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Autore: _Polx_    19/11/2017    6 recensioni
Il suo non era un animo credente: di rado gli capitava di pregare e mai offriva oblazioni agli Dèi. Quel giorno, tuttavia, decise di seguire un antico rito nella disperata speranza d'ottenere ascolto. Incise un lieve taglio sul palmo della propria mano e lasciò che il sangue spillasse nel piatto di rame, poi pregò in silenzio perché, sebbene gli risultasse tremendamente difficile da ammettere, cominciava a temere per la vita di quel bambino.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Piccole anime infelici'
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Su un ripiano posto accanto al letto di Astar era poggiato, assieme a un bicchiere colmo d'acqua fresca, un fazzoletto di stoffa, candida in origine, ma ora lordata da venature purpuree.
Asor si voltò verso Diamante, che attendeva silenziosamente sulla porta.
“Cos'è?” chiese.
“Sangue” rispose lei con astiosa sufficienza.
“Ed è suo?”.
“Evidentemente” poi, punta dallo sguardo insistente di lui come da uno sciame di spilli roventi, continuò “ne perde quando tossisce”.
“Da quando?”.
“Da questa notte”.
La spavalderia di Asor parve incrinarsi e un alone di incertezza incupì il suo sguardo, tuttavia si alzò e la sua idea non era mutata: “non mi pare stia troppo male” asserì “tornerò domani, dopo il tramonto”.
“Non ti scomodare, Comandante” lo congedò Diamante e chiuse la porta alle sue spalle con colpo secco.
Tuttavia, il giorno seguente Asor tornò come assicurato e s'aspettava di vedere il piccolo Astar vagabondare per casa mentre sua madre impazziva nel tentativo di costringerlo a riposo, ma così non fu. Il bambino dormiva affannosamente nel proprio letto, sommerso dalle coltri.
“È peggiorato?”.
Diamante annuì.
“Le emorragie?”.
“Divengono più frequenti”.
“E la febbre?”.
“Si alza. Ormai fatica a bere, anche se ne ha di bisogno: il suo stomaco non sopporta più alcun peso”.
Asor sfregò insistentemente una mano sul proprio viso, come se questo lo aiutasse a pensare, poi prese una sedia e s'accomodò accanto al lettuccio: “ha dormito molto?”.
“Gran parte della giornata”.
Non titubò a svegliarlo. Schioccò rumorosamente due dita accanto al volto del bambino che sobbalzò nel sonno: “Astar, che combini?” gli chiese affabilmente quando scorse il paio di occhi smeraldini far capolino tra le coperte. Erano abulici e indolenti.
“Come mai sei di nuovo qui?” chiese il piccolo, la voce arrochita dalla tosse e dalla febbre.
Asor sorrise: “vuoi che me ne vada?”.
Astar scosse lievemente il capo, ma persino quel gesto pareva costargli un grande sforzo.
Il Comandante faticò a conservare il proprio sorriso, ma Diamante era già allarmata a sufficienza per entrambi e Astar necessitava di quiete e serenità: “dico sul serio, Astar. Che combini?”.
“Mi sa che avrò bisogno d'un po' più di tempo per far passare l'influenza”.
Asor ridacchiò: piccolo, spaventato e sofferente, ma pur sempre con spirito ben saldo e vivace.
“Ho sete” bisbigliò Astar e lui l'aiutò a prendere qualche sorso.
Il bambino stava già tornando nel tepore delle proprie coltri quando un forte conato lo scosse con violenza ed egli rigettò la poca acqua bevuta assieme a un copioso zampillo di sangue.
Asor balzò in piedi e per poco non rovesciò la sedia.
Diamante accorse ad aiutare il figlioletto che, dal canto suo, guardava il Comandante con colpevolezza: “ti ho sporcato” constatò “mi dispiace”.
“Non fa niente” biascicò Asor e tornò a sedersi al suo fianco mentre Diamante cercava con mani tremanti una nuova coperta con cui sostituire quella ormai sporca.
“È la prima volta che capita?” chiese il Comandante e la sua voce era più lieve di quanto Diamante avesse mai avuto modo di udirla.
“La terza” rispose.
“Mi concedi di restare fino a domattina?”.
Diamante fu sorpresa da quella domanda, ma annuì: “sistemerò una branda”.
Quella notte dormì più serenamente, poiché la rassicurava sapere che vi fosse qualcun altro con lei a vegliare sul bambino.
La mattina seguente, Astar si svegliò con gran fatica, ma si dimostrò ancora lucido e vigile. Tuttavia, la febbre era terribilmente alta e le epistassi dal naso si facevano sempre più frequenti, mentre ormai era difficile per lui tenere a bada la sete: non poteva certo bere con troppa ingordigia o il suo stomaco si sarebbe ribellato.
Asor parve infine convincersi: “mi assenterò per qualche ora” disse a Diamante “tornerò prima di sera”.
Si diresse alla grande Ambasciata, dove molti lo salutarono con riverenza. Indossava la propria uniforme e in essa pareva un nobile guerriero, forte e fiero come pochi .
Con discrezione bussò alla porta dell'ultimo ufficio della sede, un ambiente austero ma assolato, in cui un Generale suo superiore s'attardava in solitudine, immerso in cupi pensieri e impegnato in questioni militari che troppo a lungo la piaga dell'epidemia aveva costretto ad accantonare.
Al Comandante fu concesso d'entrare e il Generale parve lieto di vederlo, tuttavia si trattenne dal chiedergli consiglio, poiché ne intuì il turbamento. Gli domandò dunque cosa l'avesse condotto da lui.
Con poche parole Asor espose i propri bisogni: un medico disposto a visitare un bambino ricoverato nelle campagne e del siero che potesse salvarlo dalla disgrazia.
“Mi spiace sapere che stia soffrendo a causa di questo male, tuttavia sapevamo che non se ne sarebbe potuto sottrarre” replicò il Generale.
“Io lo pensavo” ammise Asor “credevo che il suo sangue l'avrebbe protetto”.
“Così non è stato, evidentemente. Il siero è riservato a coloro le cui famiglie da tempo richiedono protezione da parte del potere regnante. Tra di essi non vi è spazio per un bastardello campagnolo”.
“Se è di denaro che parliamo, poiché sempre di denaro si tratta, rinuncio alla mi retribuzione per il tempo ritenuto necessario. Usufruite dei miei beni”.
Il Generale ridacchiò, d'un suono amaro e gutturale: “no, Comandante, non è di denaro che parliamo”.
“Dunque d'onore. Ebbene, se mettere in mostra il mio bastardo rischia di gettare vergogna sull'arma a causa mia, permetti che me ne congeda”.
“Certo non parlerai seriamente” cercò d'interromperlo il Generale, ma quello era irrefrenabile: “e se neppure questo è abbastanza, che io venga da te congedato con disonore. Quel bambino sta cedendo alla malattia e sono disposto a molto per impedirlo”.
Nello sguardo del Generale vi era tanto sbigottimento quanta cruda irritazione: “per quel bambino io dovrei rinunciare a uno degli Ufficiali più abili e influenti di cui la nostra arma disponga. Per quel bambino, che tu stesso hai accettato di abbandonare all'illegittimità, io dovrei rinunciare al tuo grado”.
“Se l'illegittimità è il più grande ostacolo che lo separa da una cura, allora lo legittimerò. Anche qui, in questo ufficio, con te quale testimone, mio Generale”.
“Per anni è vissuto da bastardo e temo che morirà come tale” concluse quello in un ringhio di esasperato accanimento “e più non insistere”.
 
  
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