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Autore: Damnatio_memoriae    17/02/2018    2 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 12
 
♦ Finte commemorazioni ♦

“Nell’assedio di Kalendor tutto andò perduto,
sostituita ogni morale con il dolore più sentito.
E dai portali un esercito avanzava oltre le mura,
morti che ubbidivano a una legge troppo amara”
 

La processione scorreva lenta attorno al perimetro delle mura più esterne. I sacerdoti che aprivano la fila indicavano la strada da percorrere e tra le mani portavano orci di porcellana e vetro dai quali fuoriusciva un vapore denso e profumato d’incenso. Come penitenti, dietro di loro, uomini e donne di Morèa, Tanaro, Nika, Ennon e Kalendor procedevano insieme a testa bassa, in un atteggiamento dimesso, privati dei loro stemmi e vestiti solo di una lunga tunica scura. Perché davanti alla malattia, che quella notte si sarebbe dovuta esorcizzare, qualsiasi ricchezza o appartenenza veniva meno. Insieme recitavano in una melodia malinconica:
 
Che possa il mio canto giungere lontano,
visitando luoghi che non potete più vedere,
cullando il ricordo del vostro sacrificio,
trattando ciascuno come se fosse un capitano.
E non esiste fante, mago, religioso o cavaliere
che non rammenti e pianga il maleficio
della malattia che vi colpì, facendovi cadere.
Moriste tutti come un fiore in balia dell’uragano,
e sentimmo il vostro ultimo respiro fremere.
Oggi ancora ricordiamo, attraverso questo ufficio,
il morbo che invase i nostri regni, lava di vulcano
che brucia ogni speranza e altro non fa credere.
Siete qui sepolti e il nostro canto è l’artificio
che vi permetterà di rinascer come grano
per fare del passato il più bravo consigliere.
 
Le febbri che appena un cinquantennio prima avevano decimato la popolazione del continente, prostrando i borghi, stroncando vite, distruggendo famiglie, non potevano essere dimenticate. Dalla malattia era derivata la carestia e con la carestia la rivolta di Kalendor e la corsa alle armi. Perché dal male nasce male e al peggio, troppo spesso, non c’è fine.
Ophelia e Howel procedevano mesti, con il cuore pesante, ma anche se la schiena era incurvata e la vista non più nitida, l’espressione era attenta e vigile. Theresa li vide lanciarsi occhiate complici e, mentre tutti recitavano, i due anziani ministri aprivano le loro bocche senza emettere alcun suono, quasi non volessero rendersi partecipi di quella commemorazione. Più volte il nuovo Ministro di Morèa si lasciò scappare, a bassa voce, qualche ingiuria, subito stroncata dal padre con un gesto fermo della mano.
«Solo bugie» lo sentì dire Tess a denti stretti «Se solo sapessero la verità…».
La processione continuò fino a quando il gallo non annunciò il nuovo giorno e alle prime luci dell’alba, con i piedi stanchi, i dimostranti si ritirarono. In testa al cupo corteo, il Ministro di Ennon procedeva affiancato dalla sua famiglia, dalla quale Tess, poco più indietro, iniziava a sentirsi esclusa. Non era sicura che Botte di Ferro l’avesse completamente perdonata per aver aggredito sua figlia e, se anche lo avesse fatto, Daia non avrebbe di certo seguito il suo esempio. Dal banchetto della Commemorazione qualsiasi rapporto era cessato, ogni tentativo di riconciliazione era fallito e quello che aveva sempre pensato essere un legame solido era andato in frantumi. Solo più due estranee unite da una passata confidenza e un bacio rubato. Adesso, in mezzo a tutti quegli sconosciuti, in una città piena di inganni, solo i suoi demoni le potevano tenere compagnia. Theresa si sentiva tremendamente sola e spaesata e le voci che sentiva, i ricordi che viveva, gli incubi che prendevano forma nella sua testa, i continui deja-vu, le facevano sospettare di essere ad un passo dal baratro.
Prima di ritornare nella sua stanza per concedersi qualche ora di riposo, provò ancora una volta a fermare Daia, allungando una mano per afferrarle il polso e trattenerla, ma la ragazza non le diede neanche il tempo di muoversi che già si era chiusa a chiave in camera da letto, sbattendole la pesante porta in faccia.
«Daianara!» la chiamò con rabbia, senza però potersi permettere di alzare la voce. «Daianara!» ripetè, questa volta più decisa, sbattendo ripetutamente i pugni contro la porta «Lo so che mi senti. Fammi entrare!».
Nessuna voce le rispose.
«Stupida ragazzina» sbottò infine, lasciando ricadere le mani lungo i fianchi «Non potrai ignorarmi per sempre».
Quando si addormentò, un sole timido aveva iniziato a rischiarare la stanza, ma non fu la luce a rendere il suo sonno così turbolento. Immagini confuse si susseguirono nella sua mente senza sosta: volti sconosciuti, luoghi mai visitati, ricordi dimenticati. In un campo di grano, pieno di contadini intenti a tagliare la legna, una donna dai folti capelli rossi le si avvicinò lenta. La pelle era chiara e lentigginosa, ruvida per il lavoro e scottata per il sole; intorno alla bocca si stavano facendo strada i segni dell’età e gli occhi erano tristi e languidi. Sapeva di conoscerla, anche senza averla mai vista. Ad un passo da Theresa, si arrestò. Alzò la mano tremante e timidamente le sfiorò la guancia.
«Tu…» le sussurrò con voce spezzata «Sei la mia Zelda?».
«No».
«Oh…» si incupì «Lei era così solare, così allegra» una lacrima le corse pesante lungo il viso «Aveva i capelli rossi, proprio come i tuoi. E i miei. E una bocca piccola, dita forti, occhi vispi. La ricordi così tanto».
«Mi dispiace. Se solo potessi aiutarla, io…»
«Puoi restituirmela» la interruppe subito la donna e il suo sguardo si fece di fuoco.
«Non capisco».
«Me l’hanno portata via. Questo corpo non ti appartiene». Improvvisamente la trasse a se, stringendola in un abbraccio soffocante. Le passò le mani sulla schiena con fare frenetico e Theresa riuscì a percepire chiaramente la pelle che fremeva, la carne che si lacerava e la cicatrice che si riapriva.
«Eccolo, eccolo!» esultò la donna con voce distante «E’ il marchio della tua condizione e della mia sconfitta. Perché hai dovuto farle questo? Chi ti ha dato il permesso di portarmela via, chi ti ha dato il diritto di vivere? La mia bambina…ridammi la mia bambina, ridammela!».
Di scatto aprì gli occhi, la fronte sudata, il respiro affannoso, la mente già stanca. Sopra di lei, solo le volte del soffitto. Con un braccio si coprì gli occhi e dentro di lei qualcosa si spezzò. Lo percepì chiaramente nel petto, nel cuore, o forse nella testa, non avrebbe saputo dirlo con certezza. Ma aveva il rumore di una foglia calpestata, o di una goccia che si infrangeva sul pavimento. Aprì la bocca per urlare, ma il suo grido soffocò in gola. Affondò il viso nel cuscino e consumò così il suo pianto più straziante, i nervi a pezzi, ogni certezza svanita, fino a quando anche il piangere non si trasformò in semplice spossatezza. E sperò che nessuno estraesse il suo nome per quella giornata, perché non sarebbe stata in grado di affrontare qualcun altro, se faceva già così fatica ad affrontare se stessa.
Quando anche l’ultima lacrima lasciò la sua macchia sulla stoffa, Theresa si addormentò, e prima di cadere in un sonno senza sogni una voce le rimbombò nel cervello.
Se rimani da sola non sei poi così pericolosa…
 
♦♦♦

«Vorrei» iniziò il Ministro di Ennon, torturandosi le mani callose «Che la nostra legge fosse in grado di far valere i propri diritti o, almeno, che rendesse più difficile infliggere torti. Vorrei che noi, tutti noi, potessimo limitare i danni. Ma sembra tu abbia scelto gli uomini sbagliati per realizzare i tuoi progetti di pace».
Il vecchio Howel si godette l’ultimo tiro della sua pipa, ricavata da un ramo degli alberi di Nika forse ancora prima che il rione divenisse famoso per i suoi legni pregiati. «Io credo» sospirò «Che anche gli uomini più retti possano commettere degli errori, così come dei pessimi strateghi possono vincere una battaglia. Il confine fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è troppo labile per riuscire a capire dove finisce uno e dove inizia l’altro. L’unica cosa saggia che ci è concessa di fare è prendere una decisione che faccia soffrire meno persone possibili. È quella, a mio avviso, l’unica correttezza che ci è richiesta e a cui noi dobbiamo ottemperare» alzò la mano nodosa per posarla sulla spalla del suo ragazzo, come aveva fatto per tanti anni addietro, quando era solo un apprendista «Io vi ho scelto tutti, uno per uno, e non rinnegherei la mia decisione per nessuna ragione al mondo, anche se non posso negare che desidererei foste, sia tu che Kasimir, d’accordo con i nostri principi. L’amore è il più grande motore e il più pesante fardello. Il suo fumo annebbia la vista di molti».
«Eppure» ribattè risoluto Zane «E’ per amore che Hansel si è schierato dalla vostra parte».
«”Vostra parte”?» domandò sorpreso «Dunque tu hai già scelto da che parte stare, stabilendo che la nostra causa è diametralmente opposta alla vostra?».
«Io non so cosa fare».
«E questo è coscienzioso. Solo gli stolti blaterano soluzioni senza fermarsi a pensare di non aver capito la domanda».
Il Ministro di Ennon si strinse nelle spalle. Mai nessun gigante sembrò più piccolo. «Vorrei che Roan fosse qui per consigliarmi» un sorriso amaro gli piegò le labbra «Forse lui riuscirebbe convincere mia moglie a non odiarmi».
«Mia nipote non ti odia, Zane. Ma aveva un cuore troppo grande per sopportare la perdita di Roan e ora ha un cuore troppo fragile per permettersi di veder perpetrata oltre questa barbarie. Siamo guaritori, figliolo. La vita è sacra, per noi, in ogni sua forma. Ma sapremo diventare combattenti, se sarà necessario. Anche ai morti bisogna lasciare una scelta».
«Non volevamo far loro del male».
«Gli sbagli sono concessi a chiunque, purchè vi sia la volontà di porvi rimedio. Quanti sono stati gli esperimenti falliti? Pensa a Lia. Pensa a Lia e a Kasimir che non è riuscito a lasciarla andare e pur di non affrontare il dolore ha infranto le leggi della natura, riportandola ad una vita vuota, ad un corpo fatto di acqua, cenere e terra, non più in grado di sentire dolore, freddo, fame, sete. Per cosa? Solo per avere l’ulteriore conferma di come la vita non possa essere manipolata a nostro piacimento. Cosa gli dicesti allora, Zane? Quali sono state le tue parole?».
L’uomo si stropicciò il viso. Un nodo lo prese alla gola. «Gli dissi» sussurrò «Che sua moglie doveva bruciare, perché la legge non ammette eccezione per i ricaduti».
Howel annuì «E Lia è morta di nuovo. Come Roan, dopo che Isolde gli aveva svelato la verità».
«L’avevo implorata di non farlo».
«Lo amava troppo per farlo vivere nella menzogna».
«Se così non fosse stato, sarebbe ancora vivo».
«Non sarebbe mai dovuto esistere» sospirò il vecchio, abbassando la voce «Cos’è un totem se non il risultato dell’orgoglio degli uomini, che giocano a fare gli Dei?».
Per la prima volta in molti, molti anni, Botte di Ferro non trovò le parole giuste per rispondergli.
«Pensa a tua figlia, Zane» gli disse infine l’ex Ministro di Morèa, alzandosi dalla panca su cui si erano seduti, reggendosi a fatica sulle gambe stanche «Pensa cosa le stai costringendo a tacere, pensa a quello che stai nascondendo a tutti, pensa al dolore di Kasimir se dovesse mai scoprirti».
Zane spalancò gli occhi e un brivido di paura gli corse lungo la schiena. Alzò lo sguardo sul suo maestro, ma nei suoi occhi non vide biasimo, solo malinconia.
«Tu sai?» gli chiese semplicemente.
«Il tuo segreto è al sicuro con me» lo rassicurò Howel, accompagnando le sue parole con un gesto benevolo della mano «E non lo userò contro di te per perorare la mia causa. Sei come un figlio per me e Aaron ti considera suo amico e suo fratello. Ma esigo che tu rifletta sulle tue decisioni. Hai infranto le regole perché la tua legge non sembrava poi così giusta, e forse non lo era davvero. L’unica domanda da porsi è: siamo sicuri che tutti preferirebbero una vita immortale, anche se in schiavitù, alla morte?».
 
♦♦♦

Era già pieno pomeriggio quando Theresa uscì dalla sua stanza, dirigendosi al campo d’allenamento, circoscritto da basse recinzioni in legno. Ne scavalcò una con un salto e i suoi stivali affondarono nella terra umidiccia. La spada legata al fianco, osservò gli altri soldati di Ennon sellare i loro cavalli, portarli chi al trotto e chi al galoppo, perdersi in qualche coccola e in qualche pacca. Intravide anche Byrion montare la sua Meridia, prima di ricondurla nelle stalle.
Un garzone la raggiunse per informarla che il suo totem era pronto, fermo dall’altra parte dello spiazzo. In quell’istante Theresa si sentì, se non sollevata, almeno rincuorata, sicura del fatto che una lunga cavalcata le avrebbe schiarito le idee, perché con il suo totem poteva permettersi di essere semplicemente sé stessa, senza maschere, e non la ragazza pazza che si aggirava per i corridoi osservata e additata da tutti. Solo con Daia era riuscita a provare una sensazione simile, ma lei non c’era più e non era affatto sicura che sarebbe tornata. In ogni caso nulla sarebbe potuto tornare come prima, perché Tess non sapeva per cosa doversi scusare e Daianara non sembrava interessata aiutarla.
Argo, il mantello nero appena strigliato, batteva il terreno con lo zoccolo e quando Theresa gli si avvicinò, drizzò le orecchie. La rossa allungò una mano per accarezzargli il muso, ma appena le sue dita si mossero, il cavallo si scostò, sottraendosi al suo tocco. Lo sguardo di Tess si fece perplesso.
«Cosa c’è?» gli domandò dubbiosa, piegando la testa di lato.
«E’ agitato» le spiegò il giovane stalliere, porgendole le redini
La ragazza alzò gli occhi al cielo. Il suo non sarebbe stato un pomeriggio all’insegna della cortesia. «Sì, lo vedo» sbottò «Perché lo avete sellato? Pensavo di essere stata chiara a riguardo».
Il giovane davanti a lei sembrò costernato. Cercò lo sguardo dei suoi compagni prima di risponderle. «Era l’unico modo per farlo uscire dalla stalla» spiegò.
«Oh, ma per favore» lo liquidò in fretta iniziando a togliere sella, staffe e redini. Lasciò l’imbracatura nelle mani dello stalliere, che a stento riuscì a sorreggerla e fu costretto a farsi aiutare dai due garzoni che lo affiancavano.
«Questo lo prendo io» sussurrò Theresa ad Argo, togliendogli il morso, ma il totem continuò a divincolarsi. Nitrì e nitrì più forte, indietreggiando, scuotendo la testa.
Quando la sua padrona gli salì in groppa, il cavallo quasi non la disarcionò, impennandosi e scalciando.
«Fermo. Fermo». Tess ripetè il suo ordine quattro, cinque, sei volte, con voce sicura, scandendo ogni lettera, e sotto il suo controllo il cavallo smise di agitarsi.
«Che cosa ti prende?» gli domandò all’orecchio, posandogli una mano sul collo. Nel campo, gli altri cavalieri avevano iniziato a guardarla.
Lo mandò al passo e al trotto, ma la sua cavalcata era ormai sfumata. Non riusciva a sentire più nessuna confidenza, nessun legame con il suo totem, nulla di quell’intesa che era sempre esistita fra loro due fin dal primo momento in cui si erano incontrati. Si arrestò in mezzo al campo, incurante di ostacolare gli altri soldati.
Si sistemò la giacca, si asciugò le mani sudate sui pantaloni. Le braccia rigide lungo i fianchi, si piazzò davanti al cavallo. «Guardami, Argo» disse semplicemente, ma fu lei, in realtà, a dovergli cercare gli occhi e quando li ebbe trovati li scoprì grandi, limpidi, attenti e vispi, dolci a loro modo. Quei grandi occhi scuri erano per Tess molte cose. Molte cose, ma non familiari.
Non ti fidare, non ti fidare…
«Argo» lo chiamò ancora, aspettando forse un segno, una risposta.
Non cadere nel labirinto, conosci la strada.
La ragazza trattenne a lungo il respiro e quando espirò sembrò che, oltre ai polmoni, si fosse svuotata un po’ anche lei.
Ad un suo segno, i garzoni la raggiunsero.
«Dov’è il mio cavallo?» domandò piatta, senza mezzi termini.
Lo stalliere aprì subito la bocca per rispondere, poi, temendo in una replica troppo avventata, la richiuse. Passò lo sguardo dalla rossa allo stallone. «E’ qui, mia signora».
«Io non sono la signora di nessuno» chiarì «E questo non è il mio totem. Quindi lo chiederò un’altra volta: dov’è il mio cavallo?».
«Io…» titubò «Non credo di capire. Vi ho portato quello che mi avete chiesto».
«Ho detto» sibilò minacciosa, afferrando il ragazzo per il collo della giubba «Dov’è il mio cavallo?».
Alcuni curiosi iniziarono ad avvicinarsi per assistere alla scena da una posizione privilegiata.
«Non abbiamo altri totem di Ennon, vi ho portato il vostro cavallo. Li curo personalmente, potrei riconoscerli ad occhi chiusi!».
«Non mi interessano le vostre qualità, io voglio il mio Argo e tu ora me lo andrai a prendere o non ti saranno sufficienti due gambe per scappare da me».
«Il vostro cavallo è proprio lì, vicino a voi!».
Theresa rise. «Mi avete presa per una stolta? Lo trovate forse divertente? Credete che un cavaliere di Ennon non sappia riconoscere il proprio destriero?».
«Vi prego, lasciatemi andare!» si divincolò lui.
«Non è il mio cavallo! Voglio il mio cavallo, dov’è Argo, dov’è?!».
   
 
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