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Autore: Avareil    19/05/2018    5 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Dannazione!”
Il pugno aveva colpito con forza l’altare di marmo ed una scossa, di pura e bianca elettricità, si era infranta contro il cielo stellato.
Secoli.
Era da secoli che non sentiva quella sensazione logorargli le viscere:
marcio senso di colpa.
 
Zeus, l’ultimo dei fratelli, il primo scelto dal Fato per amministrare il Cosmo, teneva saldamente il bordo di quella lastra solita accogliere preghiere, banchetti sacri e libagioni; cercava un punto che lo sostenesse, le gambe stranamente deboli.
La colpa, bestia dalle cento bocche, a poco a poco rosicchiava lo stomaco, il fegato, le interiora:
bussava alle porte del cervello l’amara consapevolezza che le azioni sconsiderate compiute in passato, prima o poi sarebbero state pagate. Il Fato, che nulla dimentica, come un gentiluomo avrebbe esatto, da lui o altri, il giusto tributo.
Un riso amaro deformava il volto barbuto:
uno stolto avrebbe trovato giustificazione negli infausti natali.
Un illuso si sarebbe fatto scudo con il tormento provato per colpa del parricidio subito: ma Ade? Estia? Era, Poseidone? Forse che gli altri avessero avuto in sorte natali più clementi? No.
Tutti avevano patito lo stesso destino eppure lui, lui solo, otteneva da millenni ciò che il suo cuore bramava.

Era aveva desiderato un matrimonio felice, egli una bella regina.
Aveva vinto lui.
Ade era stato tacciato di tradimento e condannato all’esilio.
Lui aveva avuto in sorte il cielo.
Estia, buona e cara, si era fatta trarre in inganno da promesse alte e sacre.
Egli si era assicurato il trono, in eterno.

La mano sudata, stretta ora intorno al boccale d’ambrosia, mal celava il legittimo nervosismo.
 “Posso venir meno alla mia parola? Posso mutare quel patto senza esiti funesti… per me?”

“Si, solo gli sciocchi non cambiano idea”.

“Si, altri potranno essere i vantaggi di una simile scelta, pensa alla gloria, al rispetto che potresti riguadagnare”.

“Si, se non desideri la guerra con il regno delle ombre che tutto, infine, divora”.

Una domanda, tre risposte.

Ad occhi chiusi era come averle lì davanti, impregnate di fumi sacri e velate dall’etere mistico.

Proto, Lachesi e Atropo, imponenti, si ergevano al suo cospetto, pronte a offrire risposte sibilline alla sua sofferenza.
La più anziana, curva, rattrappita e con gli occhi lontani velati dalla cecità, veniva sorretta da Lachesi che, attenta, puntava gli occhi di falco sul volto turbato del sovrano. Atropo era invece distante dalle due, avanti, quasi a un braccio di distanza dal divo olimpico: era stata la più cruda, la più schietta; bambina diabolica.

“E se ella decidesse di generare prole?”

“Non può, egli è morto e con lui la possibilità di creare una discendenza”.

“Potrebbe, forse, o forse no. A quel punto occorrerebbe un nuovo voto, una nuova promessa. Lo Stige non l’accoglierebbe”.

“Pensi sempre e solo a te stesso, ai tuoi interessi, ai tuoi vantaggi: forse la guerra te la meriti”.

Nuova stoccata.

Atropo avanzava ferrea, la coda severa e lunga ondeggiava mollemente al suo incedere, l’espressione sdegnata la rendeva temibile.

“Prima che tu possa continuare col tuo comportamento insensato, sappi una cosa, sommo Zeus: una sola domanda ti è concessa, tre risposte verranno offerte. Ognuna di esse schiude un destino: sceglilo e Proto lo filerà per te, Lachesi lo tenderà ed io, infine, lo reciderò, a tempo debito. Ma adotta un comportamento ragionevole. Non viviamo in un mondo di caotiche matasse, tutto ha un ordine, tutto può essere disfatto. Sei un dio, Zeus.”
Non era passato molto tempo, la riflessione non era stata accurata, le parole avevano lasciato il palato prima di un’attenta analisi:

“Ade muoverebbe veramente guerra?”

“E’ questa allora la tua domanda, sciocco re?”

“Ebbene…”

“Si, la sua parola è vincolata allo Stige”.

“Si, egli non mente mai”.

“Si, il suo destino era opera nostra e del Fato che ci governa. Ma la sorte di Estia era costruita, plasmata da mani avide: il suo destino è reversibile. Ma se non ti fidi…”

Seccata dalla domanda banale rivolta a lei e alle sagge sorelle, Atropo, si era prostrata al suolo e con la piccola mano aveva colpito con forza il pavimento splendente.

“Che state facendo?” Zeus, incredulo, le si era fatto di fianco e, con l’accondiscendenza che si mostra ai bambini, aveva chiesto delucidazioni.

“Un colpo è saluto all’Averno”.

“Due colpi sono preghiera”.

Ella lo aveva guardato con occhi stretti e cattivi,

“Lascia che la mia mano colpisca il suolo per la terza volta: tre colpi invocano il nero dio. Potresti chiedere tu stesso quali siano le sue intenzioni in caso di rifiuto.”

“Ferma”, repentino, il dio aveva afferrato il braccino della bambina ma prima che gli fosse permesso di pronunciare alcun verbo, ella era già sgusciata via, ora al fianco delle sorelle impassibili.

“Avete timore della sua sola presenza, come potete pretendere di combattere contro di lui una guerra?” Proto, la vecchia, aveva posato una grinzosa mano sulla spalla della più giovane delle tre e allo stesso modo aveva fatto Lachesi: un intreccio di braccia sulle spalle del futuro.

“Modifica il patto. Ora, subito. Grandi saranno le glorie”.

Il coro delle tre immutabili era stato spezzato da Lachesi che, con un sorriso da fiera, aveva ghignato dispettosa,

“Almeno maschererete ai più la vostra vera indole avida e codarda, Apómuios”.

Scaccia-mosche.
 



°°°
 


Disperazione, dolore, impotenza.
Le uniche forze rimaste l’avevano sostenuta durante la vestizione: lunghe vesti nere, vesti da lutto, da lacrime e lamenti, le avvolgevano il corpo ora magro, ora smunto, un peplo funereo in segno di pietà veniva posto sul capo adorno di ciocche scomposte, mani fredde nascoste da lunghe maniche.
Col volto esangue rivolto al suolo aveva iniziato un lungo cammino di preghiera e sofferenza verso quel tempio che, brillante e imponente nella sua bellezza, aveva invece rappresentato la disfatta della sua povera bambina.
Perché Demetra sapeva, aveva sempre saputo che ruolo avesse giocato la temibile sorella in quel terribile piano ordito dal Fato.
Eppure, il cuore che pompava lento, il respiro sottile che si riversava nella brezza calda rivelavano la sofferenza di una madre, la rassegnazione di una donna: la sua esistenza era impregnata dal fetore del tradimento.
Zeus, colui per il quale ella aveva sacrificato la verginità e il pudore, l’aveva tradita, rimpiazzata in poco tempo e, a sua volta, quell’unione che dava i natali alla piccola Kore, era stata la celebrazione di un amore fedifrago e ingiusto.

In un gioco perverso in cui famiglia significava tradimento, che diritto aveva lei di biasimare Era?

Ma quello era il passato, terribile ed atroce, ben diverso dallo scenario che la sorte ora le prospettava.
Persefone aveva deciso di abbracciare l’Averno di sua sponte, senza costrizione alcuna e, tracotante nella sua giovinezza, aveva urlato le proprie intenzioni dinnanzi alla sacra platea.

Crack

Un dolore lancinante al cuore le aveva spezzato il fiato, i piedi, lenti e pesanti, fiancheggiavano distese d’erba ingiallita: faceva caldo, troppo caldo rispetto al clima mite e fresco di cui la vegetazione si era beata al cospetto di Kore.

Sarà felice?
Sarà rispettata?
Sarà trattata con i giusti onori?
Almeno lei…sarà amata?

Cuore di madre, Demetra si tormentava lungo la marcia accidentata e sofferta: un percorso spirituale che doveva compiere, un imperativo morale.
 
“Non osare”.

“Sorella”.

“Non osare presentarti al mio cospetto, Demetra”.

Resa immobile da quel monito pregno di ira, la dea delle messi aveva arrestato il passo dinnanzi alla soglia dell’immenso tempio.

“Sorella, vi prego”, Demetra, col capo coperto e chino al suolo, aveva supplicato la maggiore mentre le mani, giunte sul petto, erano le testimoni di un cuore penitente.
 
 “Perché ti presenti al mio cospetto, supplicante e col capo coperto da un velo nero? Sei forse in lutto, cara Demetra?”,
piccata e velenosa, Era aveva accolto presso la cella privata la povera divinità: non si era alzata dalla comoda seduta in segno di rispetto e anzi, placidamente scomposta l’osservava con un cipiglio sdegnato.

“Sai bene perché sono qui, sorella”.

“Smettila di chiamarmi in quel modo, hai perso il diritto di definirmi una tua parente”.

“Divina Era, sono qui, in ginocchio presso i vostri altari…”

“Come siamo formali adesso…”

“Adesso smettila!”, Demetra aveva urlato al culmine della disperazione,

 “non è della tua ira che ho bisogno! Persefone ha chiesto la tua protezione un tempo, e l’ha fatto come giovane, fuggiasca e novella sposa, dunque ti chiedo, sorella, ti prego
di concederle almeno la tua benedizione affinché queste nozze, che tanto mi addolorano, portino gioia a lei che le celebra”.

“Ecco il motivo della tua visita”.

“Non… non è solo per questo che sono qui al tuo cospetto”, mesta, la dea, aveva chinato il capo al suolo e in un nuovo sussurro aveva pronunciato delle scuse.

“Come dici? Non credo di riuscire a sentirti”.

“Sei insopportabile!” Nuovamente indispettita dal comportamento arrogante della signora dei cieli, Demetra si era tirata su e in due falcate l’aveva raggiunta: gli occhi verdi di lei immersi in quelli marroni e un tempo dolci di quella.

“Ti domando scusa, ti chiedo scusa. Imploro il tuo perdono per il gesto terribile compiuto alle tue spalle, sorella. Mi dispiace… ma adesso è per la mia bambina che ti prego, in nome di quella ti imploro: rivelami la tua decisione”.

“Mi fai pena”, gli occhi tremolanti di Era, oramai rivolti altrove, a stento riuscivano a mascherare la sofferenza che le albergava da secoli nel cuore.

“Sorella, Persefone è mia figlia”.

“E’ figlia di mio marito!”

Un urlo strozzato aveva fatto da sottofondo ad un sonoro colpo, uno schiaffo scagliato con disperazione sul volto della supplice.

“E’… mia figlia. Anche tu sai cosa significhi esser madre. Viene prima di tutto, viene prima di tutti. Perdonami”.

Era, incredula per quanto compiuto e silenziosa per colpa di quello strano vuoto che sentiva aver preso il posto dell’ira furiosa, osservava la dea al suo cospetto, in lacrime e penitente.

 “Estia, nostra sorella, era giunta già in soccorso della tua Persefone. Ho donato un melograno che se seppellito, curato e bagnato da acque pure, germoglierà nel legame tra vita e morte. Ella dovrà mangiarne e solo allora diverrà parte di quel regno, legittima consorte”.

“Questo me la porterà via per sempre?” con la voce adesso tremolante, Demetra aveva stretto tra le proprie le mani della sorella.

“Questo la renderà regina. Ade sarà lo sposo e l’Averno la dimora sacra rischiarata dal fuoco domestico che già Estia aveva donato in passato”.

“Ma Ade…”

“Ade non è l’essere spregevole che innumerevoli volte ci è stato narrato: apri gli occhi sorella, un terzo tradimento spacca la nostra famiglia. Zeus ha ingannato tutti noi e la nostra colpa sta nell’esserci fatti ingannare”.


Un altro schiaffo, questa volta scagliato dalla dea verità.
 


°°°
 
 
“Sapete, non credevo vi sareste schierata così apertamente. Mi avete piacevolmente stupito, mia signora”.
Ade, perso nelle sue riflessioni, giocava distrattamente con una ciocca arruffata e umida della dea amata, il cui capo giaceva mollemente sul suo petto.
Un mugolio infastidito aveva fatto da preambolo alla risposta assonnata,

“Non sono più la giovane Kore che avete conosciuto presso il tempio di Akragas, sovrano della morte. Sono stanca di inseguire un Fato disegnato per me da altri. È giunto il momento che mi assuma la responsabilità delle mie scelte”.

Sbadiglio poco aggraziato,

“e io ho scelto voi, per la superficie il nostro è già un vincolo. La mia parola è ferrea quanto la vostra”.
Con il cuore calmo e lo sguardo argento liquido, Ade aveva lasciato un bacio sulla fronte della dea, ora sollevata e intenta a fissarlo con sguardo adorante.

“Che faremo oggi, mio sovrano?”.

“Io mi recherò presso le camere del tempio. I miei sudditi esigono un sovrano. Da molto tempo trascuro i miei doveri e l’Averno non è un regno che possa essere lasciato in balia di sé stesso per troppo a lungo. Voi, invece, vi riposerete qui, su questo letto e non vi alzerete fino al mio ritorno”.

“Mmmm”, imbronciata, la dea si era fatta più vicina a quel corpo che sentiva sfuggente,

 “Lasciatemi venir con voi”,

“Rimanete e riposate. Ben presto sarete la signora di questo postaccio e il lavoro sarà incommensurabile. Riguadagnate le energie in vista di allora”.

Con un bacio provocante e dolce, egli si era alzato dal letto, rivestito di un semplice gonnellino di pelle nera.

“Non esiste alcun modo con il quale poter corrompere il sovrano nero?”

La domanda retorica, pronunciata con impudica malizia, aveva innescato una reazione di fuoco nel dio che, immobile e di spalle, aveva stretto le mani in pugni nel vano tentativo di placare l’istinto di farla sua lì, immediatamente. Una risata, un ringhio roco era sfuggito dalle labbra schiuse in sorriso:

“Cosa ne avete fatto della pudica Kore?”

Accattivato da quel gioco provocante, Ade si era nuovamente avvicinato alle coltri morbide in cui ella giaceva fino a sporgersi sopra di lei con fare predatorio.

“Credo che la piccola Kore si sia persa per sempre dentro la vasca da bagno, o presso il vostro altare o, ancor prima, su quel letto che mi vedeva in balia del fiume ardente: avete preso voi l’innocenza di Kore, e quella ha lasciato il posto a Persefone, colei che avete davanti.

Persefone degli altari oscuri”.

A quello strano epiteto le iridi del re si erano fatte nere, intrise di rancore e odio per quel misero essere che aveva osato etichettarla in quel modo.

Dillo che in realtà ti piace, dillo che, in fondo, le dona quell’epiteto, la rende tua. Solo tua.

“Ho rovinato la vostra reputazione”.

Quanta coscienza nel sovrano dell’Erebo?

“Mi avete reso quella che ero destinata ad essere. Io sono Persefone degli altari oscuri, perché quelli sono anche i vostri”.
Quel sorriso, ora spoglio della precedente malizia e rivestito di semplicità, gli aveva restituito la fanciulla che aveva conosciuto un tempo presso il concilio sacro.

Ella mi appartiene.

“Sapete, gli dei dell’Olimpo avevano ragione: sono un egoista, un dannato egoista, e voglio tutto. Voglio Persefone degli altari neri e voglio Kore, la dea primaverile e florida.
Siete una donna, la vostra natura è duale come la femminilità che incarnate. Il vostro corpo, che in potenza ospita la vita, rappresenta il mistero del fiore e del seme. Voi siete la dea speculare e complementare del mio regno”.

Un nuovo bacio era stato posto a sigillo di quella nuova dichiarazione.

“Riposatevi adesso”.

Facendo forza contro sé stesso, Ade si era infine allontanato dalla bella e, rivestito di abiti regali, aveva imboccato la via d’uscita.

Solo quando il piede aveva sfiorato l’uscio, era stato richiamato da una domanda posta con apprensione

“Quando?”

“Quando cosa, mia signora?”

“Quando diverrò la vostra sposa?”.

Si era voltato quel tanto che bastava per scorgerla in ginocchio sull’immenso letto, con le mani giunte sul petto a sorreggere la leggera coperta.
“non appena Estia sarà restituita alla luce voi diverrete mia e l’unico nome che le vostre labbra pronunceranno nelle preghiere notturne sarà il mio”.

Con quella promessa aveva lasciato le camere.
 



°°°



L’esperienza, crudele maestra, le aveva insegnato da tempo che alcuni esseri, nella loro infinita imperfezione, non erano capaci di alcun miglioramento e colui che, con spavalderia, occupava il suo orizzonte visivo, rappresentava interamente quella categoria di irrecuperabili e squalificati.
Il minore degli olimpici, Zeus, aveva varcato le soglie del tempio giunonico senza chiedere permesso, senza rivolgere saluto alcuno e, fiero e dritto, aveva raggiunto le due dee riunite in un abbraccio di conciliazione.
Ecco che la breve pace veniva immediatamente messa a dura prova dall’unico soggetto capace di distruggere ciò che fosse finito sotto il suo tocco.

In tre, presso la sacra cella privata, ora stranamente piccola e dall’aria soffocante, si erano osservati a lungo ed in silenzio.

“Marito”.

“Mia regina”, brevi cenni del capo avevano accompagnato quel saluto gelido tra divinità maggiori, poi, l’impudico saccente, aveva saettato un mezzo sorriso all’altra, madre di sua figlia Persefone.

“Demetra cara, sei l’ultima persona che credevo di trovare presso questi altari”,

una breve pausa aveva anticipato la nuova riflessione,

“è un bene trovarvi riunite, sorelle, perché oggi è necessario il compimento di una scelta e voi sarete le mie testimoni”.

Trepidanti nel cuore, le due dee avevano drizzato le orecchie, nuove speranze le rianimavano:

“Estia?”

“Hai deciso, marito? Salverai la sorella?”,

“Si. Estia verrà liberata, sarò io a scioglierla dal vincolo”.

“E’ giusto, fosti tu a imprigionarla”, la velata frecciata scagliata da Era non aveva però raggiunto il bersaglio: Zeus non l’aveva sentita, perso com’era in riflessioni oscure.

“Zeus, non nasconderci nulla: cosa hai visto? Cosa sai che non vuoi dirci?”.

“Il fatto che io la liberi non la rende automaticamente salva. Quella Estia, tradotta in catene sottoterra, è impura, macchiata dalla colpa, toccata dalla sventura di un patto infranto. Dovrà patire il peggiore dei dolori per rimediare alla peggiore delle colpe”.

“Ma ella sta già patendo pene indicibili!”

“Tu non immagini quanto superiore sia il tributo da pagare”.

“Zeus, ti prego…”.

“Ella dovrà partorire la propria colpa”.

Quella sentenza, assurda ed irrazionale, aveva riempito d’angoscia la cella.

“Partorire? Ella è pura, il corpo intoccato. Come può?”, Demetra, sconvolta, cercava una qualche spiegazione nello sguardo vitreo del fratello.

“Il suo corpo e il suo animo subiranno il dolore del parto, ma ella non genererà vita, non creerà una discendenza. Il suo reato è malattia che l’animo cercherà di espellere.
Sarà atroce e sarà sola. In questo modo il debito verrà ripagato e, nuovamente pura, verrà condotta presso l’Olimpo”.

Un conato di vomito aveva scosso la regina mentre Demetra, esangue, asciugava occhi inconsolabili col peplo nero.
Entrambe conoscevano il dolore di un corpo violato, entrambe sapevano quanto atroce potesse essere per una dea partorire vita: corpi immobili da millenni, forzati da alieni interni, sangue del sangue, un parto che squarcia dal di dentro e che solo nelle urla del bambino trova la propria estinzione.
Ma ella sarebbe stata sola, prima, durante e dopo quel parto dello spirito, con alla fine nulla di più di ciò che le era stato ingiustamente sottratto.

Il corpo puro, l’animo lacerato: quel dolore come eterna memoria della colpa.

Quale colpa?


 L’essersi fatta ingannare.


°°°


 
Ade sapeva.
Percepiva chiaramente che qualcosa di oscuro e maligno aveva varcato le soglie del neutro Averno.  
L’aria, elettrica e pesante, ne era testimone, così come l’odore acre di zolfo ed escrementi si appiccicava sulla pelle, sul volto, risaliva dalle narici al cervello, distogliendo da lucidi pensieri.
Le ombre, silenziose guardiane dei suoi domini, rimanevano celate al buio, negli anfratti delle immense dimore avernali, nei corridoi lunghi e mal illuminati; immobili, pronte all’assalto.

Attendevano qualcosa.

Cosa di preciso, non era dato sapere.

Il triplice ululato aveva squarciato il silenzio della morte, Cerbero segnalava il pericolo.
Per questo motivo, abbandonate le calde lenzuola, spinto da quella stilla di terrore che sentiva pulsare nella mente, aveva raggiunto i fedeli giudici. Solo uno di quelli era assente.

Ma quello, almeno, lo sapeva.

“Eaco”, la voce del re aveva accompagnato il tetro ululato, anche quella ugualmente cupa e in allerta.

“Mio signore”.

Egli lo aveva accolto con una reverenza del capo e poi, turbato, aveva rivolto lo sguardo anziano altrove.

“Parlate”.

“Ebbene…”
 
 
Il silenzio aveva colmato il dio nero.
Un silenzio attonito, sconvolto, turbato.
Gli occhi, sgranati e vitrei, vagavano vuoti per la cella nera, evitando la figura dell’anziano giudice addolorato.

“Il piede di colei che cercò di strapparmi la mia sposa, vaga insolente per le mie lande. Il respiro fetido di quella succube appesta la mia aria. Il mio seguace, la morte, le fa da guida.”

“Si, sire”.

“Era stata rinchiusa nel Tartaro senza esitazione e ora, invece, ella cammina beata per il mio regno, diretta alle mie sponde?”.

Sembrava il discorso di un folle, un folle che tenta di capire la follia che lo circonda.

“Si, sire”.

“Menta è stata lasciata fuggire, nel mio regno…”

Un ulteriore cenno del capo aveva segnato l’inizio della degenerazione.

Il ringhio disumano aveva squarciato il silenzio, mentre la bestia dentro il dio iniziava a scuotere le catene della pacatezza: non era più essere di ragione ma demone intriso d’odio. Il pugno serrato aveva colpito con furia l’altare scaraventando al suolo ogni genere di offerta; il fumo di miele dolciastro non ammansiva il mostro e gli occhi, un tempo grigi nube, ora erano neri, senza un briciolo di ragione che li illuminasse.
Oltre la furia, oltre la rabbia, Ade incarnava l’Averno, giusto e folle, onnipotente e leso; bile, veleno disgustoso, gli riempiva lo stomaco, risaliva per la gola, diveniva miasma in bocca dove denti affilati facevano capolino dietro labbra arricciate in ghigno.

“Tu sai perché ciò avviene, vero Eaco?! Non sei uno stolto come non lo sono io. Entrambi abbiamo capito il volere del Fato”.

“Non potete opporvi, mio re. Quella alla quale tentate di resistere è una sorte ben più antica di qualsiasi dio. Era già scritto. Potete solo lasciare che ella l’affronti.”

“Io l’ho già scelta”.

“Voi l’avete scelta come regina e l’Averno l’ha salvata dalla morte ardente; ma non di sola bontà respira questo luogo. Se quella dea non saprà amministrare castighi e penitenze, allora non sarà adatta a sedere di fianco a voi”.

Eaco, capo chino e mani giunte sul ventre, aveva mormorato quel consiglio al cospetto del dolore del dio del nero eterno.

“Bene”.

I passi erano stati lenti, calibrati, la suola dura batteva contro il pavimento lucido.

In silenzio aveva raggiunto lo scranno marmoreo e con un gesto marziale aveva indossato la corona di metallo intrecciato e opaco.

Solenne, maestoso.

Morto e vivo allo stesso tempo.

“Che lei non sappia nulla. Che nessuno si intrometta. Se è questo ciò che il Fato ha in serbo per lei, così sia ma…”

A quel punto gli occhi di brace del sovrano avevano folgorato il giudice al suo cospetto,

“Se è questo ciò che esige l’Averno che oltrepassa il mio volere, bene. Ma si osi levare una mano contro di lei e i cancelli di questo regno rimarranno sbarrati e un fiume di anime si riverserà sulla luminosa terra.
Questo è il mio disegno”.

“E se foste proprio voi a ferirla?”

Un perentorio gesto della mano aveva messo a tacere il primo dei giudici.

“Come volete, signore”.

Eaco, con un inchino, aveva lasciato le sale di Ade.
 


°°°


 
La prima fitta l’aveva immobilizzata più di quanto non facessero le corde strette intorno ai polsi e alle caviglie.
La seconda, terribile, lacerante, aveva mozzato il respiro, contratto le interiora, fatto digrignare i denti fino a farle sentire lo sconosciuto e amaro gusto del sangue.
Le altre, penetranti e dolorose, erano state solo un infierire su un corpo inerme e indifeso.
Le urla soffocate, mimate da labbra spaccate e secche, i tremiti, le convulsioni, le mani artigliate e aggrappate alle corde che la imprigionavano, facevano da sfondo ad un tormento di cui non riusciva nemmeno ad intravedere l’inizio o la fine.
Al cospetto della dea incatenata sull’altare votivo vi erano il passato, il presente e il futuro, invisibili testimoni di quella pena risanatrice dello status quo ante.
Nessuno, divo o essenza, le aveva spiegato alcunché: nel buio della cella mani nere l’avevano afferrata e stretta, trascinata in silenzio verso un luogo che mai aveva né visto né percepito e più le domande e le urla si facevano ruggiti di dolore, più quelle mani stringevano e spingevano.
Un bisbiglio pronunciato da chissà quale essere, infine, l’aveva accolta nel suo personale inferno:
 
“Resisti e la tua colpa sarà espiata”.


Poi tutto aveva avuto inizio.
 
Lachesi, occhi stretti, Proto col capo rivolto al suolo,
Atropo sola, muta e bianca, fissava la penitente e ne cercava gli occhi in una silente preghiera:
 non sei sola, non sei sola anche se non vedi nessuno e senti solo la tua sofferenza.
Giovane, tu non sei sola e da domani veglieranno su di te le forze benigne di questo mondo.

Credimi.

Piangeva.
 
 
 ...


“Tieni”.
Uno straccio bagnato era stato gettato ai piedi del padre dei cieli.
Confuso, quello, aveva raccolto il cencio umido.
Sangue, sudore e lacrime.
“anche questa volta la tua colpa è stata lavata nel dolore di un’innocente”
Atropo, feroce, l’aveva salutato con lo sdegno dell’impotenza.
 
°°°


“Estia!”
Quel nome, amaro sulla lingua e pesante sul cuore, era sfuggito dalle sue labbra in un sospiro addolorato.
Quello il modo in cui, volta dopo volta, sonno dopo sonno, si risvegliava dalle tenebre dell’inconscio.
Estia, la dea che amava e che sapeva soffrire, lo aspettava ogni volta dietro le coltri del riposo notturno: un dono che, per pietà, gli era stato concesso da Ipnos.
Ma quell’angoscia, prepotente e logorante, trovava una degna sfidante in quella strana sensazione che sentiva aleggiare per l’etere avernale.
Tiratosi su dal letto gualcito e lavato il volto con abbondante acqua gelida, aveva immediatamente imboccato la lunga via diretta alla cella del suo signore.
Troppo tempo era ormai passato, troppo lunga la sua assenza: era un giudice di quel regno che amava e onorava, non poteva rimanere rinchiuso nella sua camera alla ricerca di quell’amata immagine sfuggente.

Con un colpo aveva annunciato la sua presenza, poi, senza attendere un invito, aveva varcato come di consueto l’immensa soglia.

Eccolo, lo vedeva: seduto imponente sull’immenso scranno, interloquiva con il messaggero degli olimpici.

Hermes qui?
Che diamine è successo ancora?
Dannati dei dell'Olimpo.

Al suo inchino Ade aveva risposto con un secco cenno della mano:
“Vieni avanti giudice, le notizie che giungono dai cieli sono certo allieteranno il tuo cuore”.

Stupito, forse credendo di aver mal inteso quelle strane parole, Radamanto si era posto al cospetto del suo signore, di fianco a quell’essere dai calzari svolazzanti e la voce di giovinetto,
“Signore dell’Averno, la vostra richiesta è stata infine esaudita. Zeus, il grande, ha mutato il patto che vincolava la giovane Estia. Ella ora è libera da qualsiasi vincolo precedentemente imposto”.
Ad occhi sgranati, il giovane giudice aveva cercato lo sguardo del dio nero ma quello, stranamente rigido e col volto rivolto al cielo della cella, non aveva corrisposto quella ricerca.
“La guerra che voi minacciavate è dunque inutile. Pacificate il vostro cuore e amate vostro fratello, egli vi amerà a sua volta”.

Quanto false potevano essere quelle belle frasi?

“Riferite a mio fratello che accolgo con benevolenza le vostre parole, eco delle sue azioni”.

Alzatosi con regale mossa, Ade aveva infine congedato il giovane alato.

“Mio signore, scusate se mi permetto ma…la giovane Persefone? Ella sta bene?”.

Lontano dall’atteggiamento sospettoso con il quale la prima volta aveva avanzato quella domanda, Hermes palesava una strana nostalgia verso quella figura un tempo cara.

“Giovane messaggero, ella sarà preso sposa di questo regno che ha scelto di sua sponte. Sarò lieto di riferirle i vostri saluti, al momento ella riposa”.

Allo sbattito d'ali era seguito immediatamente il bisbiglio del demone avernale:
“Mio signore”
“sai bene che non ti è permesso lasciare l’Averno, Radamanto”.
Non avrebbe insistito, ben conosceva il suo vincolo ma il cuore, trepidante, batteva forsennatamente in quel corpo che, dopo tempo, sentiva vivo.

“Andremo insieme, giudice. In questo modo potrai vederla, non credo che ella ne avrebbe le forze”.

Allarmato da quella riflessione, Radamanto aveva chiesto spiegazioni.

“La tua amata è stata sottoposta a purificazione forzata. La sua colpa è stata estinta nel dolore e nella sofferenza. Il fantasma del tormento subito la perseguiterà a lungo”.

Con le lacrime agli occhi Radamanto si era inchinato al suo cospetto.

Ade, muto dinnanzi al terrore letto nello sguardo del morto, aveva mosso i primi di quei passi che l’avrebbero condotto al cocchio avernale.

Non era un caso che Menta vagasse libera per i suoi domini proprio quando veniva sancita la liberazione della cara Estia.



Il Fato esigeva la sua assenza.


Un ghigno terribile aveva incupito il volto del dio, ora forzato ad abbandonare i suoi domini.

Eaco, di fianco ai quattro cavalli, ne accarezzava i musi feroci.

In un solo sguardo, il vecchio e il dio, avevano capito la gravità della situazione.

“Ricorda il mio disegno”.
“Certo, sire”.






L'angolo di Avareil
Tante, troppe cose, troppe scene, tante emozioni.
Lo so, un capitolo pienissimo, eppure non poteva essere ulteriormente spezzato. I giochi sono fatti: è la fine dell'inizio.

In qualità di scrittrice, dall'alto del mio trono - la sedia della mia scrivania, mica poco-  vi invito a farvi sentire.
Per uno scrittore poter sapere cosa i lettori pensano è veramente importantissimo: lo aiutate a migliorare con le vostre critiche o favorite l'ispirazione con una parola buona.
Caso vuole che io sia un'infaticabile chiacchierona quindi se mi date da parlare, anche della storia, io vi parlo con moltissimo piacere.
Fate felice uno scrittore, lasciate un segno del vostro passaggio.
A presto, 
e soprattutto
Grazie.


Avareil


 
  
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