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Autore: Gwen Chan    10/07/2017    2 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Cose Rimaste Non Dette

Yuri non lo vide arrivare. Lo udì, un distante “pop” accompagnato da un sibilo, quasi un fischio. Si abbassò mentre il proiettile passava appena sopra la sua testa. Non ne attese un altro, l’istinto di lotta-o-fuga che già dettava le sue azioni.
“Al riparo! Distanza duecento metri, ore undici, numero sconosciuto!” Yuri gridò istintivamente la descrizione della posizione nemica.
C’erano alcune grandi rocce sul lato sinistro del sentiero. Corsero a nascondersi dietro di esse.
“Ci divideremo” stabilì Victor una volta in posizione. “Il Capitano Plisetsky, il soldato Katsuki, il Caporale Chulanont e il soldato Yegorov verranno con me. Saremo l’elemento di assalto e libereremo il campo.”
Annuirono. Yuri pensò che fosse strano separare il Tenente Altin da Plisetsky, ma quando si ricordò che Altin era un interprete, ebbe senso. Mentre Victor e il Capitano Popovich discutevano su come muoversi, sentì un brivido freddo correre lungo la spina dorsale, paura ed eccitazione che si mescolavano. Era un incubo e qualcosa di cui essere orgoglioso. Victor lo aveva voluto con lui, ma per la parte più pericolosa. Si domandò in fretta se gli fosse permesso contraddire gli ordini di Victor e lasciare che fosse il Sottotenente Leroy ad andare al suo posto. Yuri accantonò l’idea subito dopo. Non importava quanto Leroy potesse sembrare bravo: non era ancora esperto come lui. Inoltre JJ e Victor non sembravano essere sulla stessa lunghezza d’onda.
Deglutì. Mentre toglieva la sicura del suo M16 ed esaminava l’area in cerca di movimenti nemici, ringraziò gli dei in cui non credeva per la presenza di Phichit al suo fianco.

Fu veloce. Fu lento. Non poteva essere durato più di sette minuti di sicuro, ma la condizione di stress in cui Yuri si trovava rallentò la percezione dell’intero evento. Victor sapeva cosa stava facendo e lo faceva bene. Se Yuri non fosse stato così occupato ad evitare di essere ucciso, si sarebbe limitato ad ammirare lo spettacolo che era Victor Nikiforov in azione. Durante i giorni di marcia aveva avuto un assaggio di quello che sapeva fare il più giovane Generale della storia sovietica, ma questo era completamente diverso. Victor era veloce, freddo e preciso.
Ottenne la conferma della composizione nemica quando si furono abbastanza vicini da vederli.
“Devono essere due” considerò Victor, il fucile armato e puntato. Si voltò. Era innegabile che gli assalitori fossero in condizione di vantaggio grazie alla loro posizione sopraelevata.
“Dobbiamo avvicinarci. Essere sul loro stesso livello o sopra” rifletté Phichit. Victor guardò ancora una volta il ripido pendio, studiandolo in cerca di vie e possibili nascondigli.
“Capitano Plisetsky, sono sicuro che il Tenente Altin ti ha insegnato come scalare una montagna. Ecco cosa faremo.”

Secondo il piano di Victor, Plisetsky e Phichit avrebbero prendere un sentiero in salita e fare del loro meglio per non essere notati. Trovarsi più in alto avrebbe quindi dato loro un vantaggio tattico. Nel frattempo il resto della squadra avrebbe preso una via più breve. “Più velocemente riusciamo ad abbatterli senza un scontro diretto, meglio è.”
Circa un minuto dopo, Yuri era raggomitolato dietro una roccia. Alzando lo sguardo, vide due figure simili a puntini muoversi sulla parete scoscesa. Deglutì di nuovo in attesa un ordine. Dalla sua posizione poteva vedere il primo uomo, il fucile puntato. Il secondo doveva essere nascosto non troppo lontano. Alla sua destra, Victor stava guardando attraverso il mirino del suo fucile. Lo abbassò e sospirò. Yuri capì. Il colpo era sporco, la gravità e il terreno a loro sfavore. Un colpo sbagliato e sarebbe finita. Gli spari erano momentaneamente cessati, con entrambe le parti ignare di dove si trovassero con esattezza i loro avversari.
E loro non aveva avuto il lusso di aspettare che gli altri facessero una mossa sbagliata. Ogni minuto era prezioso, e ne avevano già sprecati troppi.

“Ne potrei affrontare uno in un combattimento ravvicinato. Sono bravo” sussurrò Yuri. Sparare da lunga distanza poteva anche essere la specialità di Phichit, così come la strategia lo era per Victor, ma il combattimento corpo a corpo era il suo campo. Proprio mentre diceva questo, sentì un basso fischio accompagnato da un familiare “pop” e un’eruzione di imprecazioni in una lingua che non comprendeva ma che aveva imparato a riconoscere.
Quanto accadde dopo fu qualcosa che parve essere stato fatto da qualcun altro. Il suo corpo agì da solo. Sotto il fuoco di copertura del soldato Yegorov, scattò in avanti, il corpo abbassato, le mani sul fucile.
I familiari suoni dei colpi gli riempirono le orecchie. Smise di badare a ciò che stava accadendo intorno a lui. L’unica cosa di cui si rendeva conto era il veloce sparare a due tempi, il calore del fucile, l’odore dei proiettili. I bossoli tintinnarono a terra, rimbalzando e rotolando via.
Yuri inciampò. Continuò lo stesso a sparare. Un nemico era ormai molto vicino. Così vicino avrebbe potuto toccarlo. Com’era arrivato così vicino?
Yuri sparò.
E questo fu tutto.

Yuri portò la mano destra sul viso per togliersi i occhiali e ripulirli. Fu in quell’istante che la consapevolezza lo colpì. La condizione simile a una trance causata dall’adrenalina fu sostituita dalla pesantezza della realtà. Gli altri li avevano raggiunti.
Sangue. Sentì del sangue sul viso. Vide del sangue sulle sue mani. Abbassò gli occhi: il sangue gli macchiava i pantaloni. Si voltò e vide Plisetsky chino sul Tenente Altin, un kit di pronto soccorso aperto vicino alle ginocchia. Si voltò di nuovo, dall’altro lato: Phichit, che stava aiutando Victor a rimettersi in piedi, entrò nella sua visuale.
Sangue.
Yuri cercò di alzarsi, ma un peso misterioso lo fece cadere. Guardò di nuovo verso la terra solo per incontrare gli occhi dell’uomo che aveva appena ucciso. I contorni degli oggetti divennero sfocati e confusi. Calciò il cadavere lontano da lui.
Yuri conosceva l’odore di sangue, il suo gusto, l’effetto che faceva sulla pelle nuda. Ne conosceva la sua vischiosità. Conosceva tutto questo, doveva. Eppure, proprio lì, l’unica cosa che seppe era che questo sangue non era diverso da quello di quel giorno, sotto i colpi di un fuoco nemico, con i suoi uomini che chiedevano ordini che non poteva dare.
Questo nuovo sangue rese tutto molto più vivido.
E seppe anche cosa stava per succedere, cosa stava già succedendo. Le unghie morsero la carne mentre riconosceva i così familiari sintomi di un attacco di panico. Tuttavia riconoscerli non servì a niente. Da qualche parte nella sua mente una voce gli disse di fare respiri lenti e profondi. Ma era un ordine che non poteva seguire. Il petto si fece stretto, la gola si chiuse su un grumo invisibile. Cercò di inalare, ma l’aria si rifiutò di entrare in bocca e di raggiungere i polmoni. Ansimò con veloci sibili; un rapido dentro e fuori, accompagnato dal suono acuto di un fischio. Oh Dio, stava iper-ventilando. Sapeva che non era una cosa positiva. Sapeva di dover smettere. Eppure non poteva.
Stava accadendo di nuovo.
I suoi uomini avevano disperatamente bisogno di istruzioni ed egli non riusciva a parlare. Non riusciva nemmeno respirare. Voleva solo rannicchiarsi in un buco e scomparire. La mancanza di ossigeno rese la testa leggera.
“Ehi, cos’ha?” sentì Plisetsky sputare. Che strana cosa. La sua voce proveniva da un posto lontano, sembrava preoccupato. Poco dopo la familiare sagoma del viso di Phichit entrò nel campo visivo di Yuri. Yuri sentì il suo amico prendergli le mani, stringergliele. Non oppose resistenza. Le mani di Phichit erano sudate ma calde. C’erano grossi calli su di esse. C’erano anche macchie di sangue. Sangue.
Phichit tenne le mani di Yuri con una tale gentilezza. Parlò in una voce pacata e costante.
“Yuri, va tutto bene. Cerca di respirare. Respira con me.”
Più facile a dirsi che a farsi. Yuri si costrinse ad inalare ed espirare, con respiri lenti e profondi, seguendo il ritmo di Phichit. Si obbligò a concentrarsi solo sul regolare dentro e fuori.
“Meglio?” Chiese il suo amico quando il respiro di Yuri riacquisito una parvenza di normalità. Yuri annuì. Lasciò che Phichit lo aiutasse a stare in piedi.

I postumi non erano così disastrosi come erano parsi all’inizio, almeno per loro. Ciò, tuttavia, forniva poca o nessuna consolazione. Emil era morto, ucciso all’improvviso perché erano troppo occupati a parlare per badare a quanto stava accadendo intorno a loro. Erano stati avvertiti di quanto fosse pericoloso quel luogo in particolare; erano consapevoli che era stato lì che Leo e gli altri erano incappati in un simile destino. Eppure avevano abbassato la guardia.
Il soldato Nekola non era l’unico caduto in battaglia. Anche il soldato il cui nome Yuri non si ricordava, ma era stato spesso visto nella compagnia del ceco, era stato ucciso.
Yegorov. Soldato semplice Yegorov, giusto.
Una rossa macchia di sangue colorava il panno della sua uniforme, nella parte destra dell’addome. I suoi occhi erano ancora spalancati per la sorpresa, le dita gelate nell’atto di tenere un fucile che gli venne strappato dalle mani e riposto poco lontano. Il Sottotenente Leroy si preoccupò di controllare l’arma.
Michele rimase immobile per terra, le braccia lasciate penzoloni tra le gambe. Otabek lo sollecitò ad alzarsi in piedi, ma quando il Sergente Crispino lo ignorò, dovette afferrare la sua giacca e tirare.
“Dobbiamo fare qualcosa” mormorò Michele, la voce rauca nella bocca secca e appiccicosa. “Dobbiamo fare qualcosa per questo” continuò, sollevando un braccio e indicandolo il cadavere di Emil.
“Lo faremo” assicurò Victor con voce grave, mentre curava le ferite superficiali del Capitano Popovich.
“No, è mio compito” rispose Michele. Si accostò Emil con movimenti robotici. Tenne la testa bassa e gli occhi fissi su ciò che stava facendo. Spogliò con cura il cadavere di tutti gli oggetti che potevano essere considerati utili o troppo importanti per lasciarli in mani nemiche.
Quindi nascosero il corpo tra alcune rocce, calcolarono le coordinate per il futuro recupero e resero omaggio. Fu tutto troppo veloce e superficiale. Fecero lo stesso fatto per il soldato Yegorov.
Riuscirono a marciare per altre due ore prima che il tramonto del sole rendesse troppo difficoltoso avanzare. Prepararono l’accampamento in totale silenzio.

“Mi occupo del turno di mezzo” annunciò Victor. L’apparente gentilezza della sua offerta nascondeva un ordine che non ammetteva repliche. Non che qualcuno avesse voglia di protestare. La recente esperienza li aveva prosciugati fino all’esaurimento. Una folta cappa di intontimento era scesa su di loro, rallentando i pensieri e le speranze nelle loro menti stanche.
Erano tutti abituati a guerra, ai suoi alti e bassi, alla morte. Non era una novità; ma non era qualcosa per cui avessero smesso di soffrire, ognuno a modo loro. Phichit aveva passato l’ultima ora a cercare di sollevare il morale di Michele, aiutato di tanto in tanto dalle pessime battute di JJ. Il Sergente Crispino aveva quindi gridato di lasciarlo in pace da, che stava bene, che non aveva bisogno di sentire una storia divertente su una vecchia signora canadese. Si sedette di nuovo, da solo, l’assenza di Emil ancora più tangibile di quando non lo fosse stata la sua presenza. Dal primo giorno, Emil era sempre stato con Michele, parlando con lui, chiacchierando con lui, rimanendo in silenzio al suo fianco, o tenendogli compagnia.

Plisetsky, al contrario, spargeva rabbia e frustrazione. “Cazzo!” Yuri lo sentì mormorare, la voce costretta a rimanere bassa e alla base della gola. “Cazzo” ripeté, mentre il pugno colpiva il terreno per sottolineare le sue parole. L’inglese presto fu sostituito dal suo nativo russo.
“Avete deciso i vostri turni di guardia?” Il Capitano Popovich chiese ai soldati statunitensi. Si guardarono, prendendo la silenziosa decisione di risparmiare Michele per la notte. Non persero nemmeno perdita di tempo a tirare a sorte. JJ prese l’ultimo turno.
“Allora io prendo quello di mezzo “ continuò Phichit. “E Yuri può prendere -”
“No, la guardia di mezzo è mia” rispose Yuri. Phichit si fermò, il dubbio dipinto sul viso. Chiuse a Yuri se ne fosse sicuro. Lo era. Aveva trascorso le ultime ore a pensarci, riflettendo sulla faccenda nel tentativo disperato di decidere se fosse un semplice capriccio o no.

La morte di Emil aveva improvvisamente reso ancora chiaro come qualunque cosa potesse accadere in qualsiasi momento. Certo, l’idea che Victor Nikiforov venisse ucciso sul campo era più che ridicola; il fatto semplicemente non si addiceva al suo nome. Non suonava bene. Eppure sarebbe potuto essere lui al posto di Emil. Poteva accadere di nuovo e Victor essere la prossima vittima, non importava quanto suonasse ridicolo il pensiero. Yuri non voleva avere altri rimpianti. Ce ne erano già così ad graffiargli la base del cranio.
Yuri aveva trascorso anni ad ammirare Victor, a struggersi, ad averlo ben chiaro in mente. Ora Victor era lì, che viveva e respirava a pochi centimetri di distanza, e di colpo il fatto importava più di quanto non avesse fatto nei giorni precedenti. Prima gli era bastato rimanere vicino a Victor Nikiforov; per Yuri era stato più che sufficiente. Ora ciò non corrispondeva più a verità vero.
Aveva bisogno di parlare con Victor. Doveva dirgli di essere migliore di quanto avesse mostrato. Era migliore di un uomo che non poteva sopportare la vista di un po’ di sangue senza andare in iperventilazione.
“Uno pensa che ci si abituata alla fine” cominciò Yuri appena Victor si fu seduto. “A volte mi chiedo perché ho deciso di arruolarmi. Guardami! Sono uno sciocco. Non riesco nemmeno a uccidere un uomo senza vomitare.”
Una silente risata priva di gioia gli scosse il corpo. Lacrime di vergogna tremarono agli angoli dei suoi occhi. Non sapeva se Victor lo stesse ascoltando o no, ma finché l’altro non lo avesse interrotto sarebbe bastato. Pregò comunque di dilatare quel momento all’infinito.
“Yuri” disse Victor, le mani posate sulle cosce. “Hai ragione. Non credo che questo posto sia adatto per te. Ma questo non significa che tu sia sciocco o codardo.”
Nel dire questo Victor spostò la mano sulla spalla di Yuri. L’uomo ebbe un fremito ma non si mosse. La mano di Victor era pesante, ma in una maniera quasi rassicurante. Le mani di Victor erano state sulla sua schiena, la nuca, il polso e ora la spalla.
Yuri ridacchiò, ma fu un suono senza gioia. Ho iniziato questo per te. Ti ammiravo. Volevo essere come te.
Questo era quello che avrebbe voluto dire a Victor. Sussurrò persino le parole, così sottili Victor non riuscì a sentirle. La sua voce sembrava appartenere ad uno sconosciuto. Le parole non uscivano dalla bocca, ma esistevano già nel tessuto della realtà, apparendo dal nulla.
Tutto questo.
Avrebbe voluto dire tutto a Victor. Lo aveva pianificato; lo voleva. Era pronto. Credeva di esserlo. Non lo era. Non lo fece. Non poté.

Tutto era cominciato quando Yuri aveva quindici, quasi sedici anni. Il complesso termale che la sua famiglia gestiva stava soffrendo gravi problemi economici per colpa di cattivi investimenti e un improvviso calo del turismo nella zona.
I cambiamenti per Yuri e la sua famiglia non erano stati bruschi. I Katsuki aveva sempre condotto una vita semplice e tranquilla, ma Mari aveva di colpo cessato di indulgere in quei piccoli vizi che erano stati la norma solo pochi anni prima. Il cambiamento si era avviato con lentezza.
Erano state le piccole cose: come l’uniforme scolastica di Yuri che avrebbe dovuto essere sostituita dopo che era cresciuto così tanto durante le ultime vacanze estive, ma che invece era ancora la stessa. Era sua madre che parlava con la maestra Minako, chiedendo se avesse potuto continuare a insegnare a Yuri per metà del normale prezzo delle lezioni di danza, in nome della loro passata amicizia. Minako non aveva mai chiesto denaro, a parte una simbolica somma che Hiroko Katsuki aveva insistito a darle finché non era costretta ad accettare. Era Mari che aveva ventidue anni e d’un tratto aveva smesso di parlare di andare in una buona università, di trasferirsi a Fukuoka o persino a Tokyo.
Mari non si era lamentata.
Era la smorfia sul volto di Toshiya mentre esaminava il bilancio mensile con una matita contro graffiava la tempia come se questo avesse potuto aiutarlo a far quadrare i conti. Le uscite superavano sempre le entrate.

Un giorno i suoi genitori lo avevano convocato. Yuri aveva pensato che si trattasse di qualcosa di importante già dal tono delle loro voci. Anche Mari era presente. Furono stranamente diretti. Nessun giro di parole per addolcire la pillola, nessuna via lunga per dire una cosa altrimenti semplice.
“Non è un buon periodo” iniziò sua madre. Parlava mentre si stropicciava le mani grassocce e abbronzate, torcendo i pollici. “E questo mio cugino si è offerto …” disse.
“Può ospitarti per un po’. Finché le cose non cominciano a migliorare” intervenne il marito. Yuri fu informato che questo lontano parente viveva a Detroit. Annuì.
Non aveva davvero una scelta.
Prima di rendersi conto del cambiamento si ritrovò ospite di un lontano cugino, della cui esistenza era stato ignaro finché non gli avevano messo davanti la decisione già presa.

I primi giorni negli Stati Uniti furono uno shock culturale. C’era una sorta di razzismo che ancora resisteva nelle menti di alcune persone, degli vecchi, di quelli che erano vivi ai tempi di eventi come Pearl Harbor. Le persone gli davano buffi nomignoli. Alcuni crudeli adolescenti disprezzavano il modo in cui parlava, andando in giro con le dita all’angolo dei loro occhi per fingere che fossero a mandorla.
A volte la nostalgia era così forte che feriva il petto. Gli annodava lo stomaco. Lo faceva sentire vuoto.
Le chiamate internazionali erano costose e quindi brevi e rare. Yuri attendeva quei giorni con la testa piena di parole e di esperienze che avrebbe voluto condividere con i suoi genitori e la sorella; immaginava il momento in cui avrebbe potuto versare la propria frustrazione e l’eventuale felicità nella cornetta. Eppure tutto quello scompariva nell’istante in cui udiva una voce familiare dall’altro lato. Andava tutto bene. Nulla di cui preoccuparsi. Sì, era felice. Sì, lo zio Takao era molto gentile. Gli affari stavano migliorando? Oh, era una cosa fantastica.
Yuko e Takeshi si erano sposati? Poteva Mari inviare le sue congratulazioni?
Tutto questo mentre le dita sudate lasciavano impronte sulla plastica bianca e nera del telefono. Yuri premeva la cornetta contro l’orecchio come se quello fosse sufficiente per essere assorbito dall’apparecchio e riportato a casa.

Finiva sempre con lo scoppiare piangere nel momento in cui riagganciava. Grandi goccioloni rotolavano lungo le guance, caldi e bagnati, le mani che ancora stringevano il telefono come se ne andasse della sua stessa vita.
Circa tre anni dopo il trasferimento lo zio iniziò ad avere egli stesso problemi economici, la sua condizione finanziaria peggiore di quanto non fosse stata all’inizio. Yuri ricordava bene il proprio desiderio di proseguire gli studi e perseguire un cammino diverso da un destino del cameriere alle terme. Entrare nell’esercito sembrò un piano plausibile.
Ora pareva una cosa talmente stupida.
Victor Nikiforov era già nella sua mente allora. Yuri si abbandonò a quei lontani ricordi. Un giovane Victor figurava già su giornali e televisioni internazionali. Yuri aveva sentito il suo nome sulla radio. Voleva essere come lui.
“Non sono come te” concluse invece, la voce fattasi così flebile da essere appena udibile a causa del suo imbarazzo. Le nocche premute sulla sua bocca soffocarono le ultime parole.
Victor Nikiforov. Era stato come un’illuminazione che gli aveva colpito il cuore, dalla prima volta che lo aveva intravisto durante un veloce servizio sulla situazione in Siria. Victor. Era sempre stato Victor.
Era stato Victor quando Yuri aveva compilato tutti i documenti necessari e si era sottoposto alle procedure per arruolarsi. Era stato Victor quando la vita militare era divenuta la sua realtà. Era stato Victor quando Yuri aveva deciso di rimanere nell’esercito, spinto dal desiderio di dimostrare di valere qualcosa, un desiderio nutrito da ogni volta che un superiore o un compagno lo avevano definito inutile.
Era stato Victor quando Yuri aveva la sua prima esperienza sul campo.
Era stato Victor anche il giorno in cui Yuri era stato degradato.

Il settimo giorno di marcia la squadra si fermò appena. La velocità del loro passo crebbe, l’accuratezza scambiata per il desiderio di raggiungere la loro meta il prima possibile. Era una bella giornata; il cielo di un ricco azzurro, vuoto a parte il sole alto e splendente. Ne registrarono a malapena la presenza, fatta eccezione per il caldo insopportabile che irradiava. Bruciava i loro scalpi sudati, facendo colare gocce di sudore giù dalle spalle e faceva il solletico in punti che non potevano grattare. L’immancabile polvere sfocava i contorti di tutto ciò che si trovava attorno a loro.
Mentre camminavano lungo il ciglio del sentiero, guardando giù, videro quattro piccoli gruppi di abitazioni locali che punteggiavano la valle. Si imbatterono poi in un altro villaggio nel primo pomeriggio, incorniciato dalle montagne. Avrebbero appena notato la sua presenza se non avessero avuto un disperato bisogno di riempire le loro borracce.
Nessuno lamentava la mancanza di pause. Behrooz aveva detto che il villaggio era a tre giorni di marcia, ma aveva aggiunto che il tempo poteva essere ridotto a due giorni se avessero accelerato il passo. Lo fecero. Almeno tentarono. Muoversi su quegli stretti sentieri montuosi stava diventando più facile, i muscoli non dolevano più come i primi giorni e i piedi si erano fatti più stabili. Behrooz doveva fermarsi ad attender chi era caduto ogni giorno di meno. Inoltre il loro gruppo aveva smesso di seguire la tacita regola di alternare nella fila un russo e un americano. Se non altro, l’imboscata era servita ad avvicinarli.
Yuri si mosse in avanti finché non fu dietro Behrooz. Come d’abitudine Otabek era lì, sia come traduttore sia a fare il cane da guardia di Plisetsky.
“Vorrei parlare con lui. Mi piacerebbe se potessi aiutarmi a tradurre se necessario” dsse Yuri. Il Tenente ponderò la richiesta, anche lui gettò uno sguardo verso Plisetsky, ma l’omonimo di Yuri era troppo impegnato a esaminare i dintorni per badare a una piccola chiacchierata.
“Vai avanti” concluse Otabek alla fine.
Yuri inghiottì la saliva. Non aveva mai pensato a questo proposito. “Non sei scappato questa volta” disse. Si sentì orribile nel momento in cui formulò quelle parole. “è stato coraggioso da parte tua”, aggiunse, l’ombra di un sorriso sulle sue labbra secche. “Deve essere stato terribile.”
“Già,” giunse la risposta di Behrooz. Yuri lo guardò, asciugando il sudore dalla fronte impolverata. La bocca aveva perso quasi tutti i denti e rughe profonde segnavano la sua pelle olivastra. Tuttavia non poteva avere più di cinquant’anni. Due occhi intelligenti, blu chiaro, brillavano nelle cavità orbitali, sotto spesse sopracciglia grigie.
“Hai ... hai figli?” continuò Yuri. Secondo i russi, Behrooz era sembrato profondamente preoccupato per un gruppo di bambini smarriti che Leo aveva insistito a voler aiutare. La risposta fu affermativa. Aveva tre figli grandi, due già sposati e una ragazza adolescente che lo sarebbe stata preso. Aveva anche dei nipoti, maschi e femmine; il più giovane beveva ancora il latte dal seno materno, il più vecchio era quasi un uomo fatto e finito. Yuri preferì non chiedersi come la guerra li avesse toccati.
“Questo spetta a noi deciderlo”, giunse una voce familiare. Yuri si voltò. Non aveva notato che Plisetsky era abbastanza vicino da poter origliare. Sebbene non avesse detto niente di minaccioso, nulla che potesse irritare i sovietici, o mettere in pericolo la loro tregua, sentì la gola chiudersi attorno a parole che per fortuna non erano state pronunciate. Il destino di Behrooz non era mai stato discusso apertamente. In pratica era ancora un prigioniero in mani russe. In teoria Yuri era arrivato a credere che i sovietici avrebbero poi lasciato andare alla fine della missione. Non ne era più tanto sicuro.
“Ne discuteremo quando raggiungeremo il villaggio” decise Plisetsky, per grande sorpresa di Yuri.
Yuri Plisetsky fu il primo a essere stupito dalle sue stesse parole.

Plisetsky si ricordò delle parole di Victor di considerare il prigioniero, no Behrooz, come se fosse stato un normale nonno. Ma non lo era. Il suo dedushka era un uomo d’onore. Il suo dedushka non sarebbe mai scappato, abbandonando i suoi compagni. Non avevano niente in comune e mai lo avrebbero avuto.
Per Plisetsky, suo nonno, Nikolai “Kolya” Ivanovich Plisetsky, era stato tutto.

Margarita non si era mai ripresa del tutto dallo stupro. Si era rimessa in piedi, aveva iniziato a cercare con fervore un lavoro - ne aveva trovato uno come cassiera in un piccolo negozio - ma aveva smesso di essere felice, davvero felice. Dopo la nascita di Yuri, Nikolai aveva cercato di convincerla a insistere per essere ri-ammessa nel Bolshoi. Dopotutto in pochi mesi Margarita avrebbe potuto facilmente liberarsi del peso messo su durante la gravidanza, e ci voleva ben più di un anno di pausa perché il suo corpo dimenticasse tutti gli esercizi incorporati nella memoria muscolare. Era ancora giovane, più giovane di venticinque anni, con tutte la possibilità di intraprendere ancora una brillante carriera. Non c’era bisogno di preoccuparsi del bambino, Kolya si sarebbe preso cura di lui mentre Margarita era al lavoro.
Alla fine Margarita aveva accettato di contattare il direttore del Bolshoi. Là aveva insistito di essere ancora flessibile come prima. Le sue gambe erano ancora forti. I suoi piedi erano feriti, rovinati e coperti di cicatrici, con unghie rotte e annerite, ma potevano ben sostenere il suo corpo in una perfetto arabesque. Aveva polpacci forti, ginocchia robuste e cosce d’acciaio. Le chiusero la porta in faccia, sostenendo che adesso era una madre e doveva comportarsi di conseguenza. Il Bolshoi non era più luogo per lei. Nel frattempo un’altra ragazza aveva preso il suo posto come l’eventuale prossima Prima, una ballerina che lei conosceva e con cui era stata in rapporti amichevoli.
“Non ho bisogno di essere un Prima”, supplicò Margarita.
“Va’ a casa”, le fu detto.
Una delle cose che Yuri Plisetsky ricordava meglio dalla sua infanzia, a parte il triste sorriso di sua madre e il modo in cui i suoi occhi si riempivano sempre di lacrime quando un pezzo di musica proveniva dalla finestra di uno dei lussuosi palazzi in cui viveva la società bene di Mosca, era la povertà. Nikolai Plisetsky aveva una piccola pensione militare, sufficiente per vivere con dignità, ma piccola rispetto al quella di altri che avevano fatto più carriera, sia nell’esercito sia all’interno del Partito. Margarita doveva fare gli straordinari e molto spesso era Kolya a prendersi cura di Yuri. Il vecchio fu per il bambino la cosa più vicina a una figura paterna che poté avere. Mescolava mescolato vecchie ninnenanne con canzoni di guerra quando era il momento di mettere Yuri a dormire.
Quando Yuri era un infante, Kolya lo avvolgeva in uno spesso cappotto, una grande sciarpa di lana e morbidi guanti e lo portava a passeggiare per la città. A volte quando la neve che copriva le strade d’inverno era troppo alta, prendeva il nipote sulle spalle. Se passavano davanti a un memoriale di guerra, Kolya gli raccontava storie di guerra dal proprio passato. Yuri ascoltava a bocca aperta, gli occhi eccitati che sbirciavano da sotto un berretto troppo grande per lui.
Yuri aveva dieci anni quando Lilia Baranoskaya lo notò. Si incontrarono per caso mentre Kolya stava accompagnando Yuri a casa da scuola, una mano che teneva quella del ragazzo e l’altra attorno al manico della cartella di pelle. La donna passò loro vicino, lo sguardo incollato all’orizzonte, la testa dritta che la faceva sembrare più alta di quanto già non fosse. Si fermò dopo un metro, girò su se stessa e si avvicinò a loro. Yuri la riconobbe per primo.
Lilia Baranoskaya era una leggenda vivente nel mondo del balletto, il suo nome ben noto a tutte le persone che avevano anche solo una leggera infarinatura della materia. A sessanta anni allenava le giovani generazioni di ballerine, quando non era impegnata a coreografare un programma per una stella nascente nel pattinaggio artistico e nella ginnastica. Si diceva fosse un insegnante di ferro, forte e rigida, inflessibile ed esigente. Ma ne valeva la pena.
“Nikolai Ivanovich”, salutò il nonno di Yuri. “E tu devi essere figlio di Margarita” aggiunse, guardando giù verso Yuri. Nessun affetto ammorbidì i suoi tratti da falco, la severità del suo viso rafforzata dalla stretta crocchia che ne tratteneva i capelli. Yuri la fissò. Dopo una pacca sulla schiena, riuscì a rispondere: “Sì, signora”.
Lilia annuì, visibilmente soddisfatta. Poi si rivolse nuovamente a Nikolai.
“Spero che Margarita stia bene.”
Lilia era perfettamente consapevole di ciò che Margarita Plisetskaya aveva subito, senza che Nikolai dovesse raccontare alcunché. La donna strinse le labbra sottili in disapprovazione. Quando aveva sentito tutta la storia di come il Bolshoi aveva trattato una delle sue ballerine più promettenti, Lilia era stata furiosa. Aveva provato una gelida ira. Se non fosse stato per alcuni ballerini, pieni di potenziale che avevano allenato e che si stavano ancora allenando duramente sotto la sua attenta guida, avrebbe lasciato il teatro.
“Ha la stessa struttura di sua madre. Vedo molto potenziale “commentò Lilia a proposito Yuri. Se la famiglia era interessata, conosceva un buon insegnante di balletto che poteva offrire un prezzo speciale per il talento.
“Ci penseremo.”
Loro fecero. Margarita pregò Yuri di provare almeno una lezione. Yuri non ne era sicuro, il balletto si legava più alla sofferenza che alla gioia nella sua mente. Ma amava anche sua madre e sua madre non era stata così entusiasta in tanto tempo. Promise allora di provare.
Le lezioni di danza non erano realmente per lui e le abbandonò presto, poiché non condivideva quella stessa passione che aveva bruciato l’anima di sua madre. L’esperienza si rivelò comunque utile, perché una famosa pittrice che frequentava il teatro per usare i ballerini come modelli per i suoi quadri notò Yuri durante una delle sue visite.
“Splendido”, esclamò Olga Krylova, indicando Yuri, che stava tenendo una quinta posizione con una mano appoggiata sulla barra. “Vieni qui, ragazzo” chiamò. Yuri guardò l’insegante in attesa del permesso. Quando arrivò, camminò attentamente verso la donna, la schiena dritta e solo i piedi che a malapena toccavano il pavimento di legno. Olga gli girò attorno, esaminando da tutti gli angoli il suo sottile corpo infantile, e lodò i tratti fiabeschi del suo piccolo volto.
“Sei la musa che stavo cercando” dichiarò alla fine del suo esame, per lo sgomento di Yuri.
Nelle settimane successive accaddero due cose. Yuri smise con le lezioni di ballo e Olga Krylova suonò alla porta dei Plisetsky, ribadendo la propria intenzione di usare il bambino come modello per una serie di dipinti. Sarebbe stato il soggetto ideale. Il lavoro sarebbe stato pagato, ben pagato.
Se non l’unica, una delle principali ragioni che spinsero Yuri ad accettare.
La casa di Olga era grande, ma vecchia e puzzava di trementina. Il suo studio era situato dall’altro lato dell’ingresso, perciò durante ogni visita Yuri poteva ammirare un salone elegante, una spaziosa sala da pranzo e un bagno lussuoso. Olga era una pittrice esigente, che esigeva sempre complicate pose di danza e una completa immobilità. Tuttavia era anche gentile e non perdeva mai occasione di viziarlo con un biscotto al burro o una fetta di torta, accompagnata da una tazza di tè caldo, addolcito da latte e marmellata.
Yuri fu il suo modello per quasi quattro anni, gli anni che ricordava con più affetto. Alla fine, tuttavia, arrivò la pubertà. Fu gentile con lui, facendolo crescere altezza senza appesantire troppo il suo corpo magro e del viso da elfo; ma non era più quello di cui Olga aveva bisogno. Giurarono di rimanere in contatto, ma come spesso accade, finirono col perdersi di vista.
Yuri si arruolò a diciotto anni. Aveva due modelli in mente. Il nonno Kolya, certo, e quell’unico Victor Nikiforov, che era già una leggenda.
Posso fare di meglio, si disse, mentre la radio locale lodava ancora una volta le azioni di Victor.
Farò di meglio.
Eppure sfuggire al fascino di Victor era difficile fino ad essere impossibile. Una volta che era venuto a guardare l’addestramento delle reclute, Yuri Plisetsky era tra loro. I complimenti di Victor erano stata freddi, tecnici.
“Hai buone capacità nel combattimento, ma ti muovi troppo. Ed espiri sempre una frazione di secondo in anticipo quando spari” fu la critica di Victor. Yuri strinse i denti e i pugni per la frustrazione, ma ascoltò e si assicurò che il consiglio non sfuggisse dalla sua mente. Odiava Nikiforov per le sue parole e si odiava perché era pronto a prostrarsi ai suoi piedi se ciò significava avere consigli utili. I consigli di Victor gli servivano e questo era insopportabile.
Circa due anni dopo essersi arruolato, Yuri era stato trasferito. Aveva incontrato Otabek subito dopo.
Otabek Altin era appena più vecchio di lui, non parlava molto e aveva occhi affettuosi e intelligenti.
“Hai gli occhi di un soldato” era la prima cosa che Yuri ricordava che Otabek gli avesse detto. “Puoi essere la Fata di Russia, ma hai gli occhi di un soldato.”
Si innamorò subito, una sensazione che all’epoca non poté definire. Non c’era tempo per l’amore nella sua vita, non ora che la gente aveva cominciato a chiamarlo La Tigre dei Ghiacci. Eppure si trovò a desiderare prima la compagnia di Otabek, poi il suo tocco. Più scalava i ranghi, più il suo affetto per il kazako cresceva. Quando il Tenente Altin fu spostato in Afghanistan, circa quattro anni prima, Yuri usò tutti i mezzi a sua disposizione per essere trasferito anche lui. Chiese a suo nonno. Chiese a Yakov Feltsmann, un ufficiale politico, che Yuri aveva conosciuto come ex marito di Lilia.
Chiese a Victor. Ingoiò il proprio orgoglio. Ignorò le suppliche di Otabek di cambiare idea. Corse più velocemente della propria paura.
“La gente fa cose stupide per amore”, gli disse Victor. Yuri rispose che l’amore non aveva niente a che fare con la sua decisione.
“Voi giovani siete così ciechi”.
Victor se ne andò prima che potesse rispondere. A volte la risposta gli stringeva ancora il fondo della gola.
“A cosa pensi?”
La voce di Otabek lo riportò al presente. Buttò giù un po’ d’acqua per cacciare la sensazione di prurito. “ A Niente.”
Quella sera stabilirono l’accampamento, come al solito. Tirarono a sorte per i turni di guardia come al solito. Fecero tutto come al solito, solo che il giorno prima avevano perso due uomini. Phichit provò di nuovo a risollevare il morale a Michele, perché era doloroso vederlo mangiare da solo. Non ebbe molto più successo della prima volta. Nel ripartire la mattina dopo, guardarono in silenzio Michele infilare parte dell’equipaggiamento che era stato di Emil nel proprio zaino .
“Sto bene” disse loro. Era solo un’altra bugia.

Note: Finalmente un po’ d’azione, Michele è in totale fase di negazione, i Victuuri sono l’epitomo dell’incomunicabilità e Yurio potrebbe non arrivare ai trent’anni se continua così. Il prossimo capitolo sarà forse il più lungo di tutti, pieno di avvenimenti, e ve lo dico già con la morte di un altro personaggio. Per chi non ha letto la storia in inglese, si aprono le scommesse (ma vi consiglio di preparare i fazzoletti, il comfort food, i cuscini).
Nel prossimo episodio: Michele comincia ad elaborare il lutto, scopriamo altre cose sul passato di Victor, e un turno di guardia in comune potrebbe essere l’occasione perfetta per confessare i propri sentimenti.
Ma questa è una guerra e mentre la missione si avvicina sempre più alla sua conclusione, ecco che una morte inaspettata rischia di mettere tutto in discussione.
   
 
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