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Autore: Il_Signore_Oscuro    21/11/2017    10 recensioni
Il mondo si ricorda solo dei grandi personaggi, di coloro che hanno avuto un ruolo centrale negli eventi più importanti del suo tempo. Mentre il grande meccanismo della Storia divora tutto il resto, precipitandolo nell'oblio. Io però ho scavato e scavato, consegnando alla vostra memoria una storia diversa, una storia che era rimasta nell'ombra. Una guerra più profonda, e combattuta lontano dagli occhi dei molti...
Da oltre dieci generazioni i Cangramo sono i leali alfieri degli Argona, i potenti sovrani della costa orientale di Clitalia, la terra divisa fra i molti re. I Cangramo dominano su una piccola contea nell'estremo sud-est, una contea che comprende il Porto del Volga, la Valspurga alle pendici del Monsiderio e l'antica Rocca Grigia, costruita su un'altura a strapiombo sul mare. I quattro fratelli Cangramo cercheranno di ritagliarsi un posto in un mondo violento e insidioso, intessuto di amori, battaglie, inganni e segreti. Mentre lontano dagli occhi, un male a lungo dimenticato, antico e potente, getta la sua ombra sul futuro degli uomini...
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo I
La dama di bronzo
(Severo)
 


 
Quando si mette piede nel Valga per la prima volta, ciò che subito salta al naso è l’olezzo di pesce: un odore dolciastro e penetrante. All’inizio se ne è disgustati, fa ribrezzo e cresce la voglia di rifuggirlo in tutta fretta. Ma poi si finisce per farci l’abitudine. Si finisce quasi per non sentirlo più, quell’odore: perché è essenza e respiro che permea la gente della città, le assi dei pontili d’ormeggio, l’aria stessa. Allora il Valga è parte d’una persona come la persona è parte della città, e la città un angolo di terra strappato alle spire del mare.
Un dedalo di baracche affollate l’una sull’altra, spazzate dal vento e dalla salsedine, affacciate su di una banchina a ridosso del Golfo del Cane-Lupo. Mentre la Rocca Grigia, dal suo seggio nell’altipiano, veglia sugli abitanti e il porto sotto il suo dominio. Dall’altipiano la terra cade a picco verso est, affilandosi in scuri artigli di scogli che ripetono il loro monito alle navi di passaggio: il cane è docile, ma sveglia il lupo e pagherai con il sangue.

Severo Cangramo, Conte del Valga, ripeteva fra sé e sé queste parole mentre procedeva verso lo scalo, con il suo primogenito al fianco e un manipolo di soldati a far largo nella folla di curiosi.

«Spostatevi, avanti!»
«Lasciate il passo!»
«Largo! Largo!»

Qualcuno fu preso di peso e levato dalla strada, qualcun altro se la diede a gambe ancor prima d’essere veduto. I popolani, ai lati della strada, squadravano il loro signore. Sulla destra un mercante tutto proteso in inchini e riverenze, con il berretto rosso di velluto che gli danzava sul capo.  In segreto la sua lingua schioccava e i suoi occhi scuri si posavano con troppa insistenza sul farsetto sobrio e gli spallacci d’acciaio del Conte, mentre le dita sferragliavano gli anelli d’oro l’uno contro l’altro. Più avanti, sulla sinistra, una donna dai capelli color miele lo fissava e basta, con le braccia  saldamente incrociate dinanzi al petto, una piccola daga di ferro al fianco. Mentre quella che doveva essere la sua anziana madre teneva china la testa in segno di rispetto, con il volto inciso fin troppo severamente dall’età.
E ancora un mendicante avvolto di stracci grigi se ne stava in piedi sorretto dal suo bastone, nella cornice sconquassata dei capelli e della barba ramata. Egli aveva l’ardire di ghignare, strizzando un poco gli occhi verso il Conte e il suo seguito: il suo occhio destro era avvolto da una spessa nebbia, il sinistro era nero come solo la più nera notte sa essere.
Un ragazzo, con un paio di cicatrici a rigargli il volto butterato, teneva il muso e stringeva i pugni ai lati del bacino. Ma il Conte non lo degnò di attenzione: non aveva tempo per gli sciocchi malumori di un ragazzino.

Altre occhiate strisciavano invece lascive, dispensate però a suo figlio: un tempo non troppo lontano avevano accarezzato anche lui. Ma adesso toccava a ‘Bastiano. Ancora nel fiore degli anni, la natura era stata generosa con il suo erede: spalle possenti, occhi chiari come quelli di sua madre e una folta tempesta di ricci castani, che invitavano le dita  a rigirarseli uno ad uno fra i polpastrelli. Il bell’aspetto non era l’unica delle sue qualità, né la più rilevante: il metro e novanta di altezza, combinato ad una naturale predilezione per le armi, ne facevano un formidabile guerriero. Di contro, la breve esperienza e i pochi anni non avevano ancora smussato la sua avventatezza. “Pazienza” si ripeteva Severo “Gliela inculcherò io un po’ di saggezza in quella sua testaccia calda” e con  questo intento aveva fatto del ragazzo il suo scudiero, così che apprendesse come un Conte doveva comportarsi e gestire i suoi affari. ‘Bastiano avrebbe ereditato i titoli e le terre di suo padre, oltre all’attività di famiglia. Di certo Severo non avrebbe lasciato che fosse tutto mandato allo sfacelo dopo che le sue vecchia membra stanche si fossero adagiate un’ultima volta, per non rialzarsi mai più.
Lasciatisi alle spalle la strada principale, scesero per i moli e camminarono attraverso il pontile centrale. Le assi scricchiolavano al passo degli stivali usurati: la salsedine si era insidiata nel legno, marcendolo e indebolendo le sue fibre. Una smorfia di disapprovazione incrinò la bocca del Conte, facendo il suo volto più aspro di quanto già non fosse. I suoi occhi carezzarono la superficie del mare, sospinta dalla risacca: ah, eccolo il vero volto del mare: una distesa grigia avvampata dai riflessi dell’alba, che faceva capolino in una sfera rosso-sangue ad est. Perché al mare piaceva osservarti e aspettare, aspettare giorni, mesi, perfino anni, fino a quando non ti avrebbe preso e portato giù, lì dove neanche la luce del sole può venirti a cercare. Era stato il destino di suo padre, e del padre di suo padre prima di lui. Forse, un giorno, sarebbe stato anche il suo. “Poco male”, pensava. Non gli importava granché di morire, né come sarebbe morto: aveva vissuto abbastanza a lungo da godere delle gioie che una vita piena può offrire. Tutto il resto non era altro che un ‘surplus’.

Una donna scivolò alla periferia dello sguardo: il suo dito indice era proteso verso ovest. Una donna con il corpo di bronzo e opali tristi al posto degli occhi. Le sue vesti d’argento scivolavano sino alla chiglia nel fondo delle acque, e il suo corpo veniva sospinto in avanti dalla prora in legno di un galeone. I manovali del porto, ligi al loro dovere, assicurarono gli ormeggi ai timpani di piombo che sporgevano dalla banchina. Una rampa fu calata dal ponte verso terra, mentre in sull’albero maestro il blasone degli Orinberga raccoglieva gli sprazzi di vento ostentando la sua fierezza: una corona con croci fiammeggianti ad ogni placca, e un drappo bianco a raccogliere lo scudo.
Il simbolo della Capitale e della Città Santa, entrambe sotto l’egida di un’unica potente famiglia. Le Torri gemelle delle Terre Centrali ricongiunte nel sangue e nella stirpe.
Dalla rampa uomini bardati d’acciaio sfilarono avanti, esibendo le loro cappe porpora, le insegne militari e i vistosi pennacchi. Severo li riconobbe al primo sguardo: Pretoriani, soldati devoti al Culto e che rispondevano ad un unico padrone: L’Alto Sacedote di Utopia. Ma non era certo l’attempato Raminus Orimberga quella che scendeva a passo spedito dal ponte del galeone, né uno dei suoi decrepiti gran funzionari, bensì un uomo giovane e di bell’aspetto.
Statura nella media e pelle olivastra come tutti i Rimli, ma con un paio di insoliti occhi azzurri che danzavano il loro sguardo da un anfratto all’altro di Valga, osservando, valutando, studiando. E quel sorriso, sempre mellifluo, stampato in volto. Le vesti canarine stonavano con le tinte spente della città, così come il viso sbarbato e le zeppe sotto gli stivali, che facevano “tac-tac” ad ogni passo.
Dopo una breve riverenza, l’uomo parlò, con voce calda e piacevole.


«Conte Cangramo, e così questa è la famosa Valga.» Accennò a guardarsi intorno, incrociando le braccia dinanzi al petto.
«Certo più rustica della vostra Capitale.»  Ammise Severo, «ma semplice e sincera come la vedete. Lasciate che vi presenti il mio primogenito Sebastiano, sarà lui ad assicurarsi che i vostri effetti personali siano condotti alla Rocca Grigia quanto prima»
«Saluti, signore. È un piacere fare la vostra conoscenza.» Disse il ragazzo, con parole impostate ma dal tono gentile.
«Il piacere è tutto mio.» Replicò lui, con un gesto del capo.
«Bene, immagino vorrete ristorarvi dopo un così lungo viaggio. A tal proposito, com’è andata la spedizione in Ghermandìa?» Chiese Severo, facendo strada a Vittorio Belgi e alla sua scorta.
«Tutto secondo i piani: i locali hanno acconsentito allo stanziamento di una legione in loco e l’entità del tributo per la difesa della Marche Orientali è stato quanto mai… ragionevole».
«Nessun prezzo è troppo alto per tener fuori dai nostri domini Goliath e i suoi.» Convenne il Conte, posando una mano sull’elsa della spada.
«Vi credo sulla parola. Ho sentito che avete avuto l’occasione di affrontare i Mogul ai tempi della Prima Orda».
«Wulfila non era una minaccia paragonabile a quella rappresentata da suo figlio». Replicò il Conte, voltandosi brevemente verso il Belgi.
«Avete ragione, ma rimango convinto che sia stata comunque una grande impresa»
«Come si dice, ai posteri l’ardua sentenza. Non sta a me lodarmi». Concluse Severo, dissimulando la lusinga. «Goliath ha riunificato nelle sue schiere decine di clan, clan che fino a qualche tempo prima si facevano la guerra l’uno con l’altro. È un uomo astuto e intelligente. Wulfila era presuntuoso e avventato, anche se ammetto di aver stimato il suo coraggio in battaglia»
«Ma il coraggio senza discernimento è semplice follia, mio signore». Lo rimbeccò Belgi, senza perdere il suo consueto sorriso.
«Un punto per te, Belgi.»  Concesse, giungendo finalmente all’uscita occidentale di Valga, dove un sentiero sterrato si rialzava attraverso una fitta foresta i cui alberi svettavano come torri nel verde. 
Ad attenderli un paio di pezzati tenuti d’occhio da un giovane garzone: gli abiti di sudicia iuta avevano lo stesso olezzo di letamaio della sua pelle. I suoi capelli erano una stoppa nera e scompigliata. Il Conte lo congedò con due zecchini d’argento, ringraziandolo per il disturbo.


«Non ho cavalli sellati per i vostri uomini.» Disse il Conte, portando le mani ai fianchi.
«Non si preoccupi, possono seguirci a piedi.»

I Pretoriani storsero il naso, se per l’onta di rimanere appiedati o gli odori del Valga, questo non era dato saperlo. Ciò nonostante non diedero seguito al loro disappunto e silenziosi si disposero in tre file da tre, procedendo di buona leva, mentre il Conte e Belgi li precedevano a cavallo lungo lo sterrato. Il sentiero si inoltrava attraverso la macchia verde che circondava la Rocca Grigia: gli alberi dall’alto delle loro fronde parevano osservare il loro passaggio, mentre il gruppo si faceva strada fra le radici insinuate nella terra e qualche ramo che si sporgeva curioso. Il sole si alzava dietro l’orizzonte inondando di luce dorata le foglie che riempivano i rami.
Vittorio osservò ammirato, il sorriso sostituito da un’espressione stupita.


«Che meraviglia… mi chiedo perché la chiamino Selva Scura.»
«Non l’avete ancora vista di notte… » gli fece notare il Conte.
Il mercante ingollò un consistente boccone di saliva, inquieto tutto a un tratto.
«Ho idea che diventi un luogo non propriamente allegro. È una vera fortuna che sia ancora primo mattino.»
«Anche se fosse notte fonda non avreste da temere. I Kelta delle foreste sono legati alla mia famiglia da innumerevoli generazioni.»
«Ho udito della vostra comune discendenza con i popoli silvani e vi dirò» un ghigno ansioso gli tese le labbra «sono ben contento di questa alleanza»
Severo non poté trattenere un mesto sorriso e guardò al mercante con un pizzico di ilarità nella voce.
«Abbiate pazienza, Belgi. Ancora qualche minuto e sarete al sicuro nella Rocca Grigia»

La pendenza del terreno si fece più marcata sotto di loro, ma questo non sembrò affaticare i cavalli. I Pretoriani, d’altra parte, avvertivano lo sforzo e presero a confabulare tra loro in un dialetto che doveva essere quello della Capitale. Erano soldati d’elitè, abituati a scorrazzare per le strade delle città, certo non in ambienti selvaggi come quello. Inoltre era noto che fra i Rimli e i Kelta delle foreste non corresse buon sangue. Le antiche cronache raccontavano che i primi, giunti come coloni da Ellenia, avessero strappato la terra ai secondi, confinandoli nei boschi e nelle steppe della regione.


«Avrei una domanda, Conte Cangramo.» Esclamò il Belgi, distogliendo l’attenzione dell’uomo dai Pretoriani. «Come avete creato un legame tanto proficuo con questi “selvaggi”?»
«I legami di sangue hanno certo aiutato. Ma mio caro Belgi, voi che siete un mercante dovreste saperlo meglio di me: offri agli altri ciò che desiderano e ne otterrai ciò che vuoi tu. Vedete questi alberi?» Disse, sfiorando una corteccia mentre passava. «Lasciamo che siano i Kelta a tagliarli per noi. Conoscono meglio della gente civilizzata i delicati equilibri della natura e così facendo evitiamo di invadere e guastare le loro terre. Paghiamo il loro legname con una percentuale del ferro estratto dalle pendici del Monsiderio, più che sufficiente perché possano fabbricare le armi di cui hanno bisogno e qualche eccedenza. In seguito ci premuriamo di acquistare quest’ultima e di rivenderla sul mercato orientale, dove i prezzi per le armi occidentali sono maggiorati, in quanto considerate merci “rare”.»
«Questo Clan conosce la forgiatura del ferro?» Chiese Belgi, strabuzzando gli occhi.
«Certo, e non sto qui a spiegarvi quanto siano pregiati i loro prodotti. Niente a che vedere con le comuni forge civilizzate: le loro armi sono più robuste, più affilate e per questo di maggior valore.»
«Caspita,» disse quasi fra sé e sé il Belgi, «ho idea che il mio soggiorno qui riserverà ben più di una sorpresa.»
«Oh, non immaginate quante.» Rispose il Conte, mandando il cavallo dal passo al trotto in vista della Rocca Grigia.

 
   
 
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