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Autore: shilyss    10/05/2018    7 recensioni
Ecco a voi una raccolta di shot legate alla fanfiction "Tutte le tue bugie." Nonostante alcuni riferimenti alla long fic, potete leggere i vari capitoli anche considerandoli come testi scollegati rispetto alla storia madre.
Dal capitolo 1: Se Loki fosse stato meno sarcastico, se nei suoi occhi chiari Odino avesse visto l’ombra di un sincero pentimento, le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma Lingua d’Argento era stato sprezzante e tronfio e si era presentato ammantato di tutta la sua feroce eleganza di fronte al padre adottivo che non lo aveva chiamato figlio, ma prigioniero. Un altro imperdonabile errore dovuto non alla mancanza di discernimento di Odino, ma all’amara constatazione di come Loki, il suo brillante figlio, non fosse poi così acuto come pensava e sembrava.
Dal cap. 4: Solo che Loki era un furfante travestito da principe, un cantastorie come nemmeno nelle piazze più oscure della città se ne trovava uno uguale.
Non tutto è come appare, quando di mezzo c'è il dio dell'inganno in persona.
Capitoli 3-9: Barbare usanze;
Cap. 10 - Forse era scritto nel destino.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Lime, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La tela degli inganni'
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LEGGIMI!
 
Caro Lettore, finalmente sono tornata ad aggiornare questa storia. Dato il tema delicato, ti chiedo di arrivare fino alla fine del testo e, soprattutto, leggere le note fino in fondo. Questo capitolo è la prosecuzione del precedente. Buona lettura!

Vie di fuga

 
 
Il Concilio era composto da un gruppo piuttosto eterogeneo di vecchi arcigni, giovani imbolsiti, molli nobili di toga(1) dai lineamenti marcati e la bocca piegata perennemente in una smorfia carica di disgusto. Rappresentavano degnamente una classe sociale e politica stantia, che viveva di privilegi acquisiti inamovibili, almeno all’apparenza. Tutti i presenti dovevano qualcosa al dio dell’inganno. Loki Laufeyson si era insinuato nelle loro vite e negli affari che gestivano da generazioni con una serie di abili colpi di mano che avrebbero, probabilmente, fatto di lui il signore di Vanheim anche a prescindere dal suo matrimonio con Sigyn. Ma degli Asi e degli Jotunn si diceva che fossero inclini ad assecondare i loro bassi istinti, ed ecco spiegato perché la nipote di Njord sfoggiava alta oreficeria dei Nani come fede. Quando Lingua d’Argento entrò assieme alla moglie, gli occhi di tutti i presenti si posarono con una certa curiosità sulla giovane donna. Che ci faceva Sigyn, in quel luogo?

Da un lato, la principessa suscitava nei membri del Consiglio un certo patriottico orgoglio: lo scostante e inafferrabile Loki l’aveva sposata e persino portata con sé durante alcuni suoi viaggi, per mostrarle le meraviglie dei Nove Regni. In pubblico la teneva sempre in gran considerazione, ma senza essere eccessivamente manierato. Dall’altro, lei aveva sposato uno straniero e alcuni non l’avrebbero mai perdonata per questo.

Ad ogni modo, Njord aprì la discussione del giorno e Loki prese la parola. Spiegò agli illustri Vanir i numerosi e strabilianti progressi ottenuti durante le trattative per l’acciaio dei Nani (2), sorprendentemente a buon punto, promettendo allo stesso tempo un futuro di prosperità e ricchezza. La sua voce era eloquente, vibrante, decisa e chiara. Incantò i presenti allettandoli con possibilità reali, intense, vere, succulente. In molti erano pronti a giurare che l’Ase fosse in grado di leggere nell’altrui pensiero. Raccontavano come necessitasse solo di posare le sue dita eleganti sulla pelle della sua vittima, per leggerne i pensieri anche più conturbanti e nascosti (3). Altri sostenevano, invece, che Loki non avesse bisogno di alcun contatto, per sviscerare dai suoi interlocutori ciò che gli serviva.

Sigyn rispondeva sempre con imbarazzo, a chi osava domandarle qualcosa del seidr in generale e di quell’abilità in particolare. Diceva di non comprendere la magia né di essere intenzionata a farlo. Era una caratteristica di suo marito, qualcosa che lo definiva e faceva parte del suo essere da prima ancora che iniziasse a parlare, da quando aveva mutato il colore della sua pelle di fronte a un sorpreso Odino. L’inganno perfetto per farsi accettare da un vecchio re spietato. Sigyn accarezzava i boccoli neri di sua figlia e, sorridendo appena, sosteneva che se Loki le avesse letto davvero nella mente, non si sarebbe messo a chiederle ogni volta dove tenesse le tuniche pulite e avrebbe saputo con esattezza cosa non dire per farla arrabbiare. Le si velava lo sguardo di un’inquietudine strana, quando capitava che facesse questi discorsi.

Durante l’udienza, Sigyn avvertì una strana sensazione di malessere. Un violento capogiro poco prima di entrare, l’aveva spinta a chiedere al marito di perorare la causa al posto suo. Ora sedeva poco distante da Njord, e il suo sguardo correva inquieto dalle labbra arricciate di suo nonno alle espressioni rapite degli astanti, fino a fermarsi su suo marito. Spigliato, affascinante, dotato dell’arte di convincere e incantare, Loki aveva messo su uno spettacolo da cui era difficile distrarsi.

Stava promettendo, anzi vendendo, l’ipotesi di un futuro felice, glorioso, magnifico. Garantiva la grandezza che i Vanir anelavano, ritenevano spettasse loro di diritto e si erano sentiti portare via, millenni addietro, dagli Asi sprezzanti. E ora, il figlio adottivo di quella massa di pirati dalle barbe bionde e fulve e gli occhi freddi come i laghi invernali, si impegnava a restituire a Vanheim ciò che le era stato rubato. Solo che Loki era un furfante travestito da principe, un cantastorie come nemmeno nelle piazze più oscure della città se ne trovava uno uguale. Assicurava la felicità, nascondendo abilmente l’ombra spaventata che Sigyn, talvolta, rintracciava nel suo sguardo chiaro.

Non avevano parlato mai di quel velo scuro che incupiva lo sguardo del dio dell’inganno, tranne una volta, non troppo tempo prima. Sonje dormiva nel suo lettino, con la bocca schiusa e i boccoli neri sparpagliati sul cuscino. Si era addormentata tra le braccia di Sigyn, durante un noioso ricevimento, e lei e Loki ne avevano approfittato per defilarsi e tornare a casa. Avevano messo la bimba sotto le coperte e, nel vederla riposare serena, Sigyn gli aveva confessato di essere felice e di averne paura. Le Norne sono crudeli, si era affrettata ad aggiungere, per divertirsi spesso ci tolgono quello che abbiamo di più caro. Loki inizialmente non le aveva risposto. Si era limitato a rivolgerle un’occhiata assorta, lunga, venata di qualcosa di indefinibile. Poi una mano era scivolata sul suo fianco.

“La felicità è fatta di attimi, istanti, brevi momenti. Non evocarla.”

Lo aveva detto col tono, lieve solo all’apparenza, con cui era solito consigliare e suggerire dalla sua posizione privilegiata accanto al trono Njord. Sigyn, rabbrividendo, comprese che la frase del marito era vera, ma incompleta. Fu tentata, più tardi, nel letto in cui non riusciva a dormire, dal chiedergli il conto della sua affermazione. Gli cinse la vita, affondò il naso sul suo collo, respirò il profumo piacevole e virile che emanava, crogiolandosi in quella vicinanza, ma le mancò il coraggio di domandargli quali fossero le sue paure, perché il cuore di Loki Laufeyson era nero e conteneva cose che sarebbe stato meglio non risvegliare.
 

Nell’affollata sala delle udienze, Sigyn aveva caldo, troppo. Agitandosi sulla poltrona, osservò Loki veicolare la discussione, finalmente, sull’unico punto che adesso avesse qualche rilevanza: il Tempio che doveva chiudere i battenti. Il dio degli inganni esordì in maniera meno cruda, ovviamente. Desiderava sottoporre una questione stringente, essenziale, vitale ai signori nobili, così disse.

L’Ase li detestava dal primo all’ultimo: reputava i vassalli di Njord un branco di incapaci, imputando la loro inettitudine all’ereditarietà delle cariche. Gli Asi erano un grande popolo non solo per la velocità dei loro drakkar e l’abilità dimostrata dai guerrieri durante le battaglie, ma anche perché le funzioni più importanti dello Stato venivano affidate alle personalità che maggiormente si erano distinte negli assalti. In caso di ingiusta assegnazione, uno scontro nella pubblica piazza risolveva liti e pretese di superiorità. Sorrise con amarezza, a quel pensiero.

Avrebbe dovuto sfidare Thor, un tempo, e scalzare la volontà di Odino. Gridare di fronte a tutta Asgard che Padre Tutto si era sbagliato, il suo unico occhio acuto si era offuscato. Aveva preferito qualcosa di più scenico e crudele, ma che avrebbe salvato il giudizio di suo padre, introducendo di nascosto gli Jotnar nel palazzo reale il giorno stesso dell’incoronazione del fratello. Scacciò il pensiero con un gesto nervoso della mano, catturando l’attenzione di Sigyn, che lo guardò perplessa.

Tutti gli dovevano qualcosa, in quella sala, persino lei. Introdusse la questione del Tempio ricordando all’immobile e incartapecorita sala come il santuario possedesse molta terra fertile e fosse un luogo senza controllo, dove la giurisdizione dei Vanir non contava nulla: era un affronto, un problema politico, una vecchia spina nel fianco che andava risolta. Insinuò dubbi sulla condotta scandalosa che le guardie fedeli alla Sacerdotessa Sublime – non a Njord né alla corona, ma a quella donna – tenevano nei confronti delle ragazze lì segregate. Alluse ad abusi, dipinse il Tempio come un bordello mascherato da tutt’altro, elencando ad alta voce le dicerie che, da sempre, circondavano il luogo. “Pettegolezzi”, sostenne qualcuno interrompendo Loki Laufeyson.

L’Ase incrociò le braccia dietro la schiena, inclinò il capo. “Dici?” sibilò perfido. “Girano voci strane da troppo tempo, perché siano solo menzogne. Fidati di me: nelle bugie c’è sempre un fondo di verità.”

Non tutte le battaglie sono destinate a essere vinte. Non lo fu nemmeno quella. Loki Laufeyson osservò con una punta di fastidio la votazione che, per un soffio, non fu favorevole alla sua proposta. Lanciò a Sigyn un’occhiata irritata: glielo aveva detto, che sarebbero stati sconfitti. I tempi non erano maturi. L’ingannatore detestava perdere, ma non poté far null’altro che tenersi a mente i nomi dei tre fottuti stronzi che avevano reso vane le sue parole brillanti. Theoric, suo padre e suo fratello erano i grandi elettori che avevano rifiutato di appoggiare Loki. Mentre scendevano dagli scranni per tornare alle loro case, l’ex fidanzato di sua moglie gli rivolse la parola (4).

“Non avrai mai né il mio voto né quello del mio clan.”

Gli tremavano le labbra e a stento sosteneva il suo sguardo, e aveva trovato il coraggio di parlargli solo perché tutta la nobiltà di Vanheim era presente. Loki era più alto di lui e, sebbene non indossasse che un’armatura leggera sulle spalle e sulle braccia, senz’altro teneva con sé delle armi. Se avesse voluto, sarebbe stato capacissimo di infilargli un pugnale in qualche punto vitale e ucciderlo lì, seduta stante, lasciandolo annegare nel proprio sangue. Questo era il dio dell’inganno. Solo che l’ultima guerra era terminata quattro anni prima e, da allora, Vanheim, Asgard e gli altri Regni vivevano in pace e serenità. Loki non aveva più indossato le sue insegne color oro, né l’elmo dalle grandi corna ricurve che, si diceva, spesso utilizzasse come arma impropria. Faceva il ministro, adesso, il consigliere di Njord: si occupava di economia, cultura, sicurezza a volte; la sua natura barbara sembrava sopita, domata. Un tempo aveva sfidato Asgard e Odino, si era alleato con Thanos e aveva portato guerra e morte persino su Midgard. La felice Vanheim sembrava aver domato l’orgogliosa fiera selvaggia.

l’Ase rivolse a Theoric un ghigno feroce. “Scommettiamo?”

“Finché sarò vivo io…” iniziò il Vanir, ma l’ingannatore lo interruppe con una risata bassa e beffarda.

“Appunto. Finché.”

Era una minaccia aperta, inequivocabile, oscura, che tutti avevano sentito. Theoric avvampò d’ira, perché apparteneva a una delle Casate nobiliari più importanti di Vanheim e sarebbe dovuto diventare re, ma Loki Laufeyson gli aveva fatto un torto antico, terribile: si era preso Sigyn. Aveva pagato per l’affronto secondo la legge dei Vanir, questo era vero, ma l’onore della Casa di Theoric era rimasto comunque macchiato e la gente non avrebbe dimenticato mai che quel bastardo straniero, figlio di un mostro, stregone e guerriero, allevato da un popolo di barbari insolenti, lo aveva umiliato e beffato come uomo e come nobile.

Commise un errore, Theoric, un errore terribile. Pensò che fosse giunto il momento di vendicarsi del dio degli inganni e rovinare la noiosa vita che si era creato. Lo volle punire per le volte in cui lo aveva visto baciarsi con Sigyn e per quella bambina dai capelli neri e gli occhi grigi che era inequivocabilmente figlia sua. Per essere stato costretto a guardare come si era trasformata la donna che avrebbe dovuto sposare: affaticata da una gravidanza, col ventre gonfio e tondo. Per averli dovuti immaginare insieme, anche.

Rabbrividendo, Theoric parlò. “Te la sei scopata, ma ha concesso qualcosa anche a me. Chiedile di quando vennero gli Elfi.”

Lo disse con voce svelta e cattiva, incurante del cuore che gli batteva nel petto, del sudore che gli macchiava le ascelle, l’inguine, il labbro superiore, persino. Loki era armato, ovviamente. Sarebbe stato da veri idioti pensare che non lo fosse, così come era sciocco credere che si facesse scrupoli nell’ammazzarlo lì, davanti a Njord malfermo sulle gambe e costretto a tenersi a Sigyn ancora ignara di tutto, ai nobili che, comunque, erano in debito con lui.

Il dio degli inganni reagì immediatamente: era un Ase. Lo afferrò per i capelli e, con un gesto repentino, gli fu dietro minando il suo equilibrio e lo costrinse in ginocchio, premendogli il pugnale sulla carotide. Lo avrebbe ucciso, stava per farlo. Njord lo supplicò di non versare sangue in quella sala, gli ricordò come avesse avuto, nella sua vita, avversari ben più degni. Loki rispose di aver tagliato la gola a guerrieri e disgraziati: uno in più non avrebbe fatto differenza.

Principe Loki di Asgard, è disarmato.” La voce di Njord risuonò grave. Si aggrappava alla nipote e lei a lui, sconvolta dalla scena inaspettata. Il dio degli inganni stirò le labbra in una smorfia sarcastica, tetra. Il re dei Vanir si appellava al suo orgoglio di figlio di re, chiedeva che avesse giudizio, come Odino. E Sigyn, la sua devota e fedele moglie, lo fissava inconsapevole e spaventata.

Lasciò andare Theoric non senza avergli impresso un segno lungo e leggero lì dove la lama affilatissima lo aveva toccato, poi lo colpì con un calcio violento sulle costole, incrinandogliele. Andò via masticando la seconda sconfitta della giornata, senza voltarsi indietro. Non gli sarebbe sfuggito una terza volta. Lei rimase lì.
 

Sigyn. Tutta colpa di Sigyn. Che aveva quella donna? Quale potere si nascondeva, sotto le sue ciglia scure? Si era ritrovato in una posizione scomoda, con il fianco scoperto, e quel fottuto Theoric ne aveva approfittato. Era stato intelligente, dovette ammetterlo. Si era tenuto quel segreto dentro per anni, perché se lo avesse rivelato allora, quando Sigyn era incinta e lui stesso aveva provato a salvarle la vita, la confessione avrebbe avuto meno effetto. Invece, aveva atteso che lei fosse più di un mezzo per ottenere un trono o di un’amante desiderata con urgenza e intensità. Glielo aveva detto quando Sigyn era, da tempo, la sua compagna. Che colpo geniale. Non rientrò a casa che a notte fonda. Attraversò il cortile con passo marziale, varcò la soglia di casa con dispetto. Tutto era immerso nella penombra, ma lei era sveglia, lo attendeva nello studio. E sapeva.

I capelli biondi erano acconciati in una treccia bassa e molle, il viso era pallido e gli occhi cerchiati di scuro. Da qualche giorno non stava bene, e quello che era successo di fronte al Consiglio certo non aveva migliorato le cose, anzi. All’Ase non importò. Le rivolse un’occhiata breve, torva, irata. Attese.

“Capisco cosa provi, ma non ne hai il diritto.” Sigyn tremava offesa. Qualcuno le aveva riferito la battuta dell’ex fidanzato.
Loki non rispose. Un pessimo segno. Sfilò i pugnali che teneva nella bandoliera e iniziò a pulire quello ancora incrostato del sangue di Theoric. Avrebbe dovuto premere più a fondo, porre fine alla sua inutile vita. Guardò sua moglie dall’alto in basso, assottigliando gli occhi.

“La mia devozione nei tuoi confronti, la mia fedeltà,” gli si avvicinò Sigyn, “non è mai venuta meno. Non puoi fare questo adesso. Non hai il diritto di rimproverarmelo.”


Il dio degli inganni scoppiò in una risata fredda, tetra, spaventosa. E la principessa dei Vanir fece istintivamente un passo indietro. “Il mio diritto,” sibilò, “su questa terra, adesso, secondo le leggi di tuo nonno sarebbe quello di ripudiarti e pretendere dalla tua famiglia un risarcimento per il disonore subito,” le ricordò.

La donna arrossì. “Credevo che gli Asi e gli Jotnar dimostrassero il loro onore in battaglia, contro i loro nemici, e non nelle loro case,” gli ricordò fiera (5).

Loki annuì a metà strada tra il divertito e l’ammirato: adorava le battute argute e intelligenti e gli piaceva il coraggio di Sigyn. “Nella mia casa è successa una cosa strana. La tua fedeltà, Sigyn, presenta una crepa. Perché pensi che debba rimproverarti qualcosa? Una scusa non richiesta puzza di autoaccusa,” sorrise.

Le girò attorno e Sigyn si sentì in trappola, incastrata dal dio degli inganni. “Dove vuoi arrivare?” tremò. Non lo temeva, non lo aveva fatto mai, eppure in quel momento captò un pericolo. L’equilibrio perfetto e sottile della loro unione aveva subito una scossa tale che sarebbe bastata una sillaba sbagliata, per mandare in frantumi tutto. E lei, in fondo, lo voleva, comprese. Perché Loki era geloso e furente, ma voleva manipolare con lei la realtà per farla sentire colpevole di qualcosa che non aveva commesso, o meglio, non aveva importanza. Non doveva. Non più. Almeno così credeva.

“Ti senti in colpa, Sigyn. Altrimenti faresti l’offesa e rideresti della mia gelosia. Invece hai paura, ti sei messa sulla difensiva. Ma perché una donna come te dovrebbe sentirsi in colpa?” si domandò l’Ase retorico. Finse di pensarci su, poi si interruppe e le afferrò le spalle sottili. Lei sobbalzò. “Ma certo. Provi vergogna. Fammi indovinare… Ti è piaciuto.”

Sigyn provò a liberarsi della stretta, fece per dargli uno schiaffo, ma Loki ghignando la fermò.

“Come ti permetti? Non ti azzardare! Cosa ti ha detto? Cosa credi di aver capito?” esplose la donna. “Tu dov’eri, che facevi, quella notte?”
Loki la ricordava. Ci aveva dovuto pensare tutto il giorno, ma alla fine era riuscito a ripescare il ricordo lontano. C’era una delegazione degli Elfi, fu indetto un ballo. Lui e Sigyn erano già stati ad Asgard e, in quel periodo, non si frequentavano. Si lanciavano decine di sguardi, però, e le battute che si rivolgevano erano pungenti, sferzanti come lame. Lei era fidanzata con Theoric, allora, e l’uomo le aveva chiesto di ballare. Sigyn aveva rivolto uno sguardo fiero all’ingannatore, poi aveva accettato. Loki, ingollando idromele, si era domandato se la piccola Vanir si aspettasse ancora un suo gesto plateale e privo di senso: cosa doveva fare, fermare l’orchestra e strapparla via dalle mani di quell’idiota? Forse sì. Avevano ballato a lungo e, per un po’, lui li aveva osservati. Con il chiaro intento di farlo ingelosire, quando la danza li aveva portati vicino a lui, Sigyn aveva poggiato il capo sulla spalla del fidanzato. Loki gliela aveva fatta pagare, ovviamente.

C’era un’Elfa dai capelli corvini e il fisico slanciato, che conosceva di vista. Aveva occhi neri e ammiccanti. Un quarto d’ora di discorsi brillanti dopo e la stava baciando, mezz’ora e avevano lasciato la sala mano nella mano, sotto lo sguardo torvo di Njord, che mal sopportava quei costumi liberi nella sua casa.

Ecco dov’era Loki. Era sdraiato supino su un letto, mentre un’Elfa dai capelli nerissimi e le gambe toniche si muoveva sopra di lui. Quando, sudata e stanca, era scivolata accanto al suo corpo, gli aveva chiesto se fosse riuscito a dimenticare l’altra e l’Ase aveva aggrottato la fronte indispettito.

“Che farnetichi?”
La bruna aveva iniziato a rivestirsi. “Dio dell’inganno, non eri con me.”
 
 
Sigyn avrebbe voluto piangere di rabbia, gridare, lanciargli qualche oggetto, persino. Lo aveva visto baciarsi in maniera sfacciata con quella donna bella, bellissima. Si era accorta del ghigno soddisfatto con cui Loki l’aveva presa per mano e condotta via, aveva compreso il motivo della loro assenza. Si era seduta. L’idromele era in una caraffa accanto a lei e così aveva bevuto. Mezzo corno e le girava la testa (6). Theoric le aveva proposto di ballare ancora, e Sigyn si era immaginata Loki che spogliava l’Elfa affascinante e gli aveva offerto la mano. Dopo qualche piroetta, si era accorta di avere mal di testa, di non sentirsi affatto bene. Non sapeva come erano finiti sul divanetto di chissà che anticamera, ma aveva importanza, adesso, dopo quattro anni? Si morse le labbra e venne invasa dal ricordo offuscato del dopo.

 
“Ti ho visto andare via con quella donna,” soffiò. “Ero disperata, infelice, mi sentivo tradita, mi hai tradita (7). Ho bevuto troppo. Di questo mi sento in colpa.”

Gli occhi di Loki vagarono inquieti sulla stanza per posarsi, infine, sulle labbra serrate e il viso pallido di Sigyn. Qualcosa ha concesso anche a me. La vide disorientata, confusa, che tentava debolmente di allontanare da sé Theoric: un uomo tarchiato e basso, ma che pesava almeno venti chili più di lei, ragazzina debole e indifesa. Non uno del suo clan sarebbe rimasto vivo, decise. Fu tentato di scrutare quello che era stato: sarebbe bastato mormorare un paio di rune, stringerle più forte il polso sottile che ancora serrava tra le dita e avrebbe letto nella sua testa. Lo aveva già fatto, ma sul bastardo, e il risultato era stata una visione fugace, terribile, incompleta. Che gli aveva insinuato dubbi indegni di lui e del suo nome.

“Non lo hai mai detto,” disse.

Sigyn abbassò lo sguardo. Le tremavano le labbra. “Ho permesso che accadesse,” spiegò.

“Che dici?” esplose il dio dell’inganno. “Bere non dà automaticamente il diritto al primo cazzone che passa di metterti le mani addosso! Quand’è che avresti espresso il tuo consenso? Sentiamo!”

Loki aveva urlato. Vide sua moglie sobbalzare, spaventata per quel tono che non usava mai con lei, e che apparteneva, invece, alla furia distruttiva che lo animava sui campi di battaglia. Detestava quel modo di pensare ridicolo, assurdo, che ad Asgard sarebbe stato accolto con una grassa risata. Anziché punire il colpevole, si additava la vittima, in un meccanismo perverso. Sigyn teneva gli occhi bassi, si mordeva le labbra, ragionava come una preda, di più: credeva di aver meritato le disgustose attenzioni di Theoric perché aveva bevuto ed era pur sempre una Vanir e alle Vanir questo veniva insegnato. Così, la vittima finiva per dichiararsi colpevole giustificando il suo carnefice, fornendogli un alibi per i suoi gesti e atti sgraditi. Gliel’ho permesso. Che immensa idiozia. Provava la stessa rabbia feroce che gli aveva infiammato le vene quando aveva scoperto l’inganno di Odino, la verità sulle sue origini. Non sono nient’altro che un’altra reliquia rubata. Afferrando Theoric non aveva potuto fare a meno di vedere, scavare nei suoi ricordi, accertarsi che l’illazione non fosse una menzogna: era bastato soffiare fuori due rune, e aveva visto.

Il divanetto di un’anticamera non lontana dalla sala dei banchetti, Sigyn con la testa reclinata che lamentava di aver male alla testa e provava a scacciarlo, Theoric in ginocchio che cercava di sciogliere le sue resistenze in quella maniera, lei che si divincolava, per fortuna si liberava. Senza il dettaglio del vino, il contesto gli era parso un altro – stralci di lei che si abbandonava al desiderio con quel maledetto – ma adesso era diverso. E Sigyn era sincera, non aveva bisogno del seidr per accertarsene. Le lasciò libero il polso.

Mille volte, durante quel fidanzamento cretino, Loki aveva evitato che Theoric avesse l’occasione di rimanere solo con Sigyn. Era abbastanza scaltro e sveglio da intuire le situazioni potenzialmente pericolose e farle sfumare. Bastava coinvolgere, per via traverse, quell’idiota in una discussione da cui non sarebbe riuscito a liberarsi facilmente, o trovare il modo di circondare lei di dame solerti e dalla chiacchiera facile. Un paio di volte l’aveva persino provocata ad arte per iniziare un litigio mortalmente lungo, inutile e tedioso. Non era bastato.

“Avrei dovuto essere cauta.” Sigyn scosse la testa, si voltò per nascondere il viso. La sua voce non era null’altro che un sibilo sommesso, un sospiro strozzato.

L’Ase serrò i pugni. “Lui non doveva… stupida Vanir.”
 
 

“Mamma?” La voce incerta e squillante di Sonje, carica di una nota allarmata, catturò l’attenzione dei due. “Papà?” proseguì la bambina.
Li aveva sentiti gridare e si era svegliata di soprassalto. Intrepida com’era, aveva preso dal letto il grosso animale di pezza che doveva somigliare a un gatto e si era avventurata per il palazzo avvolto nell’ombra. Aveva cercato i genitori in camera da letto e, non trovandoli, si era decisa a raggiungere lo studio di Loki, nonostante temesse le ombre scure del lungo corridoio che doveva attraversare nella sua interezza. Non aveva mai sentito suo padre gridare, e non lo aveva riconosciuto immediatamente. C’era qualcosa di graffiante, in quella voce, di cattivo, eppure, allo stesso tempo, era riuscita a rintracciare una nota familiare nel tono sostenuto. Sonje aveva quasi quattro anni, e non era in grado di capire le dinamiche degli adulti. Con l’istinto proprio dei bambini, però, intuì che c’era qualcosa che non andava e si spaventò per questo. Suo padre era arrabbiato, teso, nervoso; sua madre, vedendola, si era asciugata in fretta gli occhi lucidi.
“Mamma piangi? Perché piangi?” domandò.

Sigyn si precipitò ad abbracciare la figlia. La strinse contro il petto, la prese in braccio e affondò il naso nei suoi capelli neri e ricciuti. “Papà ti ha fatto arrabbiare?” Sonje lanciò un’occhiata intensa e profonda all’Ase, che fissava la scena immobile e rigido. “È perché hai fatto tardi che mamma si è arrabbiata, papà?”

Loki era andato per la prima volta in battaglia quando ancora non gli era spuntata nemmeno la barba. Aveva combattuto centinaia di battaglie, visto mondi lontani, esplorato galassie remote, tramato e ingannato. Persino di fronte al Titano aveva sfoggiato il suo ghigno sicuro e beffardo. A Sonje rivolse un sorriso diverso, però. Era impallidito vedendola sbucare nella stanza, perché non sapeva da quanto tempo la figlia origliasse e non la vedeva da tutto il giorno. Assomigliava a entrambi in maniera perfetta. Gli occhi della bambina, ad esempio, erano innegabilmente dello stesso punto di grigio di quelli di Sigyn, ma il modo di guardare e quello in cui aggrottava la fronte, insieme al broncio che metteva su quando qualcosa la contrariava, erano assolutamente i suoi. Le vide abbracciate, indifese, sole e si maledisse mille volte.

“Sì, è per questo. Torna a dormire, tesoro.” Le sorrise, concedendole una carezza sulla testa bruna, sfiorando i ricci neri e morbidi. Gli tornarono in mente, per un istante, il gelo che lo aveva bloccato il giorno in cui Freya lo aveva atteso sulla soglia del palazzo, tormentandosi le dita inanellate, e l’immagine di Sigyn con il labbro spaccato al cospetto di Njord. Lo aveva guardato senza aspettarsi niente, nulla, consapevole che la ragione e il sentimento per lui non potevano legarsi assieme, certa che desiderasse più il trono di un re vecchio e dispotico, che lei. Gli vennero in mente i piani che non aveva rivelato, ma che erano rimasti al sicuro nella sua testa.
Sonje insistette per passare dalle braccia della madre a quelle del padre, e appoggiò la testolina arruffata sullo spallaccio di Loki.

“Non essere arrabbiato. Mamma ti perdona, ti perdona sempre,” sentenziò.

Con una mano reggeva ancora il grosso gatto di pezza senza cui non riusciva ad addormentarsi. Era rosso e aveva due bottoni blu al posto degli occhi. Si trattava di un regalo di Thor e la bambina, in onore dell’adorato zio, lo aveva chiamato proprio Gatto di Thor. La forma originale si era contratta in un buffo Gatto Thoor.

Non ci fu verso di mettere di nuovo Sonje a letto e farla addormentare. Ormai era sveglissima, ma soprattutto era animata dall’ansia di vedere i genitori insieme e di restare con loro. Non era abituata a sentirli litigare, e scorgere sui loro volti tirati l’ira e il risentimento l’aveva turbata. Sigyn era mortalmente stanca: il peso di una giornata infelice e pesante le gravava sugli occhi e la testa e, di fronte alle suppliche accorate della figlia che non voleva addormentarsi da sola nel lettino, fu quasi disposta a cedere alle sue suppliche rimanendo con lei nella stanzetta. Ma la piccola subodorò l’inganno e tirò fuori lo spirito guerresco paterno. Dagli Asi, Sonje aveva senz’altro ereditato la testardaggine e l’insolenza.
 

Si aggrappò al mantello del genitore, fissandolo disperata. “Nella stanza ci sono i mostri. Si sono nascosti nell’armadio. Papà, devi restare con noi.”

In una serata diversa, quella richiesta avrebbe dato vita a un vero spettacolo. L’Ase si sarebbe messo a ispezionare, con la serietà che avrebbe sfoggiato di fronte a Odino in persona, la camera della bambina raccontandole storie spaventose e buffe insieme, capaci di far ridere fino alle lacrime sia Sigyn che Sonje. Lo spettacolo teatrale, tuttavia, necessitava di tempo e di un equilibrio che, in quel momento, non c’era e la piccola se ne accorse e iniziò a frignare. Sapeva benissimo che Loki disapprovava che dormisse, sia pure sporadicamente, nell’ampio letto matrimoniale con lui e sua madre. Non era una cosa da Asi. I bambini di Asgard erano coraggiosi e rimanevano nelle proprie stanzette, senza intrufolarsi in quelle altrui. Lingua d’Argento evitava, ovviamente, di raccontare come anche lui, nell’infanzia, avesse chiesto spesso asilo al fratello, soprattutto quando c’erano spaventose bufere di neve o nei casi in cui le battaglie, ancora solo immaginate o lette nei libri, popolavano con troppa intensità la sua immaginazione fervida e febbricitante.

L’Ase finì per accontentarla, ospitando suo malgrado persino il grosso gatto di pezza, assicurandole che quella sarebbe stata l’ultima volta che le avrebbe concesso un simile privilegio. Sonje annuì, saltando allegra sopra le coperte ben tirate.

“È una richiesta da bambini piccoli la tua, Sonje.”

Lei gli rivolse il principio di un sorriso laterale, esatta copia del suo. “Io sono una bambina piccola, papà,” gli ricordò compita. Si infilò con Thoor sotto le coperte e prese a osservarlo con una serietà improvvisamente grave, solenne, spostando i begli occhi grigi da lui a Sigyn, che le diede un bacio sulla guancia e si mise accanto a lei.

“È davvero tardi, Sonje, e adesso devi dormire,” le sussurrò.

La piccola annuì, le si strinse contro. Aveva effettivamente sonno e voleva chiaramente essere coccolata dalla madre, ma mancava ancora qualcosa, secondo il suo punto di vista, affinché la nottata potesse proseguire. “Ora dormiamo. Ma papà deve darci il bacio della buonanotte, mammina.”

Loki sentì la richiesta fatta dalla vocetta acuta di sua figlia. Si stava togliendo l’armatura leggera di fronte all’ampio specchio del bagno padronale, comunicante con la camera da letto. Cercò di non guardare la propria immagine riflessa, concentrandosi sui lacci che stringevano la sua tunica intrecciata, sulle fasce che proteggevano la pelle dal cuoio dell’armatura. Cos’avrebbe fatto, se sua figlia non fosse entrata all’improvviso? Se ne sarebbe andato via imprecando, corroso dalla gelosia e dall’ira? Oppure avrebbe stretto Sigyn a sé, baciandola e trascinandola su quello stesso letto per cancellare l’orrenda lite? Il ricordo offuscato strappato dalla mente di Theoric lo aveva mandato fuori strada, oppure era stato lui a voler piegare la realtà interpretando male le immagini sconnesse di una memoria ghermita? Voleva vendetta: quel maledetto gli era sfuggito due volte. Non ce ne sarebbe stata una terza, lo giurò sul suo sangue di Re. Eppure, far pagare a quel viscido le sue azioni non lo avrebbe rappacificato con il mondo né avrebbe cancellato il passato. Theoric non era l’unico colpevole. Dov’era Loki, mentre Sigyn con il cuore spezzato si lasciava confondere la testa da un sorso di troppo di idromele?

A letto con un’altra e lei li aveva visti andare via. Se fosse rimasto nella sala, l’avrebbe osservata senz’altro bere dal corno, vacillare incerta. Si sarebbe accertato che quel fottuto idiota non le torcesse un capello. Ma così non era andata, e il giorno dopo lei era rimasta in silenzio, vergognandosi per quello che era successo quando avrebbe dovuto vendicarsi, gridare, dirlo a lui. Indossò i pantaloni di lino leggero che utilizzava per dormire e incontrò lo sguardo assonnato, ma tenace, di Sonje che cercava con il suo acume infantile di mettere le cose a posto.

Sigyn, invece, fuggiva i suoi occhi, e gli concesse le labbra solo per calmare la figlia. Si addormentarono abbracciate, loro, mentre l’Ase rimase sveglio a lungo e, quando riuscì a prendere sonno, venne quasi soffocato dall’insopportabile e necessario animale di pezza della figlia. Non chiarì con Sigyn, al mattino. Partì per Asgard, invece, sollevato dalla possibilità di allontanarsi da Vanheim, almeno per qualche giorno. Thor gli aveva scritto, un paio di giorni prima, chiedendogli aiuto per una questione di confini, attribuzioni, diritti arcaici. Il dio dell’inganno, inizialmente, gli aveva risposto con un laconico “arrangiati, idiota”, ma poi la situazione era peggiorata. Chiamò Heimdall prima che sorgesse l’alba: stava fuggendo, e questa era una cosa indegna di lui e del suo rango, ma aveva bisogno di trovare le parole giuste da dire e venire a patti con se stesso e gli errori commessi.
 

Non poteva immaginare che non ci sarebbe stato alcun confronto, né si aspettava che sua moglie fosse così disperata da tentare una mossa tanto pericolosa per minare dalle fondamenta l’istituzione del Tempio. Eppure, attraversando il colonnato antico e imponente che collegava tra loro gli antichi edifici della tetra congrega, rifletté come, al suo posto, non si sarebbe comportato diversamente. Sigyn aveva colto l’occasione di portare Vanheim tutta dalla sua parte. Si era fidata di lui, che certo non sarebbe rimasto a braccia conserte sapendola dentro l’inviolabile cinta muraria, e della sua gente. Incauta ragazzina. Aveva avuto ragione, per ora, ma a che prezzo?
 

C’era qualcosa di maligno, sotto il pavimento lastricato del portico che Loki stava attraversando a passo deciso. Lo avvertiva, lo sentiva, ne poteva percepire l’odore nauseabondo, persino. Fu introdotto in una costruzione antica, scura, buia. Contò i passi e prese nota di corridoi, stanze, guardie armate. Non si stupì nel non vedere né le donne né i bambini che lì erano rinchiusi. Dovevano trovarsi certamente in qualche corte interna, come Sigyn. Deglutì al pensiero che lei fosse dentro quello schifo di posto da un giorno intero.

Fu introdotto in una sala spoglia, sobria, tutto sommato elegante. La Sacerdotessa Sublime gli sorrise. Aveva i capelli coperti e un abito scurissimo, su cui spiccava il viso bianco ed etereo, ma non così bello, decise l’Ase.

“Loki Laufeyson, dio dell’inganno, principe di Asgard, erede di Jotunheim. Che onore,” sospirò la donna.
Lingua d’Argento le rispose con un cenno breve del capo. “Mia signora, vi ringrazio per l’onore che mi avete concesso,” replicò. “Non speravo in così tanta benevolenza.”

La donna rise. “La vostra fama vi precede. Il mio compito è garantire la sicurezza di questo luogo. Se non vi avessi fatto entrare, ditemi: cosa avreste fatto?”

Gli fece cenno di accomodarsi su una poltrona e Loki acconsentì e si sedette, sfiorando con le dita la stoffa pregiata della tappezzeria. Era a suo agio persino lì. “Credo che sarei entrato dal passaggio segreto che si trova sul lato est della cinta muraria,” ammise con un ghigno. “E poi avremmo parlato come adesso, ma voi avreste avuto uno dei miei pugnali all’altezza della pancia.”
“Non credevo foste così schietto.”

L’Ase appoggiò la testa sulla spalliera della sedia. “Io direi divertente.”
La Sacerdotessa, con un cenno, fece avvicinare un’ancella dal viso triste che reggeva una brocca e dei bicchieri.
“Bevete,” lo invitò. “Siete mio ospite. Credo di indovinare perché siete qui. Una delle mie figlie si chiamava Sigyn.”
Loki afferrò il bicchiere, ne osservò il contenuto. “Adesso come la chiamate?” domandò distante.
“Non ha nome,” fu la gelida replica.
“Scomodo.”
La Sacerdotessa Sublime inclinò il capo di lato, come per osservarlo meglio. “Fate dell’ironia. È curioso.”
“Sigyn…” Loki ne pronunciò il nome gustandone la musicalità cristallina. “Mia moglie è un problema e mi ha profondamente scontentato,” confessò. “Mi ha disobbedito di fronte ai Nove Regni tutti.”
“Imperdonabile. Cos’ha fatto?” La Sublime si sporse verso di lui, come se dovesse raccogliere un qualche segreto.
“Tanto per cominciare, è venuta qui. Un atto sconsiderato, non trovate?”
La donna s’irrigidì. “No. Vengono qui le donne che vogliono pentirsi.”

“Di cosa dovrebbe pentirsi, mia moglie?” Ora era Loki, a protendersi sulla sedia, verso di lei. La Sacerdotessa strinse le palpebre come se dovesse metterlo a fuoco.

“Siete il dio dell’inganno, ma c’è qualcosa che lei ha fatto, che vi ha ferito. Vedo dentro di voi, Loki: nel profondo del vostro cuore, voi siete… felice che lei sia qui. Non è più degna. Qualcosa si è spezzato e non si ricostruirà più.”

Loki si mosse sulla sedia, innervosito dall’affermazione della donna. “Non sai quello che dici.” La sua voce era stata fredda, severa.
“È per l’uomo che…”

“Basta. Il mio scopo non è portarla via da qui,” ammise Loki fissando senza bere il bicchiere che gli era stato porto. “Ma riprendermi qualcosa che le ho lasciato.”

La Sublime parve sorpresa. “Ah sì?” sorrise. “E le Armate dietro le mie mura, cosa sono?”

Il dio dell’inganno bevve il contenuto del bicchiere fino all’orlo e si alzò in piedi. “Un trucco. Un diversivo. L’illusione che ho creato. Sono Loki di Asgard. Non posso avere punti deboli. Lei lo è. Mi ha dato un’erede, ora non mi serve più.” Un sorriso feroce gli attraversò le labbra. “Devo solo sapere dove ha nascosto ciò che cerco.”

La donna rise sommessamente. “Oh. L’hai usata. Parli davvero bene e non una delle parole che ti sono uscite dalla bocca mi ha offeso. Sembra quasi che tu nutra davvero del rispetto per questo luogo.”

Loki rise gettando il capo all’indietro come se davvero trovasse l’arguzia della sacerdotessa sommamente divertente.
 

Continua…




Angolo dell’Autrice - leggimi, è DAVVERO importante!
Caro Lettore,
Certi avvertimenti e rating non sono casuali, e nemmeno talune scelte. In questo capitolo, è presente una scena scomoda e fastidiosa, sebbene NON gratuita. Non ho avuto dubbi, mentre la scrivevo: è funzionale al contesto e adesso ti spiegherò il perché. Quando si affrontano certe tematiche delicate, è importante farlo con consapevolezza. E realismo.

Se ciò che succede a Sigyn fosse stato meno invasivo e disgustoso, la vergogna della ragazza, ma soprattutto l’ira che dilania Loki anche a quattro anni di distanza, sarebbero state assolutamente fuori contesto ed eccessive: in Tutte le tue bugie, la nostra pianta un casino incredibile pur di non fidanzarsi con Theoric e cerca aiuto in Loki. Il dio dell’inganno non è un idiota né uno sprovveduto: sa benissimo che Theoric è un uomo esattamente come lui, con pulsioni e desideri. Se si fidanzerà con Sigyn, giocoforza farà qualcosa con lei, prima o poi. Nonostante questa considerazione, non la salva. Lei è solo una che gli piace, o almeno questo è quello che si racconta. Con che faccia, a quattro anni di distanza, si infuria con Theoric, unico colpevole, come ci tiene a sottolineare? Come potrebbe esplodere in quella maniera per un bacio rubato o un palpeggiamento, per quanto fastidioso? Sarebbe da ipocriti. Poteva pensarci prima. E Sigyn, che dopo quattro anni ha difficoltà a parlarne con suo marito e si sente addirittura colpevole? La scena è funzionale anche perché Loki esprime un punto di vista decisamente moderno e importante, che in questo caso ho attribuito alla fiera cultura Asi: l’importanza del consenso in qualsiasi situazione. Perché quel gran verme di Theoric se ne stava approfittando.

Poiché si tratta di un cenno molto lieve e non descrittivo, e non c'è alcuna "consumazione" effettiva, il rating è stato mantenuto arancione. Grazie per essere arrivati fin qui!
  1. Nobiltà di toga e nobiltà di spada sono due concetti piuttosto complessi. In questo universo, ho mutuato e semplificato mortalmente alcuni elementi propri del feudalesimo e dell’età moderna piegandoli alle mie necessità di trama. Loki (oltre ad essere un principe), appartiene alla nobiltà di spada, perché gli Asi ottengono privilegi e terre dal re (Odino, poi Thor) che concede feudi a fronte di un impegno sul campo di battaglia e nella difesa di un territorio. Theoric acquista con moneta sonante il titolo nobiliare e le cariche.
  2. Rinnovare l’accordo per ottenere l’acciaio dei Nani è ciò che fa Sigyn in “Giochi Pericolosi.”
  3. Come con Valchiria in Thor: Ragnarok.
  4. Theoric (il nome, perlomeno) è l’unico elemento Marvel che ho ripreso nella storia tra Loki e Sigyn. Per i dettagli, leggiti “Tutte le tue bugie”!
  5. Questa frase è una citazione di me medesima: non la trovi qui su Efp, però…
  6. Ho deciso che un corno di idromele fa ubriacare un Vanir medio. Gli Asi come Loki, svezzati con questa simpatica bevanda, ne reggono di più. Sigyn, che è una ragazza esile, non regge la quantità, ovviamente.
  7. Tra Loki e Sigyn, in “Tutte le Tue Bugie”, la relazione era già a un determinato punto. Quale? Mica posso spoilerare.
 
La Fatina dell’Ispirazione ha bisogno di te! Lasciale un messaggio! La tua opinione conta e le sue alucce luccicanti faranno nascere nuove storie nella testa dell’Autrice! E non odiarmi per questa fine. Non troppo. Sento già gli accidenti che mi stai mandando.


S.
   
 
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