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Autore: Water_wolf    01/04/2018    4 recensioni
{ Space!AU | Percy/Annabeth, Luke/Ethan }
È una verità universalmente riconosciuta, che non avere un copilota è meglio che averne uno incapace. Per questo, quando Percy diventa il suo nuovo compagno di volo, Annabeth è tutt'altro che contenta. Costretti a fare squadra, impareranno a fidarsi l'una dell'altro—e a non uccidersi a vicenda.
Nel frattempo, il Primo Pilota Luke è scomparso durante una missione. Tranne Annabeth, tutti lo danno per morto. E quando riceve un inquietante messaggio, non le rimane altro che partire insieme a Percy alla volta dello spazio.
Annabeth lo afferrò per un braccio, lo tirò vicino a sé e guardandolo negli occhi mormorò in tono di minaccia: «Se per colpa tua—perché sarà sicuramente colpa tua—oggi ci schiantiamo, sappi che non smetterò mai di cercare di liberarmi di te.»
Le labbra di Percy Jackson si arcuarono in un grande, sfrontato e deliberatamente provocatorio sorriso sarcastico. «Ricevuto.»

♣♣♣
Copilota. Si erano affibbiati l’un l’altro quella definizione, con sprezzo o affetto a seconda del caso, come una moneta che al posto di testa e croce oscilla tra maledizione e benedizione.
Genere: Azione, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Annabeth Chase, Leo Valdez, Luke Castellan, Percy Jackson, Piper McLean
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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tre

 

Visualizzare e non rispondere è un’arte. Richiede sangue freddo, sfrontatezza e un pizzico di menefreghismo. Al contrario di quanto pensano le masse, l’indifferenza non è la causa, ma il risultato. L’indifferenza è il traguardo che ogni persona cerca di raggiungere quando visualizza e non risponde. L’indifferenza è una mera maschera, un velo, una facciata che cela la complessità insita nel visualizzare e non rispondere.
Annabeth non avrebbe detto di saperla padroneggiare bene fin quando non si trovò davanti il messaggio di Percy Jackson.

thepercyjaxon: se non mi ero sporcato col cibo… perché mi stavi guardando?

Una persona normale non faceva quel genere di domande, o almeno così credeva la ragazza. Anche se il non sapere ti rode dentro e la questione continua ad assillarti, la domanda doveva rimanere entro i confini della propria mente. Esigere una risposta a quel tipo di domande era imbarazzante sia per il mittente che per il ricevente. Il fatto che Percy Jackson—il suo dannato, dannatissimo copilota, ricordò a se stessa—ignorasse quella regola non scritta era un chiaro affronto alla convivenza pacifica.
“Perché mi stavi guardando?” Sul serio?
Annabeth chiamò a raccolta il proprio sangue freddo, la sfrontatezza che salvava per le occasioni speciali e giusto il pizzico di menefreghismo che le serviva. Dunque, visualizzò e non rispose. Si infilò il cellulare in tasca e, decisa a dimenticare persino che quel messaggio esistesse, imboccò il corridoio che l’avrebbe portata ai dormitori.
La mente umana è di una forza sorprendente, quando si applica con tutta se stessa a un solo compito. Quella di Annabeth era particolarmente decisa nel suo intento e difatti riuscì benissimo a rimuovere dalla propria memoria l’inconveniente, finché non giunse il momento di recarsi all’ultima lezione della giornata. Aggrappandosi con le unghie all’illusione da lei stessa creata, raggiunse l’aula 107 e si sedette al banco che occupava di solito. Tirò fuori il tablet e fece finta di sistemare i propri appunti, in modo che Percy la trovasse occupata al momento del suo ingresso in classe. Niente avrebbe potuto impedirgli di importunarla comunque, ma sperava che il ragazzo conoscesse la nozione di rispetto.
I suoi occhi fissi su quanto aveva scritto della precedente lezione di Meccanica I, ovvero non molto, non lo vide arrivare, ma lo sentì scostare la sedia alla postazione dietro la sua. Le si rizzarono i peli delle braccia e una scarica elettrica le attraversò il corpo. Le prudeva la schiena dove percepiva il suo sguardo.
Annabeth visualizzò e non rispose al panico crescente.
Non ebbe tempo di rifletterci oltre, perché Efesto fece il suo ingresso e nel giro di due minuti si era lanciato alla carica con il nuovo argomento di quella lezione. Le dita di Annabeth iniziarono a muoversi sul tablet di loro spontanea volontà, riportando simultaneamente tutto ciò che usciva dalla bocca del professore. La speranza—vana, ma comunque speranza—era che bastasse per capirci qualcosa in un secondo momento. Dopo un’ora e mezza di rap ininterrotto, le facevano male i polpastrelli e le andava insieme la vista. Efesto, invece, non aveva bevuto nemmeno un sorso d’acqua.
Un condannato a morte, alla notizia di essere stato graziato, sarebbe stato meno contento e sollevato di lei allo squillo della campanella.
In un movimento unico e armonico che nessuna coreografia sarebbe mai riuscita a riprodurre, gli studenti scostarono le sedie, balzarono in piedi e si affrettarono ad uscire. Annabeth osservò con invidia i suoi compagni andarsene e sospirò. Alle sue spalle, un uguale verso di sconforto la fece girare. Percy si stava passando una mano sul viso; quando la notò, scosse la testa e le rivolse uno sguardo sconsolato.
Annabeth aveva appena aperto la bocca per pronunciare parole di conforto, che la voce del professore la interruppe.
«Jackson, Chase» li chiamò. Un sorriso divertito aleggiava appena dietro gli angoli della sua bocca, ma probabilmente se lo stava immaginando. «Prima di andare, voglio augurarvi buon lavoro. Spero che questa punizione possa esservi d’insegnamento e rafforzi il vostro legame. Oh, ecco l’arpia a portavi tutto ciò che vi serve» disse, facendo un cenno alla bidella aliena affinché entrasse. Recuperò la propria borsa e si avvicinò alla porta. «Forse pulendo quest’aula rifletterete sull’importanza della Meccanica. Ma non vi rubo altro tempo, dopotutto credo ne abbiate molto bisogno.»
Uscì col suo passo zoppicante. L’arpia, una delle creature dalle fattezze rapaci che da sempre si occupavano delle pulizie al Campo Mezzosangue, riservò loro un’occhiata di disprezzo e lo seguì poco dopo.
Percy aspettò che si fosse allontanata un po’ nel corridoio, prima di alzarsi in piedi in uno scatto che la diceva lunga sul suo stato d’animo e ripeté le parole di Efesto. «“Spero che questa punizione possa esservi d’insegnamento e rafforzi il vostro legame”» motteggiò. «Sicuramente rafforza la mia di ammazzarmi. O ammazzare lui.»
Annabeth si alzò a sua volta e si diresse verso il materiale lasciato dalla bidella. «Dubito che avrai le forze per commettere un omicidio, dopo questa sera» commentò sospirando.
«Già» replicò il ragazzo, raggiungendola. «Allora diciamo che rafforza la mia intenzione di non alzarmi dal letto prima che senta delle vere cannonate, domani mattina.»
Annabeth sogghignò. «Forza» lo incitò, passandogli una scopa. «Prima iniziamo, prima finiamo. E di meno cannonate avrai bisogno domani.»
Si sistemò la coda di cavallo, dopodiché si armò di straccio e spruzzino e puntò la cattedra. Percy si liberò della giacca della divisa, la appoggiò su una sedia e, dopo l’ennesimo sbuffo, si accinse a spazzare il pavimento. Annabeth non si ricordava l’ultima volta che aveva dovuto pulire alla vecchia maniera. Ormai, i supermercati erano invasi da robot di piccole dimensioni in grado di fare qualsiasi cosa, dallo spolverare al lavare i vetri. Era possibile che le nuove generazioni non sapessero nemmeno farle, le pulizie alla vecchia maniera, tanto erano abituati a quel tipo di macchine.
«Come fai ad essere così serena?» le chiese Percy, dopo un po’. «Non sei nemmeno leggermente incazzata?»
«Oh, ti assicuro che lo sono» rispose lei, ridendo. «Ieri hai visto la mia reazione, no? Sono solo più brava di te a nascondere la frustrazione.» Spruzzò altro prodotto sulla superficie liscia del tavolo e riprese a strofinare. «Poi, non è la mia prima punizione.»
Il ragazzo smise di spazzare per un secondo. «Maddai. Non ci credo» disse, scrutandola con sorpresa e curiosità.
«Mm-mm.»
«No» ribatté lui, ancora scettico. «Hai voti alti, sei sveglia e piaci ai professori. Tu sei una brava ragazza, Annabeth Chase. E una brava ragazza non finisce in punizione. Non sei un tipo difficile, non sei me.»
Stuzzicato il suo interesse, la bionda alzò la testa e gli chiese: «Pensi di esserlo sul serio?»
Percy ricambiò lo sguardo. «Un tipo difficile? Sì, direi che la definizione mi calza.»
Se non avesse distolto gli occhi subito dopo, probabilmente Annabeth non si sarebbe accorta che l’etichetta che si era accollato con tanta prontezza gli pesava.
«Essere iperattivo non fa di te un ragazzo difficile» rispose. Al suo mostrarsi sorpreso, aggiunse: «Non ci vuole un genio a capirlo. In palestra reagivi molto meglio degli altri agli stimoli, ma stare seduto su una sedia e seguire la lezione ti è quasi impossibile. Ho dedotto fosse a causa di un disturbo da deficit dell’attenzione e, a quanto pare, non mi sono sbagliata.»
«Per niente» ammise il moro. «ADHD e dislessia: il cocktail perfetto.»
«Lo so.»
Percy creò un altro mucchietto di polvere e sporcizia, prima di domandare, sarcastico: «Davvero?»
«Mi dispiace rovinare l’immagine di brava ragazza che hai di me, Jackson» replicò lei, infastidita dal suo tono saccente, «ma non sei l’unico tipo difficile, qui. Sono dislessica anch’io, però questo non mi ha mai impedito di raggiungere gli obiettivi che mi ponevo. Da piccola è stata dura, poi, con le giuste tecniche e i giusti trucchi, ho imparato a conviverci e a non considerarlo un freno.»
«Va bene, Sapientona. Ora sono curioso di sapere come hai fatto a finire in punizione prima d’oggi.»
«Alle medie, trovavo le ore di Inglese estremamente noiose. Così mi portavo da casa dei libri e li leggevo, al posto di stare attenta. Quando l’insegnante mi ha scoperto, mi ha chiesto perché e diciamo che la riposta non le è piaciuta» raccontò. Si bloccò a metà movimento e scoccò un’occhiata al suo compagno. «Come mi hai chiamata, scusa?»
Percy si produsse in un largo sorriso. «Ero sicuro che mi avessi sentito.»
La bionda lo fissò a bocca aperta per qualche secondo. Percy Jackson non era un ragazzo difficile, era un ragazzo sfrontato. Ma la sottovalutava, se pensava che bastasse così poco per farle perdere le staffe.
Sorrise a sua volta, recuperando il suo aplomb. «Be’, vedo che hai capito chi ha ragione e chi no, qui» replicò. Si avvicinò alla prima fila di banchi per pulirli, e aggiunse: «Ora dovrebbe essere il tuo turno di condividere come in passato sei finito in punizione.»
A Percy sfuggì una mezza risata. «Mi è toccato così tante volte che ormai i motivi si confondono uno con l’altro. Di solito non era direttamente colpa mia, anche se sembravo una calamita per i guai» disse. «Conoscevo l’ufficio del preside meglio di qualsiasi altra aula. Ed era così per ogni scuola che ho frequentato.»
Ammantare le proprie parole di ironia è un’arte, il tipo perfetto per ingannare chi ti sta intorno, perché nessuno sospetta che chi ride di tutto, soprattutto di se stesso, sia capace di provare una grande sofferenza. Percy la praticava molto bene e molto spesso, eppure Annabeth riusciva a vedere dietro quella maschera.
Gli diede un colpetto sulla spalla e ammise: «Okay, forse sei davvero un tipo difficile.»
Riuscire a farlo ridere di cuore le strappò un sorriso. Come galvanizzato da quell’ultima battuta, Percy si frugò in tasca e tirò fuori il proprio cellulare. «Ho appena capito cosa manca.»
Annabeth aggrottò la fronte. «Ehm, cioè?»           
«Musica» sussurrò il ragazzo come se le stesse rivelando un segreto. Visto che lei non reagiva, esclamò: «Musica! Qui manca della musica!»
Premette freneticamente alcuni tasti, alzò il volume e piazzò il telefono sulla cattedra. Pochi secondi dopo, gli altoparlanti spararono un vecchio tormentone estivo. Attento a rispettare il ritmo, Percy gettò la polvere che aveva raccolto, girò attorno a lei e stese un braccio per afferrare il moccio in tempo per il ritornello. Buttò indietro la testa, scosse i capelli e quando ritornò su passò una mano sul ciuffo, dandosi arie da John Travolta.
Annabeth lo osservò muovere i fianchi e sillabare il testo della canzone, che doveva conoscere parola per parola, mentre passava il pavimento. Non sapeva se scoppiare a ridere, ritenersi scioccata o unirsi a lui. Nel dubbio, rimase impalata al suo posto a fissarlo come si fissano le tigri allo zoo: con timore e meraviglia.
Percy aveva quasi finito di lavare l’intera stanza, quando partì un altro pezzo. Si udirono appena le prime note e subito il ragazzo spalancò gli occhi, facendo gesti perché lei si muovesse. «Questa non posso ballarla da solo» disse velocemente e con un che di categorico. «Forza.»
Annabeth fece un passo indietro. «No, no, no. Io non ballo.»
Il ragazzo la inchiodò al suo posto con uno sguardo penetrante. «Tutti ballano i Blues Brothers» disse, e le porse il braccio. Quando intuì che si sarebbe rifiutata ancora, aggiunse: «Mi dispiace, ma questo messaggio non puoi visualizzarlo e basta.»
La bionda sgranò gli occhi, esclamò un “cosa?” strozzato e fece un altro passo indietro, ma Percy le prese una mano e la tirò fuori dall’aula mentre la canzone attaccava con Uhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh! Twist it!
Si riprese in tempo per seguirlo in una danza sfrenata nel mezzo del corridoio, cercando di stare dietro al ritmo incalzante.
Shake it, shake it, shake it, shake it baby! Here we go loop di loo! Shake it out baby! Here we go loop di lie!
Percy non le lasciò la mano un secondo, mentre si molleggiava sulle gambe ed eseguiva i passi con una scioltezza che in quel momento Annabeth gli invidiava parecchio. Aveva il fiatone e i capelli le stavano finendo tutti in faccia e ballare non le era mai piaciuto. Eppure sentiva il petto pieno di qualcosa molto simile alla gioia e sorrideva e una parte di lei voleva continuare a scatenarsi altri cinque minuti, solo altri cinque minuti.
Ma la canzone finì, e Annabeth si ritrovò con la schiena appoggiata alla parete, le ginocchia deboli e i polmoni in disperato bisogno d’ossigeno. Percy si sistemò la maglietta arancione del Campo, che gli era salita fino a scoprirgli il ventre, e si avvicinò a lei con un ghigno che andava da orecchio a orecchio.
«Visto?» la pungolò, ma anche lui era a corto di fiato. «Tutti ballano i Blues Brothers, persino Annabeth Chase.»
«È stato un caso, Percy Jackson» replicò lei, divertita dal fatto che avesse usato il suo nome completo e non volendo essere da meno. «Mi hai preso in contropiede.»
Il ghigno del moro non vacillò. «Non credevi avrei tirato fuori la storia del visualizzare e non rispondere? Perché non l’hai fatto, comunque?» indagò.
Annabeth si impose di non distogliere lo sguardo e mostrargli quanto le sue parole la spiazzassero. «Perché la tua era una domanda stupida, Jackson» lo apostrofò. «Pensavo fossi in grado di arrivarci da solo, ma evidentemente ti ho sopravvalutato. Ti guardavo perché volevo farlo. Ora, se non hai altre domande idiote, abbiamo altre dieci aule da pulire.»
Gli diede le spalle e si incamminò verso la prossima stanza, lasciandolo lì inebetito a fissare il muro.
 
 
Era mezzanotte meno un quarto quando Annabeth rientrò nella propria camera. Lasciò che la porta si chiudesse automaticamente alle sue spalle, mentre si sfilava le scarpe e iniziava a spogliarsi, gettando tutto sulla sedia accanto alla piccola scrivania metallica. A parte i diversi gradi di ordine, non c’erano differenze tra le stanze dei cadetti.
Togliersi il reggiseno fu una liberazione tale che la ragazza sospirò letteralmente di sollievo. Mosse le spalle, sciogliendo la schiena che le doleva. Pulire alla vecchia maniera era estenuante; come avevano fatto generazioni e generazioni di uomini ad andare avanti così? Pensare che aveva altre cinque sere di quel tormento le fece sprofondare il cuore.
Si infilò svogliatamente la maglietta del pigiama e, con ancora metà t-shirt a coprirle la faccia, si diresse in bagno. Si lavò i denti in una sorta di stato catatonico. Il suo riflesso nello specchio—ricci biondi spettinati, sguardo spento e occhiaie—non batteva ciglio. Una parte di lei si chiese: sei davvero andata in giro in questo stato tutto il giorno? La voce del suo amor proprio e della sua autostima rispose: e anche se fosse? Da quando ti importa? Un’altra parte di lei, più prepotente, brontolò: dormire.
Per quanto il suo corpo lo desiderasse, Annabeth aveva un’ultima faccenda da sbrigare prima di potersi concedere il lusso del riposo.
Cercò i pantaloni a tentoni e pescò il telefono da una delle tasche. La luce intensa dello schermo la abbagliò per un attimo. Mentre inseriva il codice di sblocco, le sue gambe la portarono a letto e si infilarono sotto le coperte. Come ogni sera o ogni altro momento in cui fosse completamente sola, aprì l’applicazione che lei stessa aveva creato. Si agganciava ai server della sala di controllo del Campo Mezzosangue e si inseriva nel sistema di invio e recezione di informazioni.
La maggior parte delle volte si trattava di comunicazioni tra la Terra e la base spaziale, la base e astronavi in avvicinamento o tra loro e altre stazioni orbitanti attorno ai pianeti del Sistema Solare. Occasionalmente captava scambi con alieni di passaggio e incerti della loro posizione attuale all’interno della Galassia. Non era così strano, considerato che il pianeta blu aveva un’ubicazione periferica, rispetto ad essa. Molti allievi ci scherzavano su, dicendo che la Terra era l’Australia dello spazio.
Ma ad Annabeth non interessava nulla di tutto ciò. Se aveva inventato quell’app che, tra l’altro, violava almeno cinque regole fondamentali della base, era nella speranza di ritrovarlo. Perché Luke Castellan, astro nascente dell’aviazione intergalattica nonché Primo Pilota del Campo, non poteva semplicemente scomparire nel nulla.
Doveva aver lasciato una traccia, per forza. Annabeth lo pensava ogni volta che si apprestava a quel compito, e ogni volta la convinzione si radicava in lei con più tenacia. Quella traccia c’era e lei l’avrebbe trovata. Era passato troppo tempo perché l’indignazione facesse ancora presa su di lei, soprattutto in una notte come quella, quando i muscoli le dolevano per i movimenti inusuali e il cervello non connetteva dopo le interminabili ore di lezione. Eppure, si chiedeva ancora come fosse possibile che tutti si fossero rassegnati.
Al Campo, Luke era una personalità: con un passato fumoso alle spalle, una cicatrice che gli correva lungo la guancia a ricordarlo, un innegabile talento per il volo e un sorriso che faceva impazzire, il suo nome non mancava mai di essere pronunciato tra i corridoi. C’era chi lo venerava, chi lo disprezzava e, soprattutto, chi lo invidiava. Niente di tutto questo gli aveva impedito di essere dimenticato.
Annabeth scorse il registro di comunicazioni avvenute, in cerca di anomalie. Non notando nulla di fuori dall’ordinario, controllò se qualcuno avesse risposto al segnale ad onde lunghe che il sistema trasmetteva ininterrottamente, appoggiandosi segretamente all’antenna del Campo. Aveva fatto del suo meglio per camuffarlo, in modo che nessuno dei piani alti si accorgesse di quello che stava facendo. In ogni caso, Luke o chiunque fosse entrato in contatto con lui non avevano reagito.
Annabeth emise un lungo sospiro tremante. Gettò un’ultima occhiata allo schermo, dopodiché appoggiò il cellulare sul comodino e si sistemò meglio sotto le coperte. Rimase a fissare il soffitto scuro, calmando il proprio animo in tumulto. Perché niente le assicurava che Luke non fosse morto per davvero, niente le assicurava che gli altri avessero torto e lei non fosse una povera illusa. Certe notti, quelle più dure, si era poste quelle domande allo sfinimento, l’angoscia e la disperazione due mani che si stringevano attorno alla sua gola fino a toglierle il fiato.
Chiuse gli occhi.
Dietro le palpebre, lui era ancora lì. Riusciva a vedere la sua uniforme tirata a lucido, le mostrine di Primo Pilota che brillavano sul lato destro del petto. Teneva il casco sotto un braccio, e i suoi capelli biondi tenuti corti parevano illuminare la stanza. L’aveva salutata giusto qualche minuto prima.
«È una missione da nulla. Dobbiamo solo raccogliere qualche campione di terreno e poi a casa» le aveva detto. «Sarò di ritorno entro domani mattina. Non sentirai nemmeno la mia mancanza, piccolo copilota.»
Lei aveva inarcato un sopracciglio e gli aveva ripetuto per la centesima volta che non voleva essere chiamata così. «Va bene che sei più grande di me, ma questo non ti dà il diritto di comportarti da bullo. Soprattutto se devi ancora prendere il diploma e completare le tue ore di volo» l’aveva rimbrottato, pungolandolo su uno dei suoi punti deboli.
Luke era troppo abile, oltre che troppo consapevole delle sue capacità, per seguire il percorso normale. Aveva praticamente costretto il direttore a consegnargli il titolo di Primo Pilota, così il Signor D., in aggiunta ai doveri del suo ruolo, l’aveva obbligato a seguire le lezioni finché non avesse superato tutti gli esami e raggiunto il monte massimo di ore di volo. Per questo, si era ritrovato al fianco Annabeth nel simulatore.
«Ti sbagli» aveva ribattuto il ragazzo. «L’anzianità mi dà precisamente questo diritto.»
Si era allontanato sorridendo e aveva raggiunto il resto della squadra, composta da un altro pilota e due scienziati.
In seguito, Annabeth si era pentita di non avergli nemmeno augurato buona fortuna.
La mattina seguente, Luke non era tornato. Nessuno lo era.
La mattina seguente, Chirone e il Signor D. avevano convocato gli studenti in aula magna e avevano mostrato loro un filmato. Mostrava l’atterraggio dell’astronave su Gaia, un pianeta distrutto a causa di un’esplosione all’interno del suo nucleo. Mentre gli scienziati scendevano e procedevano alla prelevazione di campioni, la voce di Luke, fuori campo, stava riferendo i dati sullo stato del carburante e altre minuzie del genere. Poi il video aveva iniziato a scattare, l’audio a farsi intermittente. L’ultima cosa che videro fu la schermata nera, accompagnata dal grido dell’equipaggio. Infine, il bip che annunciava la perdita di segnale. Il direttore aveva spiegato che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per ritrovare l’equipaggio scomparso, ma, data la natura di quell’ultima trasmissione, i ragazzi avrebbero dovuto prepararsi a dire addio ai loro compagni più anziani.
Quattro settimane e nessuna novità dopo, Luke e il resto degli uomini erano stati dichiarati deceduti in missione. Si era tenuta una cerimonia in loro onore. Chirone aveva fatto un discorso solenne e commovente, che aveva portato alle lacrime molti studenti. Al termine di esso, aveva assegnato agli scomparsi una medaglia per il loro valore. Annabeth aveva gli occhi asciutti e la bocca atteggiata in una smorfia, incredula e disgustata da ciò a cui stava assistendo. Non credeva possibile che la questione fosse chiusa, che le ricerche sarebbero terminate. Non c’era nessuno indignato quanto lei, in quella stanza? Non c’era nessuno non disposto ad accontentarsi?
Fu in quel momento che giurò a se stessa che non avrebbe dimenticato Luke, che avrebbe continuato a cercarlo finché non l’avesse trovato o avesse ottenuto una prova definitiva della sua morte. Voleva la verità tanto quanto voleva Luke.
Annabeth si rigirò sotto le coperte, spostandosi di lato e scacciando via i ricordi dolorosi.
Da allora erano passati due mesi, forse qualcosa di più. Non se ne era resa conto fino a quel momento. Era certa che se avesse provato a parlare con qualcuno delle sue indagini, del suo scetticismo e, non lo si poteva negare, della sua testardaggine, l’avrebbe presa per pazza. Violando tutte quelle norme, stava mettendo a rischio la sua permanenza sulla base, il suo intero futuro come pilota, per cercare una persona che con ogni probabilità era morta.
Avrebbe dovuto farsene una ragione, ma non ci riusciva. Non voleva. È quello che succede quando perdi una persona troppo importante, pensò Annabeth, ormai prossima ad addormentarsi.
Luke si era sbagliato. La sentiva la sua mancanza, diamine se la sentiva.



Angolino dell'autrice
Innanzitutto, buona Pasqua a tutti.
So che questo capitolo è più breve dei precedenti, me ne scuso, ma volevo preservare l'unità narrativa e aggiungere un'altra parte mi sembrava un po' troppo, viste tutte le nuove informazioni. Qui si delinea la vera tram di questa fic.
La canzone a cui faccio riferimento è "Twist It (Shake Your Tail Feather)" del film dei Blues Brothers. Se non la conoscete, andate ad ascoltarla e a guardare quei film, sono meravigliosi! Trovo impossibile ascoltare questa canzone e non sentire la voglia di mettersi a ballare.
Se anche voi visualizzate e non rispondete, o peggio, non visualizzate nemmeno (bestie di satana), lasciate una recensione e giustificate il vostro comportamento ignobile.
Se invece i vostri messaggi vengono visualizzati ma rimangono senza risposta (vi capisco), lasciate una recensione e ditemi con chi e perché vi capita.
Grazie a chi sta continuando a leggere questa storia, un capitolo ogni due settimane, alla prossima!

Water_wolf
  
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