nei giorni della gloria…
Ci sarebbe stato qualcuno, oltre ai parenti più stretti, presenti solo per dovere d'ufficio? Difficile: quella cerimonia scandalosa era una vergogna da non mettere in piazza, giusto?
Si riscosse: lupus in fabula. In fondo alla piccola piazza era comparso un corteo sparuto e variopinto, con una bara in testa.
E' già un miracolo che ci sia una bara, anziché un sudario...
Don James si affrettò a rientrare in sacrestia; passando, gettò uno sguardo alla navata, pressoché deserta – Caramell non aveva legato granché con gli altri parrocchiani - e vide i cantori in talare e cotta, già seduti ai loro posti, pronti a intonare, con la consueta maestria, i venerabili neumi della Missa Defunctorum in die obitus seu depositionis.
I chierichetti lo attendevano, un poco sconcertati di vederlo già parato.
«Tutto a posto, il feretro sta arrivando. Ah, Samuel, non hai preparato il turibolo, vero?»
«No, Reverendo.» Il più grande dei due ragazzi arrossì; un cenno di don James lo bloccò un attimo prima che si precipitasse a rimediare.
«La fretta non è mai decorosa, Samuel. I movimenti di chi serve all’altare devono essere…?»
«Composti e simultanei» risposero i ragazzi all’unisono.
«Esatto. E poi, il turibolo non serve: non si fa l’assoluzione al tumulo.» E meno male: Samuel non era un turiferario molto in gamba. D’altra parte, Daniel era troppo piccolo per quella mansione… e nessuno dei due era stato addestrato abbastanza a lungo.
Colpa sua, naturalmente: con Duncan si era abituato troppo bene. Un chierichetto modello, suo nipote, tanto che lo zio Sacerdote aveva accantonato il problema di reclutarne altri, come se non dovessero mai essere necessari. Invece, il tempo se n'era volato via: Duncan Mowett era partito per la scuola… e che Scuola!
Ormai, era entrato nel mondo di Caramell.
Il mondo dei Maghi.
Cornelius, figlio mio, amico mio, non ho fatto in tempo a parlartene. Cosa ne diresti, se fossi qui? Saresti preoccupato per lui come lo sono io?
E di colpo, senza ragione apparente, avvertì un brivido di paura.
Per scacciarlo, si concentrò sui due chierichetti. Perlomeno, figuravano bene in talare e cotta.
Si voltò verso la Croce e notò, con piacere, che i ragazzi lo imitavano senza esitazione. A Dio piacendo, la Messa sarebbe stata servita in modo decoroso.
«Reverentia Cruci» ordinò.
Si inchinarono tutti e tre, con una sincronia che lo stupì.
Forse avrebbe potuto trasformarli nei degni eredi di Duncan.
Si raddrizzò; stavolta i ragazzi persero una frazione di secondo. Pazienza.
«Procedamus in pace.»


Ricadendo in un riflesso condizionato duro a morire, la sua mente abbozzò una rapida descrizione della scena: entrava il feretro, che apriva il corteo, portato a spalla da quattro Maghi, Rufus Caramell in testa. Bara di legno chiaro, molto semplice, senza intagli né decorazioni di sorta. Portatori quasi frettolosi. E all'interno, in attesa, quel poggia-bare – o comunque si chiamasse – così lugubre, ricoperto di velluto nero, con quattro candele gialle ai lati…
Poteva essere un buon attacco per un pezzo scandalistico? Dallo sconcerto per il rituale Babbano si poteva passare alla sensazione? O anche la soffiata che l'aveva condotta fin lì si sarebbe aggiunta all'elenco dei suoi giri a vuoto, che stava diventando interminabile?
L'esordio dei cantori interruppe le sue riflessioni:

Subvenite, Sancti Dei,
Occurrite, Angeli Domini…


Automaticamente, i suoi occhi corsero all'opuscoletto preso nell’ingresso (Ah, i vantaggi di arrivare in anticipo!); trovò subito il testo e si mise a seguire il canto.
Se la traduzione gli rendeva giustizia, l’inno era davvero toccante; metà del suo cervello reagì comportandosi come una Penna Prendiappunti, mentre l’altra metà riprendeva a studiare il corteo, quei pochi Maghi che, adesso, prendevano posto nei banchi.
Ai suoi occhi, il loro aspetto appariva perfettamente normale... considerato che si erano travestiti da Babbani. Ma, a giudicare dalle loro occhiatacce, i Babbani veri non pensavano che poncho, sombrero e camicie da notte fossero indumenti adatti a un funerale.
Non che questo facesse sensazione. A chi importava dell'etichetta Babbana?
Aguzzò gli occhi, cercando di riconoscere i presenti nonostante quell'abbigliamento insolito, che sembrava studiato apposta per celare i lineamenti dei partecipanti. (Niente di più facile, in effetti)
Sussultò.
Lui qui!?
Come aveva fatto a non notarlo prima? In mezzo a quel drappello di Maghi camuffati, spiccava come… come un’Avada Kedavra.
Paragone più che azzeccato, visto il personaggio.
Si era vestito da Mago. In una chiesa Babbana!
Ah! Ecco lo scandalo!
Violazione dello Statuto di Segretezza... Le prudevano già le dita.
Ma, osservandolo meglio, dovette riconoscere che l’ampio mantello era molto più sobrio e discreto di tanti travestimenti… incluso il suo.
Eppure, le era piaciuto al primo sguardo quel... come si chiamava? Ah sì, “pareo”. Color magenta con gallonatura verde acido: i suoi colori preferiti!
Notando che tutti erano già ai loro posti, si infilò nello stesso banco - più o meno a metà dell'edificio - scelto dall'uomo col mantello: era il più vicino e offriva senz'altro la compagnia più interessante.
Questi, guardandola fissa, posò sul banco, accanto al libretto dei testi, la bombetta che teneva in mano; per quanto non le andasse affatto di posare il suo cappello a cucù – tendeva a cantare fuori orario, se non lo teneva in testa – pensò bene di imitarlo. E, per buona misura, lanciò sul copricapo un Incantesimo Tacitante: hai visto mai...
In quella, si udì un tocco di campana; il suo vicino di banco non ebbe bisogno di consultare il libretto per inginocchiarsi.
La metà Prendiappunti del suo cervello, ormai, stava sfornando un vero componimento. Ma lo scoop restava ancora fuori portata.


Mentre entrava in presbiterio, preceduto dai chierichetti, don James si sentì un po’ sollevato: il Subvenite, a stretto rigor di rito, non faceva parte della Messa esequiale; Cornelius avrebbe avuto almeno il conforto di un canto proprio dell’accompagnamento alla chiesa, quel rituale non sarebbe stato omesso del tutto.
Cornelius, figlio mio, amico mio, perdonami se non ho potuto far rispettare appieno le tue volontà. Questo non è tutto quello che avresti voluto. Ma è tutto quello che sono riuscito ad ottenere.
Neanche la sepoltura in terra consacrata
... Quello gli bruciava di più. Molto più di un funerale con qualche parte accessoria in meno.
Si era offerto di consacrare almeno il luogo dove sarebbe stata inumata la salma... niente. Anzi, solo risate di scherno.
Mentre l'inno terminava, vide, con la coda dell’occhio, che, deposto il feretro, i portatori sciamavano verso i primi banchi, già occupati da altri personaggi – parenti e amici, supponeva – il cui abbigliamento riuscì a sbalordirlo. (E viveva a Londra!)
Ma non perse un colpo: si voltò e controllò la posizione dei due chierichetti. Perfetta.
Con la regolarità dei metronomi, genuflessero tutti insieme al Santissimo Sacramento; quindi si rialzò, mentre i ragazzi si ponevano in ginocchio ai suoi lati.
«In Nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.»
«Amen.»
«Introibo ad altare Dei.»
«Ad Deum qui laetificat iuventutem meam.» Qualche voce dai banchi si unì alle risposte. Il Coro, per il momento, taceva: avrebbero eseguito l’Introito più avanti, visto che i sussidi distribuiti in chiesa erano pensati per la Messa letta.
«Adiutorium nostrum in Nomine Domini.» Segno di Croce in sincronia, il gesto della mano spartito secondo le parole.
«Qui fecit caelum et terram.»
Don James si perse nella maestà della Liturgia.


Pur incuriosita – molto incuriosita - dall’uomo al suo fianco, la donna si scoprì a seguire, affascinata, quello stranissimo scambio di battute. Ai funerali cui era abituata, la sola idea di recitar formule prefissate dando le spalle al proprio pubblico sarebbe parsa a dir poco assurda: dopotutto, la gente veniva per sentire un bel discorso e poco altro. Oh, certo, esistevano canovacci e repertori di luoghi comuni... ma questa era tutta un'altra cosa.
Quei tre tizi, così ieratici negli abiti e nelle movenze (tanto più impressionanti nei due ragazzini, poi!), non erano lì per loro. Era chiaro come il sole che avrebbero compiuto il proprio dovere con cura identica e nell'identico modo anche se la chiesa fosse stata del tutto deserta. Come se stessero facendo qualcosa di più importante: tutto il loro contegno lo suggeriva.
Dunque, perché, o per chi, questo scandir frasi in una lingua misteriosa?
Non potevano certo credere che si trattasse di un Incantesimo!
A beneficio di chi, poi? Del morto?!
Mah! Non era neanche detto. Di lui, dopotutto, non si parlava nemmeno di sfuggita...
Cosa stavano recitando, adesso?
Scorse la traduzione: «Confesso a Dio Onnipotente, alla Beata Maria sempre Vergine…»
Ah, quindi parlavano a qualche Entità invisibile, ben più importante di tutti i mortali presenti. Sembrava una cosa del tipo “Mi rimetto alla clemenza della Corte”... Anzi, no. “Io ne ho fatte di cotte e di crude, quindi raccomando Tizio alla clemenza della Corte”. E Tizio - ciascuno dei Tizi presenti - ricambia il favore.
Boh!
L’uomo alla sua destra stava recitando quelle formule con particolare fervore.
La metà Prendiappunti del suo cervello aggiunse un altro punto interrogativo all’enigma. Un punto interrogativo bello grosso.
Niente scandalo, no, forse no... Magari un'inchiesta, però. Sul rituale Babbano, sul suo compagno di banco, o su entrambi.
Poteva anche andare.
«Indulgentiam, absolutionem et remissionem peccatorum nostrorum tribuat nobis Omnipotens et Misericors Dominus.» Ah, allora quella crocetta nel testo indicava un gesto ben preciso. Sembrava un po’ complicato, doveva vederglielo rifare.
«Amen.» Stavolta si unì alla risposta, semplicemente perché l'aveva sott'occhio.
Non notò la fuggevole occhiata in tralice dell’uomo al suo fianco.


A capo scoperto, ma ben avvolto nell’ampio mantello da Mago, sperimentava quelle stilettate improvvise che soltanto i ricordi sanno infliggere, allorché filtrano o erompono da compartimenti che credevamo stagni. Ricordi carichi d'anni, eppur tanto gravidi di emozioni che sembra d'essere tornati a quel preciso momento...
...Sull'altare, a servir Messa. In ginocchio, accanto al Sacerdote. L'orgoglio di aver imparato subito a rispondere. La mamma, fiera, che ti osserva – non la vedi, ma lo sai – da un banco in fondo. La compostezza di gesti e postura, perché ci si trova alla Presenza del Signore.
La Croce dorata che quasi ti fissa dal centro dell'Altare, le candele accese, muto invito a consumarsi nella preghiera...

Come fosse ieri. E invece...
Cos'era successo? In quale momento - lungo il corso degli anni, delle vicissitudini, del dolore – si era perso quel bambino?
Quando, dove, perché il Dio che pregava fino alle lacrime l'aveva abbandonato?
Lacrime...
Aveva smesso di piangere molto prima di cominciare a uccidere.
La mamma, aveva pianto per la mamma? Forse no. Forse quella sorgente era già asciutta allora. Inaridita ben prima che le candele di cera vergine, il velluto nero del catafalco, l'incenso e – al termine dell'ordalia – la tremenda bellezza del Libera Me, Domine si portassero via quell'adolescente superficiale e spensierato, che non sapeva piangere e da troppo tempo aveva dimenticato come pregare.
Il bambino che conosceva i segreti della preghiera e delle lacrime era entrato a Hogwarts.
Il bambino nato Babbano s'era perso nell'aula di Difesa.
Oh, certo, era tornato a casa per le vacanze e, la Domenica, eccolo di nuovo a Messa, per accompagnar la mamma; ma non aveva più servito all'Altare. Non che ci fosse stato un motivo particolare: semplicemente, aveva la testa da un'altra parte. Distratto da tante cose, affascinato dai mille segreti della Magia... e tutto preso dal sogno di diventare un Auror. Il migliore degli Auror. Un sogno mille volte più affascinante di qualunque rituale Babbano, anzi, di tutto quel mondo che si era lasciato alle spalle.
E allora perché, dopo che aveva coronato quel sogno e dopo decenni interi di lontananza, sembrava che non fosse trascorso neppure un giorno? Perché la Liturgia tornava a parlare al suo cuore come se fosse sempre rimasto il bambino felice, tutto fiero di inginocchiarsi ai piedi dell'Altar Maggiore?
Quel bambino che scoppiava in lacrime al minimo sospetto d'aver offeso Gesù... cos'avrebbe mai fatto, se avesse previsto che sarebbe diventato un assassino di professione? E il ragazzo spensierato? Avrebbe fatto altre scelte, se avesse saputo che diventare il migliore degli Auror significava questo?
Se avesse visto – se soltanto avesse visto! – dove conducono e come sfumano i sogni di gloria, le grandi speranze...
Il Confiteor del celebrante giunse come il colpo che fa crollare una diga: d'un tratto, doveva lottare contro un groppo che gli serrava la gola, gli bruciavano gli occhi...
Per sua madre non aveva versata una sola lacrima, prima inebetito dallo shock, poi... congelato. Un blocco di ghiaccio che non s'era sciolto né incrinato, mai; neppure quando un profumo, un fiore, un bel voto, una sciocchezzuola qualsiasi gliela riportava alla mente d'un tratto, facendogli sentire tutto il peso dell'assenza, del vuoto incolmabile... No, neppure allora.
Ma adesso, oh, quanto avrebbe pianto volentieri per sé stesso!
Si odiò per una simile manifestazione di egoismo; eppure... Eppure, non aveva forse ragioni sufficienti per piangere? Ne aveva da vendere! Sogni sfumati, no, peggio: sogni realizzati che ti lasciano l'amaro in bocca. Una vita che sembrava sempre più sprecata, ad ogni giorno che passava. E morti, tanti morti sulla coscienza...
Si aggrappò al Confiteor dei fedeli come ad una zattera nella tempesta, cercando un punto d'appoggio nell'oggettività della Liturgia, nel velo che offriva al pudore dell'anima; riuscì, almeno, a recitar la formula senza che la voce cedesse al tumulto interiore.
Si unì di cuore al Sacerdote che invocava il perdono divino; l'antica abitudine, riaffiorata insieme con il torrente dei ricordi, guidò la mano nel segno di Croce, in sincronia con le parole dell'Indulgentiam.
Una vita in rovina. E ora, questo stupore inatteso. La scoperta di un vuoto profondo nel cuore: come aveva fatto a non accorgersene mai, a trascinarselo dietro inavvertito per anni e anni?
Era soltanto la delusione di un vecchio finito che lo portava a riscoprire Dio? A pensare di aver sbagliato tutto proprio perché si era dimenticato di Lui?
Oppure era possibile che Dio, nonostante tutto, lo stesse cercando, che davvero, attraverso i ricordi, le formule, le cerimonie, gli stesse parlando? Proprio a lui?
Trattenere le lacrime si stava rivelando difficile.
Dov’eri, Signore? Dove sei stato, in tutti questi anni?
E quasi sobbalzò:
«Dominus vobiscum» parve rispondergli il celebrante.
«Et cum Spiritu tuo» ribatté automaticamente. E poi comprese.
Ma certo! Dio non si era allontanato mai.
Coincidenze come quella erano la Sua firma, il Suo messaggio in codice. Un codice chiarissimo per i bambini, ma nascosto in eterno ai sapienti di questo mondo.
Perdonami, Signore. Interrogo, quasi accuso Te, quando mi sono allontanato io
La pausa di silenzio dopo l’Oremus gli consentì di immergersi nel colloquio con Dio, ripreso con tanta naturalezza. Come se veramente tutti quei decenni di lontananza non contassero più di qualche ora, o fossero soltanto una buona ragione per sentirsi dire: Bentornato!


Sempre più sconcertata, ma avvinta quasi suo malgrado, la donna osservò quell’uomo alto, rivestito di bianco e nero con galloni dorati, incedere sui gradini – era il solo verbo adatto: incedere – e baciare l’altare.
Il silenzio le parve denso di significati, quasi più delle parole stesse. Qualcosa di cui il Mondo Magico non aveva né esperienza né memoria.
La magia del silenzio.
Neanche gli Incantesimi non verbali vi si avvicinavano.
La voce del Sacerdote la riscosse da quella riflessione per immergerla in una magia diversa, intonando poche note semplici, ma capaci di suscitare profondi brividi.
«Requiem…»


E il Coro si unì al celebrante nel canto dell’Introito.
«…aeternam dona eis, Domine…».
Cornelius, ovunque tu sia, spero che tutto questo ti serva, spero che tu adesso stia meglio.
Stavolta pregò e fu consapevole di pregare. Consapevole e, in un modo bizzarro, felice. Poteva fare di quel canto la propria preghiera, poteva scoprire, nella semplicità, quasi nell’astrattezza di quelle formule e melodie, ciò che era sempre mancato a tutti i suoi addii da Mago.
Riposa in pace, Cornelius. Qualunque cosa significhi, riposa in pace. Hai sofferto abbastanza.
Tutti noi abbiamo sofferto abbastanza.

Dovette frenare le lacrime, frenare la marea improvvisa dei ricordi.
La marea del dolore.
Ad Te omnis caro veniet, “A Te giungerà ogni creatura”. Quanto era vero! Quanti, quanti morti… e quanti sbagli…
Quanto c'era da pregare che alla fine, nella Giustizia o nel Perdono, tutto trovasse un senso!
Un senso per i morti, un senso per gli errori…
Quanti peccati. Quanto sangue.
Ho perso il conto degli uomini che ho ucciso…
Forse non avevo scelta, ma a che è servito? Ne è valsa la pena? Essere giudice e carnefice, eroe e vittima?
Anni interi a combattere, soffrire, massacrare, odiare… per cosa?
Per tornare,
sempre, a combattere e odiare.
Alla fine, tutto si riduceva a questo... e una distesa di tombe.

Solo uno dei suoi occhi poteva ancora versare lacrime, ma pareva che ne contenesse per due.
L’uomo sfogò il proprio strazio ripetendo l’invocazione del Sacerdote: «Kyrie, eléison!» “Abbi pietà, Signore!”.
Tre volte tre… i nove cori degli Angeli… Ricordi vaghi, che significavano soltanto: “Non sei solo”.
"Non sei solo ad affrontare il dolore, la morte. Soprattutto, non sei da solo quando affronti te stesso, quando sei costretto a guardarti dentro e a scoprire tutti i tuoi errori, uno per uno, parevano cose giuste e invece son disastri.
Non sei solo.
Io sono con te.”

Di nuovo il silenzio. La pace dell’abbraccio invisibile.
Una pace che richiedeva attenzione: era il momento della lettura.


Cominciavano a farle male le ginocchia: non erano affatto abituate a quella posizione. Meno male che, adesso, il foglietto indicava che poteva sedere!
Sgranò gli occhi: il brano, lo stesso che il Sacerdote stava leggendo in Latino, con voce convinta e commossa, sembrava scritto apposta per rispondere a tante sue domande.
Fratelli, non vogliamo che restiate nell’ignoranza riguardo a coloro che dormono, affinché non vi rattristiate nello stesso modo degli altri, che non hanno la Speranza.”
Speranza. Un vocabolo quasi beffardo, se applicato alla realtà della Morte, a quel Mai più che ogni giorno, ogni memoria, ogni foglia che cade rende più definitivo. Troppo definitivo perché resti qualcosa di simile alla Speranza. E con la maiuscola, per di più!
Però, a pensarci bene, forse era una maiuscola meritata: poteva trattarsi soltanto di qualcosa di soprannaturale. I fantasmi, certo, dimostravano che qualcosa esisteva anche dopo; ma vivevano una pallida imitazione della propria esistenza trascorsa, niente di più.
Cosa succedeva, invece, ai tanti che non restavano indietro?
Nessuno l'aveva mai scoperto. Nessuno. Mai.
“Perciò consolatevi l’un l’altro con queste parole”.
Sembrava così semplice


L’uomo lottava con questa stessa semplicità, quasi banale, o forse irridente, di fronte ai fiumi di sangue che aveva versati. Valeva anche per le sue vittime, questa Speranza? Per quanti sapevano poco o nulla della vera Religione?
Valeva anche per lui? C’era la risurrezione, d’accordo; ma c’era anche il perdono?
«…In memoria aeterna erit justus: ab auditione mala non timebit,» gli suggerì, in tono di salmo, il canto del Graduale. Poteva aspirare alla qualifica di “giusto”? L’istintiva ripugnanza per l’omicidio – mai venuta meno, neanche quando la guerra era stata veramente dura – l’aveva trattenuto dagli eccessi di tanti suoi colleghi, questo sì; ma poteva bastare? Poteva contare qualcosa?
Signore, aiutami Tu; solo Tu puoi darmi una seconda possibilità, permettermi di riparare, in qualche modo…
Ancora una volta, la risposta giunse dalla Liturgia, dall’implorazione del Tratto, così composta e tuttavia struggente:
«Et gratia tua illis succurrente…»
Ma certo! Come aveva potuto dimenticare? La Grazia: la mano tesa di Dio. La Mano che ti aiuta a rialzarti, non importa quante volte tu possa cadere e ricadere, basta che la cerchi.
Quante volte mi hai cercato, Signore? Quante, mentre io ero distratto, completamente preso da una vita senza di Te?
Quante volte avresti voluto che Ti cercassi?
E quante volte, senza neppure saperlo, lo avrei voluto anch’io? Quante tristezze e malinconie, nelle mie notti sempre all'erta, erano dovute alla Tua mancanza?
E come hai fatto, adesso, a portarmi qui, proprio oggi? A bussare al mio cuore, che mi sembra non abbia neppure più una porta…?



Don James, all’altare, intonò la Sequenza. Un gioco di quattro note la cui semplicità incantava i compositori da secoli interi.
«Dies irae, dies illa…»
Cantò la prima strofa, poi, mentre il Coro riprendeva la melodia («Quantus tremor...»), scese, genuflesse insieme con i chierichetti e si portarono al lato dell’Epistola, dove si trovavano gli sgabelli. Sedettero giusto in tempo per intonare la terza strofa.
Con il campo visivo sgombro da qualsiasi possibile fonte di distrazione, don James meditò la nuda severità del testo, vide come, a poco a poco, l'autore si schiudesse alla realtà di un Amore più forte della Morte e, trepidante, vi cercasse rifugio. Sperava con tutto sé stesso che Cornelius – cui la morte improvvisa, la più pericolosa di tutte, non aveva consentito di ricevere gli ultimi Sacramenti – avesse fatto altrettanto, nell’ultimo istante utile; che i rimorsi non l’avessero trascinato alla disperazione finale, così comprensibile, umanamente parlando, ma anche irredimibile, nella superba Negazione della Misericordia…
Le sue pupille si affissero sul catino absidale, al cui centro l’augusta Titolare della chiesa, Nostra Signora della Vittoria, elevava al Cielo, nell’esatta maniera dell’Ostia, una corona del Rosario, grande e luminosa, i cui grani dorati recavano i caratteri IHS, vergati nel colore della penitenza.
Alla destra della Beatissima Vergine, l’estasi di S. Pio V, gli occhi fissi sulla scena alla di Lei sinistra: il mare di Lepanto, le cui lumeggiature dorate, simili a dardi scoccati dai grani della corona, parevano quasi trafiggere il brulichio nereggiante della flotta turca…
«Recordare, Iesu pie,…» cantò, unendosi idealmente alla preghiera immortalata nell’affresco, alla sublime Supplica, all’Arma invincibile cui l’Europa cristiana – ingrata e apostata - doveva la propria salvezza. Cos’era, in confronto, la sorte di un’anima? Niente; eppure tutto.
Il niente della creatura al cospetto di Dio; il tutto dei Novissimi.
Poteva essere uno spunto per l'omelia; l'aveva già impostata, ovviamente, ma chissà, magari come conclusione....


Quel canto era davvero lungo.
Lesse tutto il testo con calma; poi si accorse che, comunque, i cantori erano parecchio più indietro rispetto a lei.
Meglio così: ora che si era fatta un’idea del significato, poteva limitarsi ad ascoltare.
Non sembrava che ci fosse poi tanto spazio per la Speranza, con o senza maiuscole; al contrario, il testo, in certi punti, appariva decisamente minaccioso. Da dove scaturiva, allora, la supplica finale?
Il Giudizio. Un Giudizio su tutto. Sulle azioni palesi e sulle nascoste, anzi, perfino sui pensieri. Come minaccia non era niente male.
Aveva senso pregare il Giudice?
«…quod sum causa Tuae viae». Ancora una volta, il Coro le stava cantando la risposta.
Quasi per istinto, alzò gli occhi verso la Croce che troneggiava al centro dell’altare, tra i candelieri dorati. Certo, se il Giudice era anche il più grande Benefattore – il Redentore, ricordò – degli imputati…
Quella faccenda era uno strano miscuglio di semplicità e complicazione.


Come un ripasso delle Verità elementari, e proprio per questo fondanti, la Sequenza gli richiamava alla mente concetti che riaffioravano quasi coperti di polvere. Erano mai stati così belli, così profondi e carichi di significato? E se sì, se ricordava bene la fede di sé stesso bambino, com'era possibile che l’oro della Verità eterna fosse finito in disparte?
Il Giudice che è Salvatore. Giudice in quanto Salvatore e non viceversa. Paradossale. Divinamente paradossale. Tutto può pretendere, perché tutto ha dato. Eppure non desidera altro che tirare una riga sul libro dei conti, dimenticarsi di tutti i debiti, di tutte le colpe degli imputati.
Ma questi, che cosa desiderano?
Che cosa hanno scelto, nell’ultimo istante dell’esistenza terrena?
La non-morte dei fantasmi, forse? Il rifiuto di scegliere?
Oppure…
E tu cosa scegli? Cos’hai scelto finora? Cosa sceglierai?
Trasalì, a quest’improvvisa deviazione dei propri pensieri.
Aveva ricordato, d’accordo; aveva anche scoperto che, in qualche cantuccio della sua anima, era sopravvissuta, chissà come, la capacità di credere che, anche se gli uomini fanno di tutto per deturpare la bellezza del mondo, Dio esiste ed è tanto buono da amarli egualmente ed essere disposto a perdonarli per il male commesso. Perfino per il male volontario, per le colpe senza scuse.
Ma aveva il coraggio di compiere il passo successivo? Il coraggio di protendersi verso la Mano tesa di Dio, di porsi realmente in ginocchio e chiederGli la possibilità di ricominciare?
Aveva il coraggio della conversione?
Io no, Signore. Tu sai che io non possiedo tanto coraggio.
Ma so che Tu lo possiedi e sei pronto a donarmelo. Anzi, se Tu non lo stessi già facendo, io non sarei neppure qui a pormi il problema.
Voglio fidarmi di Te, accettare il Tuo dono… oppure no? Oppure preferisco altre cose?

Lo assalì un senso di sconforto: la sua esistenza era così vuota, così priva di senso – se si escludeva quell’unica speranza, assurda e tanto remota – che proprio non sapeva cosa farsene. Al posto di Dio, non se ne sarebbe interessato affatto. Certo, non c’erano altre cose che potesse preferirGli… non più.
Eccezion fatta, naturalmente, per quell’unica, piccola speranza testarda. Per quel sogno assurdo che, a dispetto di tutto, era divenuto lo scopo della sua vita.
E per la convinzione pressoché incrollabile di aver ragione, solo fondamento di una speranza che quasi non si poteva neppure chiamar tale.
Vuoi che rinunci a questo, Signore? All’arma con cui, finora, ho combattuto la disperazione… e il rimorso… e il senso di colpa e, soprattutto, l’inutilità?
Rabbrividì da capo a piedi.
Riprese a seguire il canto, in cerca di una risposta, o forse in fuga da quell’improvviso tormento interiore.


Rufus Caramell, in prima fila, a labbra strette, ascoltava quella nenia interminabile con palese disgusto.
Che suo zio fosse stato un tipo strano, soprattutto negli ultimi anni, era un dato di fatto, anzi, una cosa quasi normale, considerato tutto quel che aveva passato; ma che fosse finito in mezzo a questo! Era stato davvero così disperato? Così solo?
Solo? E io chi ero, la Fata Morgana?
Gli sembrava di essergli stato vicino, di aver fatto tutto il possibile. Certo, aveva sempre rifiutato ogni invito ad assistere a quelle stravaganze Babbane; e per fortuna! Ciò che vedeva adesso bastava e avanzava, grazie tante.
Tu guarda quanta scena per un morto…
Noi celebriamo la
vita, non la morte!
Due belle parole, “E’ stato una brava persona”, e via; la vita continua. Che bisogno c’è di inscenare tutto quest’apparato?

Come se al morto importasse qualcosa!
Come se canti e preghiere – preghiere! – gli potessero veramente giovare!
Possibile che suo zio fosse rincitrullito al punto di crederci?!
Possibile, sì. Anzi... sicuro, purtroppo.
Ricordava ancora la risposta alle proprie obiezioni scandalizzate: la dignità, anzi, l’orgoglio dei Maghi; le scoperte strabilianti, i meravigliosi progressi delle arti magiche… tutto questo, per lui, non contava più nulla.
Il solo pensiero bastava ancora a farlo infuriare.
Si era sentito così impotente, così disarmato, di fronte ad una follia di proporzioni simili, che, quando aveva letto il testamento dello zio, con tutte le disposizioni per il funerale, non era riuscito ad imporsi come avrebbe dovuto, a vietare quella cerimonia assurda. No, era andato a parlare con quel Babbano e, nonostante tutto, si era lasciato irretire in un compromesso ancor più assurdo, all’insegna del “Prima finiamo, meglio è”. Così non aveva rispettato né la volontà dello zio né la propria. Bella figura di merda!
Come aveva detto, il vecchio?
"L’orgoglio, Rufus, è la rovina del Mondo Magico. All’orgoglio, al disprezzo per i Babbani, dobbiamo tutte le nostre guerre; l’orgoglio nutre, ad ogni generazione, una nuova stirpe di Maghi Oscuri e ci porta a servirsi di tutte le scoperte, di tutti i progressi, per uccidere e torturare in maniere sempre nuove, sempre più efficaci. Dov’è il progresso in tutto questo, Rufus? Dov’è ‘la dignità, anzi, l’orgoglio dei Maghi’? Mi ci trovi qualcosa, dico, una cosa sola, di cui dovremmo essere orgogliosi?
Che ragionamento del cazzo!
I Maghi Oscuri mica se la prendevano con i Babbani! Almeno, non solo né principalmente. Volevano conquistare il mondo, no? e il vero ostacolo non sarebbero mai stati i Babbani (figuriamoci!), bensì gli altri Maghi.
E poi… che avrebbero dovuto fare, insomma? Rinunciare a qualsiasi scoperta, temendone le applicazioni belliche? Credeva davvero, il vecchio pazzo, che i Maghi Oscuri avrebbero fatto altrettanto?! No, no, viva le applicazioni belliche! Non avevano altra strada, se volevano sopravvivere – una generazione dopo l’altra – alle guerre magiche.
Il disprezzo verso i Babbani… bah! Come si poteva disprezzarli? Non meritavano tanta considerazione, era uno spreco di tempo. Non parliamo poi di combatterli, neanche potessero costituire una minaccia: checché volesse far credere Malfoy, non lo erano stati mai, neppure nei tempi in cui ci provavano e si illudevano di riuscirci, figuriamoci ora che non credevano quasi più alla Magia.
La politica migliore? Ignorarli.
E invece… Puah! Mescolarsi a loro, imbrancarsi in quel branco di svitati!
Come se le loro stupide credenze, quali che fossero, potessero avere importanza per un Mago! Cosa potevano mai sapere, i Babbani, della vera natura delle cose? Dell’onnipresenza e onnipotenza della Magia? Nella loro ignoranza, era quasi comprensibile – quasi – che tanti di loro continuassero a credere nell’Ente chiamato “Dio”. Ma che un Mago ricadesse in quella superstizione vecchia di secoli, ormai sconfessata da tutti i teorici della Magia…
Basta, doveva calmarsi. Dopotutto, quella nenia aveva almeno un pregio: era rilassante.
Sbirciò il libercolo: quanto ce n’era, ancora?!

«Oro supplex et acclinis,
cor contritum, quasi cinis,
gere curam mei finis!
»


Il mutamento della melodia riscosse la donna dal torpore meditabondo – una sorta di trance – in cui era sprofondata. Controllò sul foglietto: quel brano così lungo (Sequenza, si intitolava) giungeva alla fine, quasi ricapitolando il proprio messaggio nella preghiera finale.
«Pie Iesu Domine,
dona eis requiem.
Amen.
»
Non avrebbe immaginato di potersi commuovere ancora; credeva di essersi abituata alla semplicità della melodia. Eppure, si sbagliava: il segreto di quella capacità di suggestione, inspiegabile secondo i canoni consueti, continuava a sfuggirle.
Poteva quasi credere che tutto questo avesse un senso, capire come Caramell avesse potuto crederci.
Il potere consolatorio della Bellezza, certamente; eppure, sembrava che questa Bellezza fosse diversa… che agisse come una sorta di tramite.
Che rimandasse a Qualcosa di più.
Sembrava quasi che quella fede fosse vera!
O forse sapeva solo vendersi bene.
Ma di sicuro sentiva il bisogno di capirne di più.


Accanto a lei, l’uomo attendeva, in piedi, il canto del Vangelo, certo di trovarvi la risposta alla propria angoscia, per intima che fosse.
Ma fu soltanto al termine della pericope che la Parola squarciò il velo dei suoi dubbi: “Signore, io credo che Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, che sei venuto in questo mondo”.
Quasi boccheggiò; saltò la risposta (la donna lo guardò di sottecchi, stupita) e sedette come se gli mancasse il terreno sotto i piedi.
Tu sei il Cristo”.
Di fronte a questo, tutto il resto che importanza può avere?


Dopo due ore buone spese sul canovaccio dell’omelia, don James aveva deciso che, dopotutto, per strani che fossero, i Maghi erano innanzitutto esseri umani. Certamente, la semplicità a lui consueta sarebbe stata più utile dell’erudizione, per la conquista dei loro cuori.
Anzi, l’arma migliore sarebbe stato l’esempio di Caramell. Del convertito Caramell.
A Dio piacendo, rievocare vicende e tormenti del proprio figlio spirituale lo avrebbe aiutato a dissipare almeno qualcuno dei pregiudizi imperanti presso la sua famiglia.
«”Io vengo a seppellire Cornelius, non a lodarlo”,» esordì dunque dalla balaustra della Comunione. «Ogni elogio assume un sapore quasi beffardo, di fronte alla Morte: sembra che punti il dito contro l’ingiustizia, che rinforzi il grido di dolore: “Perché?!”
Non c’è, io credo, un solo essere umano che non abbia gridato questo “Perché?!”, alla morte di una persona cara. In occasioni simili, ogni credente si è interrogato sulla Bontà di Dio, sulla Sua Giustizia. “Ecco, finisce tutto. Una persona, con i suoi pregi e i suoi difetti, un individuo, unico e irripetibile; e non lo vedrò più. Mai più. Posso soltanto ricordarlo; ma il ricordo è inutile, non me lo riporta; lo sento come un dovere, eppure non so dargli un senso”.
Perciò, non avrebbe senso che mi mettessi a ricordare Cornelius. Non è questo il mio compito. La Chiesa crede che il ricordo abbia un senso, che sia veramente un dovere; ma deduce queste verità da premesse ben più alte.
Mi sento sempre a disagio, quando devo tenere un’omelia funebre: ho paura di allontanare l’anima ferita, che cerca parole di conforto; e d’altra parte non posso neppure illuderla, mostrandole soltanto il volto luminoso della Morte cristiana. Un volto simile sarebbe, in fin dei conti, irreale, perché troppo distante dalla nostra esperienza, dalla ferita che sanguina e duole; non avrebbe il potere di lenire la sofferenza, né giustificherebbe il dovere del ricordo.
Perciò, permettetemi di scegliere uno stile particolare, per quest’omelia: né una predica più o meno astratta sull’escatologia cristiana, né un elogio. Vorrei, invece, mostrarvi come, negli ultimi anni di Cornelius, nelle scelte che molti di voi, probabilmente, non hanno compreso, brillasse il dito di Dio. A quel punto, tutto diverrà chiaro: la dottrina, la Speranza, la consolazione.
Cornelius è entrato qui due anni fa, non semplicemente perché era vecchio, perché si sentiva un fallito, perché cercava di aggrapparsi a qualcosa. Tutto questo è vero, ma non spiega perché sia entrato proprio qui.
Cornelius cercava, così mi disse, “una medicina contro l'orgoglio”.
A pezzi e bocconi, insieme con la storia della sua vita, mi ha esposto il suo pensiero, il pensiero di un uomo che ha visto troppo. Troppe guerre, troppi morti, troppi tradimenti e meschinità, troppa ambizione stupida... l'elenco è lungo.
Di due cose si era convinto: che la radice di tutti i mali fosse l'orgoglio e che né le regole né la forza potevano bastare a tenerlo a freno. Occorreva guarirlo, occorreva guarire l'uomo da questa malattia. “Padre,” mi disse, “l'uomo non può essere tutto cattivo: io ho visto che dove c'è il male, anche quando sembra che trionfi, c'è sempre qualcuno che reagisce. E allora, dal male, dall'orgoglio, l'uomo può anche guarire”.
Mi ha raccontato di mille tentativi di stroncare con la forza e le minacce la tentazione del potere assoluto... mille tentativi e mille fallimenti. Mille guerre, una peggiore dell'altra, e centomila intrighi, e infinite pugnalate alla schiena.
Ora cercava qualcosa di diverso. Qualcosa che unisse l'obiettività e la severità di una Legge con la capacità di cambiare il cuore, di convincere per davvero, di – gli ho suggerito io il verbo – di convertire.
Non importa chi siamo, quali siano i nostri natali o le nostre capacità: ciascuno di noi, nell'intimo, ha dovuto sperimentare la tendenza al Male. Alcuni la abbracciano, altri la combattono, i più ci convivono in un grigiore incerto. Ma Caramell aveva visto dove essa può portare. Caramell cercava un rimedio.
Gli ho dovuto dire che il rimedio consente di vincere la battaglia, ma non di evitarla, perché è proprio quella battaglia - e solo quella battaglia - che dà un senso alla nostra vita. L'unico senso che non svanisca con la morte.
La morte dovrebbe essere la più grande medicina per l'orgoglio. Eppure, gli uomini riescono a rimuovere così bene la consapevolezza di dover morire che il pensiero della loro sorte non viene quasi mai a turbare le ambizioni, gli intrighi, gli atti. Quasi mai si chiedono, prima di agire, se sarebbero contenti di quel gesto, casomai dovessero morire di lì a poco. Quasi mai, quando coltivano grandi progetti per sé, sentono risuonare il monito “Ricorda, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai!”. Eppure è così; e, prima o poi, la morte – nostra o di qualcun altro – torna a ricordarcelo.
Il mondo, dinanzi alla morte, tace. Al massimo, offre – e comunque solo a pochi – una consolazione puramente umana: la fama. Promette che sarà eterna, ma non è vero: i secoli logorano e fanno sbiadire qualsiasi fama, finché resta soltanto un nome logoro e poi... neanche più quello. Polvere. Quia pulvis es, et in pulverem reverteris.
L'orgoglio non riesce ad ammettere la propria sconfitta di fronte alla morte; eppure, non può evitarla e non può nemmeno sperare di sopravviverle nelle sue opere, nel ricordo o nella gloria. La morte, solo la morte, fa scoprire all'uomo di essere nulla: un granello di polvere che un po' di vento basta a spazzare via.
Proprio così questo “nulla” può riscoprire il Tutto.
Non l'Universo e la sua grandezza, no: Dio. Dio che è più grande dell'Universo, più forte della morte, e ha preparato per noi un futuro che ci attende al di là della morte.
Tutta la nostra vita è vissuta a rovescio: vediamo la morte come la fine, quando in realtà è l'inizio; cerchiamo di non pensarci neppure, e dovremmo vivere ogni giorno come una preparazione alla morte; se poi ci pensiamo, finiamo per disperarci, anziché capire che proprio la morte è la nostra speranza.
Guardátevi intorno! Tutto quello che possiamo sperare di ottenere su questa terra – una bella casa, soldi, successo, posizione... - tutto questo ci lascerà. Forse lo abbandoneremo noi, morendo; ma più spesso durerà ancor meno della nostra vita, molto meno.
"Tutte le cose invecchieranno come un vestito; come mantelli, Tu le cambierai ed esse saranno cambiate; Tu invece, Signore, sei sempre lo stesso, e i Tuoi anni non hanno fine”.
Qualunque persona assennata sa che non ha senso e non è bene attaccarsi troppo ai beni di questo mondo; gli uomini hanno cercato di darsi obiettivi più alti, inseguendo la gloria o cercando di realizzare gli ideali; ma la gloria svanisce e gli ideali svaniscono nella sconfitta o, peggio, dopo la vittoria trasformano il mondo in un incubo. Nulla di tutto questo ha potuto dare un senso alla vita, un sollievo alla morte, men che meno una Speranza.
Non c'è da stupirsene: tutto questo era sempre, ancora e sempre, orgoglio. L'orgoglio dell'uomo, che cerca mille modi per vincere o ingannare la morte, cui pure sa già che non potrà sfuggire!
Solo Qualcuno più grande della morte può darci questa vittoria.
Solo un Amore più grande della morte può sconfiggere il nostro orgoglio.
Io non prédico la gloria, ma la follia: la follia di un Dio che si fa crocifiggere per salvare l'umanità, proprio questa qui che vediamo. Un'umanità di cui conosce perfettamente, in anticipo, l'ingratitudine e l'ostinazione nell'errore.
Eppure, solo questa follia ha potuto offrire a ciascuno di noi la possibilità di cambiare.
Cornelius, nella Legge di Dio, non ha trovato una semplice saggezza umana, un'etica come ce ne sono tante; questa Legge è un tutt'uno con la forza di viverla, che è la Grazia e che trasforma l'uomo dall'interno, se l'uomo si lascia trasformare. La Legge e l'Amore purificano dall'orgoglio. Il processo non è mai compiuto fino alla morte, può sempre essere invertito... ma chi vorrà e saprà perseverare fino alla fine sarà salvo.
Lo dicevo prima: la morte è la nostra Speranza. La Speranza che la lotta interiore abbia finalmente termine e che, superata la prova morale in cui consiste questa vita terrena, andiamo a riscuotere il premio eterno. La Speranza che, una volta mandato in frantumi il “nulla” del nostro orgoglio, Dio, che è Tutto, sia riuscito a renderci degni della Sua Eternità.
Per Cornelius, questo momento è arrivato. Egli, ormai, si trova al di là della soglia su cui lo attendeva Cristo Giudice; non sappiamo quale sia stata la sua sorte ed è giusto che le nostre preghiere rispecchino questo timore. Ma noi sappiamo anche che le preghiere non sono mai vane, che pesano sempre sulla bilancia di Dio: tante anime, ha detto la Madonna a Fatima, vanno all'Inferno perché nessuno prega per loro. E allora noi preghiamo oggi per Cornelius, come speriamo che oggi, dal Cielo, egli preghi per noi e ci meriti, un giorno, la grazia di affrontare la morte non come una minaccia, ma come la Speranza, la porta oltre la quale si trovano il senso e il sigillo ultimo della nostra esistenza.»
Era fatta.
Niente “Sia lodato Gesù Cristo”, nelle Messe esequiali non era davvero il caso.
Eppure, sentiva proprio il bisogno di dirlo.
Don James non era né un tipo impressionabile né un vigliacco, tantomeno poteva dirsi nuovo alle situazioni sgradevoli: sia come Sacerdote cattolico in un Paese la cui identità tradizionale era protestante, sia come esponente di una delle frange del cattolicesimo più osteggiate dagli stessi correligionari, aveva incrociato spesso sguardi minacciosi, subito aggressioni verbali... pure qualche pugno, qualche schiaffo.
Ma stavolta era diverso.
Era come se ogni suo accenno all'orgoglio e alla necessità di combatterlo avesse portato il gruppo delle prime file un passo più vicino alla violenza fisica.
E non la violenza da due ceffoni e via.
Forse stava scoprendo un lato impressionabile che non credeva di possedere... ma da quelle facce livide, da quegli occhi torvi, emanava una vera e propria aura di minaccia.
E poi...
Era sicuro di aver visto lampi violacei balenare tra i bracci del lampadario.
E quella crepa sul pavimento, prima, non c'era.
E avrebbe potuto giurare che quella lucertola che ci si era appena infilata dentro, solo cinque minuti prima, fosse un manutergio di riserva!
L'abitudine a concentrarsi profondamente su quel che doveva dire – o meglio, a svolgere per filo e per segno la traccia mandata a memoria, magari con qualche aggiustamento dell'ultimo minuto - l'aveva aiutato a tenere tutto questo ai margini della propria percezione; ma adesso le emozioni lo investivano come i pugni di un peso massimo.
In genere, evitava la pausa di silenzio dopo l'omelia, perché tendeva a favorire più i dubbi che la meditazione; ma stavolta se la concesse, perché le sue ginocchia rischiavano di cedere di colpo.
Sedette allo sgabello, cercando di riprendersi. Purtroppo, non poteva approfittare del canto del Credo, doveva passare direttamente all'Offertorio. Ma un momento, un momento solo... gli serviva ancora un momento.
Cosa doveva aspettarsi? Che, volontariamente o no, gli... ospiti delle prime file gli facessero crollare la chiesa sulla testa? O che perdessero il controllo e cominciassero a massacrare tutti a suon di magie?
Per lui, erano del tutto imprevedibili. Una novità inquietante: finora, in situazioni analoghe, aveva sempre saputo prevedere le possibili reazioni e, quindi, valutare l'entità del pericolo. Naturalmente, in quanto Maghi, questi soggetti esulavano completamente dal suo mondo, prima ancora che dalla sua esperienza, e la frequentazione di Caramell, a quanto pareva, non bastava a rendergli in qualche modo comprensibile il suo parentado.
Signore, pensaci tu...
Dopo un respiro profondo, si alzò. Ancora scosso e molto spaventato, ma risoluto a portare a termine la funzione, accadesse quel che accadesse.


L'uomo piangeva.
Piccoli sussulti da singhiozzi soffocati scuotevano le sue spalle, mentre le lacrime scorrevano liberamente lungo le guance.
La donna avrebbe forse sfoderato la Penna Prendiappunti, se avesse notato un comportamento simile; ma restava seduta, lo sguardo assorto, le mani intrecciate in grembo, intenta a riflettere sul discorso appena sentito. Quanto rivelava di Caramell, del suo animo e dei suoi ultimi anni! Ma quanto rivelava anche di tutti loro...


Rufus Caramell si sentiva nero di rabbia.
Non aveva bisogno di guardarsi intorno per sapere che ognuno dei suoi parenti la pensava allo stesso modo.
Come si permette, questo Babbanastro?!
Qualunque cosa il povero vecchio zio avesse creduto o pensato... be', era vecchio, per l'appunto, e aveva visto due guerre molto brutte, senza contare i tempi di Grindelwald. Aveva diritto ad un po' di pessimismo.
Ma quel pessimismo, come tutti i disturbi dell'età, sarebbe dovuto morire con lui.
Nessuno lo avrebbe biasimato, se solo avesse tenuto per sé quell'umor nero. Certo, i suoi contatti sociali e familiari, già scarsi, ne avrebbero risentito; ma in fondo, quale famiglia rispettabile non conta almeno un paio di anziani parenti eccentrici?
Invece no.
Per un breve periodo, aveva parlato della necessità di cercare Harry Potter ed era quasi sembrato che stesse riprendendo animo. Poi, di colpo, non ne aveva parlato più. Neanche un accenno. Qualcosa doveva averlo disilluso brutalmente, perché era caduto a precipizio, prima nel morale, poi... nella condotta.
L'immagine di suo zio – suo zio! - un Mago purosangue, che era stato Ministro della Magia, inginocchiato a mendicare un po' di speranza dai Babbani...!
Una medicina contro l'orgoglio”, eh?
Una magia nota ai Babbani e non al Mondo Magico!
Si era mai sentita un'idea più assurda?!
E passi ancora, se il povero vecchietto era rincitrullito: ne aveva passate tante.
Ma che questo tanghero che non sapeva minimamente di cosa stesse parlando, che aveva forse sentito qualche storia abborracciata alla bell'e meglio da suo zio, si premettesse di salire in cattedra e fare la morale a tutti loro, faceva veramente bollire il sangue!
Le sue dita non smettevano ancora di tormentare la bacchetta. Per la tentazione di usarla, certo, ma anche per prevenire manifestazioni involontarie di magia: al momento erano tutti riusciti almeno ad evitarne di troppo eclatanti, ma...
...Ma.
E, in un angolo della sua testa, una vocina sussurrava: Non preoccuparti. Se dovesse succedere qualcosa, sai benissimo cosa fare.
La nuova legge parla chiaro: nessun bisogno di disturbare gli Obliviatori per una sciocchezzuola del genere... basterà non lasciare tracce.
E magari, questi stupidi ti ringrazieranno pure per aver donato loro l'eternità, o quel che è!

Accolse quasi come un sollievo la nuova nenia del coro.


Don James conosceva a memoria l'Offertorio della Missa pro Defunctis, era uno dei suoi brani preferiti, sia quanto al testo sia per la melodia gregoriana.
«Domine Jesu Christe, Rex gloriae, libera animas omnium fidelium defunctorum de poenis inferni et de profundo lacu: libera eas de ore leonis, ne absorbeat eas Tartarus, ne cadant in obscurum: sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam: quam olim Abrahae promisisti, et semini ejus.»
Il celebrante stesso si commosse, chiedendo perdono e soccorso all’Altissimo per la propria condizione di peccatore. Non per la prima volta, rifletteva sulla contraddizione lacerante del battezzato, santo e insieme sempre bisognoso di purificazione, come la Chiesa stessa; e la riflessione, pur doloroso come ogni severo esame di coscienza, ebbe almeno il potere di strapparlo a quell’inquietudine in cui si stava dibattendo.
Aggiunse alcune gocce d’acqua al vino del Calice. Così le nostre lacrime, Signore, si uniscano con il Tuo Sangue, per lavare i nostri cuori e fare di noi uomini nuovi, membra vive del Tuo Corpo, compartecipi della Tua Divinità.
Si chiese quanti, tra gli astanti, si sarebbero accostati alle Sacre Specie. E, purtroppo, questo interrogativo riportò la sua attenzione su coloro che stava cercando, stoicamente, di ignorare. Riuscì a distrarsi osservando il resto del pubblico, ma non c’erano molto che fosse degno di nota, a parte quell'uomo e quella donna, seduti affiancati…
Si riscosse, rimproverandosi per la distrazione, e si costrinse a indirizzare l'attenzione sulle cerimonie, sul singolo gesto, sulla singola parola.
«Lavabo inter innocentes manus meas…» Pregò che il gesto, opposto a quello di Pilato, potesse liberarlo dall’inesplicabile fardello che sentiva gravare sulle proprie spalle. Si deterse le dita con sommo impegno; poi si concentrò nell’offerta, nell’attesa del Sacrificio. E fu un bene, perché l’orazione “segreta”, non essendo recitata ad alta voce, richiedeva tutta la sua attenzione.
Caramell era stato un brav’uomo, si disse, recitando il Prefazio; gli augurò di tutto cuore di aver trovare quella pace che non gli aveva mai vista in volto, quand’era in vita. Pover’uomo.
Il Coro eruppe nella maestà, sobria e trionfale, del Sanctus. Sì, tre volte Santo sei Tu, Signore Dio degli Eserciti…
Il Canone Romano, inalterabile e solenne nelle sue eleganti architetture sintattiche, placò del tutto la sua mente con l’immagine della Chiesa, esercito santo, che si diffonde attraverso i secoli, a bandiere spiegate, trionfando su tutti i nemici, interni ed esterni, grazie al sostegno dello Spirito Santo. «Senza la Tua Forza, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa.» Di certo, anche i vivi con cui e per cui offriva il Sacrificio della Messa si sarebbero, un giorno, accodati alla Chiesa trionfante, nella Pace che gli Angeli natalizi hanno annunciato, una volta per sempre, a tutti gli uomini di buona volontà. Offrì Ostia e Calice con questa intenzione, prima ancora che in suffragio del defunto Cornelius Oswald Caramell.
«Qui pridie quam pateretur…»
Avrà mai fine la Tua Passione, Signore? Smetterà mai, l’umanità, di peccare contro di Te e contro sé stessa? Verrà, infine, il Tempo al di là del tempo, in cui non avremo più bisogno di Redenzione, perché Tu sarai “tutto in tutti”?
«…Accipite et manducate ex hoc omnes.
Hoc est enim Corpus Meum.
»


Lo stramaledetto istinto le suggeriva di afferrare una piuma e mettersi a scrivere.
La sua cara, vecchia Penna Prendiappunti avrebbe buttato giù un articolo bello tosto su questi stranissimi riti Babbani in men che non si dica. Le pareva quasi di sentirla fremere, nel taschino. La portava ancora con sé, ma non l’usava mai. Si era rassegnata: nessuno avrebbe più accettato suoi articoli. Era ridotta a consolare i cuori infranti nella posta del Settimanale delle Streghe.
Ma forse valeva la pena di fare almeno un tentativo.
Magari, un pezzo di colore sull'uomo al suo fianco...
Aveva proprio una mezza intenzione di parlargli, alla fine.


La sua anima accolse il sacro silenzio del Canone come un balsamo da lungo tempo dimenticato.
Il libretto dell'Ordinario gli restituiva formule quasi dimenticate, formule di preghiera che mai, neanche negli anni dorati dell'infanzia, gli erano sembrate tanto preziose. D'altronde, né da bambino né da ragazzo aveva avuto gravi colpe per cui chiedere perdono; e alla più grave, la crescente indifferenza per le cose di Dio, allora non aveva neppure fatto caso.
Cornelius, Cornelius, avrò fatto bene a farti venire qui?
Forse sì. E se questa è la mia ricompensa... grazie, amico mio.

Non era mai entrato prima in quella chiesetta, ma viveva nel quartiere, sapeva della sua esistenza, la vedeva durante le sue “passeggiate” - in realtà, meticolosi giri di ricognizione, casomai vi fossero segni di Arti Oscure o attività sospette - e sapeva che era affidata ad un prete di quelli che ora chiamavano “tradizionalisti”, ma che per lui erano preti e basta. Quelli dei suoi tempi. I soli da cui sentisse di poter mandare un amico in crisi, perché aveva un'idea precisa di cosa gli avrebbero detto. Quelli nuovi... boh, non aveva né compreso né approfondito il perché della novità, ma gli sembravano proprio di un'altra razza. E preferiva restare sul sicuro.
Così, quando gli era parso che Cornelius avesse toccato il fondo e stesse seriamente meditando il suicidio, nella sua mente si era affacciata la sagoma di Nostra Signora della Vittoria. E forse anche il titolo della chiesetta lo aveva suggestionato un po'.
In un modo o nell'altro, sembrava che il suo vecchio amico fosse riuscito a trovare almeno qualche brandello di pace. Non era poco. Tutt'altro.
E, all'Elevazione, seguì con gli occhi il movimento dell'Ostia, pregando con tutto sé stesso che un po' di pace, almeno un po', potesse toccare anche a lui.


Il silenzio attenuò la collera di Rufus Caramell, ma alimentò la sua impazienza. Quanto doveva durare, ancora, quella pagliacciata?!
Le sue dita tormentavano la bacchetta.
Bastava che non ci fosse un supplemento di lezioncina. Non lo avrebbe proprio retto.


Il lungo silenzio del Canone, le preghiere preparatorie e, soprattutto, la Comunione avevano trasportato don James in un fitto colloquio con Dio; si riscosse all'Agnus Dei, sapendo di dover comunicare i fedeli, ma anche allora i tizi delle prime file rimasero solo un pensiero vago, un'ombra sullo sfondo.
Solo quattro o cinque parrocchiani si accostarono alla balaustra della Comunione: era già il tempo di purificare i vasi, poi, con il Postcommunio, la Messa si sarebbe avviata al termine.
Rimpianse, una volta di più, il rito dell'assoluzione: Cornelius, tanto oppresso dai sensi di colpa, ci avrebbe tenuto molto. Non solo al Libera me, ma soprattutto al Non intres: “Non entrare in contesa con il Tuo servo, o Signore...”.
I ragazzi avevano servito splendidamente. Ancora un po', e avrebbe potuto ringraziarli, se lo meritavano davvero.
Si voltò e stava per impartire la benedizione finale, quando si udì uno schianto.
Il catafalco si era come...
...Sbriciolato.
E, al di sopra della bara crollata a terra, le fiamme delle candele divampavano in modo impossibile, formando un'unica, altissima torre di fuoco, che arrivava a lambire il soffitto.
Troppo sbigottito perfino per spaventarsi, si guardò intorno, come d'istinto, per vedere le reazioni degli altri.
Ma tutti, nelle prime file, avevano una bacchetta in mano.
E la puntavano verso di lui.
Poi, una voce ruppe il silenzio.
«Qualunque cosa volessi ancora dire, dopo tutte quelle che hai detto prima...» La voce di Rufus Caramell era perfettamente calma, con una punta di ironia «...be',diciamo che quando è troppo è troppo. Speravo non succedessero incidenti di questo genere, ma ahimè, una volta che sono successi, bisogna risolvere il problema.» Ghignò. «E io apprezzo molto le soluzioni definitive
«Io, invece, no»
Tutte le teste – e le bacchette - si girarono verso l'uomo col mantello, che aveva parlato con una calma perfetta. Tanto perfetta da suonare micidiale.
Anch'egli impugnava una bacchetta.
Uno dei suoi occhi era molto più grande dell'altro, di colore diverso, e sembrava che si muovesse in modo strano. Nelle prime file dovevano conoscerlo, perché molte delle loro bacchette si abbassarono, mentre serpeggiava un mormorio inquieto.
«Sì, Rufus, sono proprio io, Alastor Moody. E dico a te, come a tutti gli altri, che il problema si è già risolto da solo.» Indicò con la bacchetta ciò che restava del catafalco: effettivamente, la vampata delle candele, che solo un momento prima pareva sul punto di incendiare l'intera chiesa, era scomparsa del tutto, dopo aver consumato fino all'ultima goccia di cera.
«Gli incidenti strani succedono, non è vero? Ma non è il caso di farne un dramma. Tantomeno in un'occasione come questa.»
Sotto lo sguardo blu elettrico di quell'occhio anormale e minaccioso, tutti quanti rinfoderarono le bacchette.
Egli annuì e tornò a sedere.
Don James, il solo Babbano che comprendesse il rischio appena corso, impartì la benedizione tremando come una foglia e senza neppur sentire cosa stesse dicendo. Ma poi, in ginocchio ai piedi dell'altare, recitò le preghiere finali con particolare fervore, specialmente l'ultima, che aveva voluto aggiungere a quel funerale mutilo del Libera me, Domine:
«Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias Diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur; tuque, Princeps Militiae Caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute in Infernum detrude. Amen
Sentì che tutti si allontanavano, udì i passi rimbombare sul pavimento; ma non si rialzò, non abbandonò la posizione del supplice.
I chierichetti – a loro volta costretti ad imitarlo, a restargli accanto immobili - si guardarono senza capire.
Per la prima volta nel suo ministero, don James stava implorando Dio di risparmiargli un calice: pregava, con tutta l’anima, di non incontrare mai più neppure l’ombra di un Mago.
Non sapeva che, proprio in quel momento, sul tavolino della sacrestia si stava Materializzando una pergamena sigillata.



Note:
Capitolo decisamente ricco di riferimenti, lo so. Suggerisco di leggerlo tenendo accanto il testo della Missa pro Defunctis (sia le parti proprie sia quelle comuni ad altre Messe, c.d. “Ordinario”) e/o in sottofondo la sua forma cantata, in gregoriano, a cappella, che è quella presupposta da me durante la stesura.
Allora, vediamo di non dimenticare niente... La sigla F.S.S.P. sta per “Fraternità Sacerdotale San Pietro”, il principale dei cc.dd. “Istituti dell''
Ecclesia Dei'”, contraddistinti dal compito di formare Sacerdoti legati all'antica Liturgia romana (e nati, in origine, per accogliere quanti avessero deciso di non seguire l'Arcivescovo Léfebvre nella via delle consacrazioni senza mandato pontificio, o se ne fossero dissociati in seguito). Tecnicamente sono inquadrati tra i religiosi; ma ho voluto comunque attribuire a don James il titolo di “don” anziché quello di “padre” - consideratela una licenza poetica, nel caso – perché volevo che fosse associato semplicemente all'immagine del prete. Don Camillo senza gli sganassoni, per capirci.
La F.S.S.P. è attiva anche a Londra, ma la chiesa di Nostra Signora della Vittoria è interamente di mia invenzione: l'ho immaginata come una Parrocchia personale destinata ai fedeli “tradizionalisti” e, appunto per questo, affidata alla Fraternità. Sul piano architettonico, niente di che: una chiesa di dimensioni modeste, probabilmente costruita nell'Ottocento dopo l'emancipazione dei Cattolici, a navata unica e pianta longitudinale (lo preciso casomai dal testo non si capisse). Quasi priva di decorazioni, a parte qualche quadro, l'affresco nel catino absidale e la statua all'ingresso.
All'Arcangelo Michele è tradizionalmente attribuito non solo il compito di respingere gli assalti del Diavolo, ma anche quello di
psicagogo, ossia guida delle anime dei defunti verso il Paradiso (e come tale lo menziona, p.es., l'Antifona all'Offertorio, riportata nel Cap.). Per questo, la suddetta statua lo raffigura con la spada sguainata nella destra, ma nella sinistra la bilancia su cui vengono pesati gli spiriti dei morti.
Sappiamo che al funerale di Ariana Silente è stata usata una bara, ma non così per suo fratello Albus: ho l'impressione che le bare siano una concessione agli usi Babbani, inevitabile quando si viva in paesini di campagna (anche i genitori di Harry sono sepolti in un cimitero Babbano), ma che i Maghi preferirebbero evitarle, a pro' dei sudari, che così finirebbero per essere un po' la “tenuta da VIP” per i funerali del Mondo Magico. E come Silente è stato sepolto a Hogwarts, così immagino che altri Maghi in vista siano inumati nei parchi delle rispettive dimore, oppure in cimiteri a sé stanti: di qui le risate di scherno dei familiari di Caramell all'idea che un Babbano possa entrare a trafficare in spazi riservati ai Maghi e, verosimilmente, protetti dalla magia proprio contro simili intrusioni (pensate un po' se la lapide fosse impostata a mo' di
curriculum, come usava una volta tra noi, e dicesse “campione di Quidditch”, “inventore di Incantesimi”...).
Come peraltro si ricava dal seguito, il “
poggia-bare”, in realtà, si chiama catafalco e le candele gialle sono di cera vergine.
Ho già rimandato i lettori, una volta per tutte, alla consultazione dei testi della Messa, ma – fermo che qualsiasi inesattezza nella descrizione del rito funebre Tridentino deve imputarsi alla mia negligente consultazione delle fonti – faccio notare fin d'ora che alcune particolarità non sono affatto errori, bensì differenze rispetto alla Messa post-conciliare. Così il colore dei paramenti (nero, non viola), l’omissione del segno di pace, allora non previsto, l’inno
Subvenite cantato all’inizio anziché alla fine e, naturalmente, la celeberrima Sequenza Dies Irae prima del Vangelo, nonché, in ultimo, il Responsorio Libera me, Domine, che qui però non viene eseguito.
Et cum Spiritu tuo”: la maiuscola non è un errore, si intende appunto lo Spirito Santo, che il Sacerdote, nell'ordinazione, ha ricevuto in un modo speciale, in quella grazia del Sacerdozio che i fedeli pregano resti in lui sempre viva.
“Signore Dio degli Eserciti” è la traduzione corretta di “Dominus Deus Sabaoth”, che oggi si preferisce rendere come “Dio dell’Universo”.
Rufus Caramell, nipote del Ministro, che io sappia compare soltanto nei vecchi numeri della Gazzetta del Profeta scritti dalla Rowling intorno al 1999; lo ricordavo coinvolto in qualche scontro con i folletti, ma ho rintracciato solo un articolo che lo descrive intento a scommettere con i colleghi su quanto tempo avrebbero impiegato i Babbani a rendersi conto che un loro treno della metropolitana è sparito "come per magia"; così, gli ho attribuito un carattere da attaccabrighe e un'opinione molto bassa dei Babbani (anche se, come avrete visto, non si trova allineato sulle posizioni dell'attuale Ministro).
Gli altri due personaggi del Mondo Magico sono Malocchio Moody - cui qui ho scelto di attribuire una nascita Babbana e un'educazione Cattolica, che in quest'occasione riscopre - e, come avrete senz'altro capito, Rita Skeeter; il primo era amico di Caramell, almeno secondo me (il solo ostacolo potrebbe essere la tendenza dell'
ex-Ministro a preferire il prestigio delle antiche famiglie e dei Purosangue in genere); la seconda non è certo stata invitata, ma ha ancora le sue fonti e, anche se dispera di riuscire a farsi pubblicare qualcosa di diverso dalla posta del cuore, non si è rassegnata e continua a dare la caccia alla notizia. Tuttavia, non è casuale che non stia usando la Penna Prendiappunti: anche se il suo primo istinto la spinge sempre a cercare la sensazione, volente o nolente ha capito che, anche solo per sperare di risalire la china, deve presentare pezzi inoppugnabili; ecco, quindi, che si impone di concentrarsi sui fatti... e, in questo scenario che le è completamente alieno, ne resta quasi sommersa. Quanto al... singolare abbigliamento, non so se magenta e verde acido siano davvero i suoi colori preferiti, ma, quando entra in scena ne Il Calice di Fuoco, veste appunto di magenta, mentre il verde acido è il colore della sua Penna Prendiappunti, un oggetto che, di sicuro, ha scelto in modo che le fosse anche esteticamente gradevole. Se poi state pensando che l'accozzo debba essere alquanto stridente, avete ragione, ma vi assicuro che la cosa è più che voluta.
Ho messo Rita accanto a Moody sia per inscenare il contrasto tra lo spaesamento di lei e la familiarità di lui, che riscopre un mondo dimenticato da un pezzo, sia soprattutto perché, inizialmente, il capitolo doveva comprendere anche il loro colloquio fuori della chiesa. Poi, però, si è allungato troppo, così l'ho spezzato in due: sentirete quel che avranno da dirsi al prossimo aggiornamento.
Quasi dimenticavo: si è detto e scritto molto sul tema “la religione nel mondo di Harry Potter”, da tutti i punti di vista immaginabili. Io mi limito ad osservare che i bambini vengono battezzati, ma, a parte questo, non si notano tracce di pratica religiosa e, perfino nelle esclamazioni, il riferimento a Dio è raro; ne ho desunto che ci troviamo dinanzi ad una società completamente secolarizzata (anche se magari non così ostile alla trascendenza come potrebbe far credere il soliloquio di Rufus Caramell) e che il battesimo, se pur non è stato fin dal principio un modo per mimetizzarsi tra i Babbani,
hic et nunc ha soprattutto un significato sociale: tramite la nomina dei padrini (e delle madrine, suppongo), rinforza i legami tra persone o famiglie e individua chi dovrà prendersi cura degli orfani in caso di disgrazia, possibilità non accademica vista la frequenza delle guerre magiche.
La pergamena che si Materializza nel finale? Be',non so se vi mostrerò don James leggerla – non ho ancora deciso – ma verrete senz'altro a conoscerne il contenuto. Posso già dirvi, comunque, chi si tratta di una lettera di Caramell per lui: c'è un motivo se, negli ultimi mesi, l'ex-Ministro non si è più fatto vedere e neppure trovato in casa. Depressione? No. Per adesso, dirò solo che ha “sistemato i propri affari”, tra l'altro facendo testamento e impartendo – come si capisce dal testo - disposizioni precise sui funerali. Avrebbe parlato di persona con don James, anche per confessarsi, ma, sebbene si sentisse vicino alla morte, non aveva capito
quanto vicino; per fortuna, la lettera era già scritta e Incantata in modo che si Materializzasse a destinazione non appena terminato il suo funerale (Babbano o Magico che fosse: non era sicuro di poter confidare nel rispetto delle proprie volontà. A ragione, purtroppo).
Signore e signori, io ho spiegato anche troppo. A voi la parola.

  
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