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Autore: Nirvana_04    21/05/2018    3 recensioni
PREQUEL DE "IL TREDICESIMO RE"
Sette capitoli dedicati al Primo Re della Casa di Venasta.
Agur è il più grande cacciatore tra i Figli di Cahar. Giovane avvenente, erede del regno: gloria, donne e ballate tra le assi della taverna sono il suo pane quotidiano. Alla vigilia del suo ventitreesimo compleanno, egli decide di partire verso le Pietre di Shaev, alla caccia del leggendario Caimhal. E quando si renderà conto che l'ira del Dio Agabar è stata scagliata come una maledizione su di lui, tutto ciò che rimarrà di Venasta sarà il suo sangue e la sua sete di riscatto.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Sesta Parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Vitahj era una città pacifica, ed era quella sua pace intrinseca ciò che inquietava maggiormente Agur. I templi erano un assembramento di dodici strutture circolari, bianche, sormontate da cupole, ognuna delle quali possedeva un foro al suo apice per permettere all’acqua piovana di accumularsi in un bacile di metallo posto proprio sotto di esso. Ognuno dei dodici templi, sito nei giardini interni alla cerchia di alberi rossi, alle spalle del palazzo dell’Alto Cavaliere, aveva due accessi, posti uno di fronte all’altro, nel mezzo dei quali l’acqua dei bacili scorreva e si gettava nei piccoli canali, non più larghi di tre spanne, che attraversavano i giardini, come le vene che avvolgono muscoli e ossa nel corpo di un essere vivente. Dietro ogni struttura c’era un albero dalla chioma rossa, grande e rigogliosa, che gettava la sua ombra sanguinolenta sulla pietra bianca dei templi: aveva fragili radici ed era immerso in quel chiarore spettrale dato dalle luci della città, tanto che dava l’impressione di essere l’unica cosa vera e tangibile. Nell’insieme, i giardini apparivano come un arcipelago di piccoli isolotti galleggianti in mezzo all’elemento legante: l’acqua.
«Sono fratelli-guida» gli chiarì Hyria, intercettando il suo sguardo irrequieto. «Le radici affondano nel potete del nostro Dio e le fronde cantano ciò che il vento racconta loro.»
Hyria aveva una frangia spettinata davanti agli occhi lattei e una mezza coda che teneva i capelli lontani dalle orecchie. Aveva un viso scarno, e la pelle albina le conferiva un aspetto evanescente. Gli unici colori erano il nero dei capelli e il blu della veste. Era bassa ed esile, tanto che Agur pensò che potesse trasformarsi all’improvviso in un rivolo d’acqua e scomparire lungo uno dei canaletti che erano costretti a saltare. Dalla linea delle labbra sottili usciva una voce sfuggente, come un fruscio di foglie, tratteggiandola in timide tinte velate. Eppure la luce nei suoi occhi le conferiva un’espressione attenta e sveglia, tradendo una mente brillante e un potere che lo suggestionava. La sua figura, infine, era quello che di più simile Agur poteva associare a uno spettro.
«C-cosa?» Non stava bene che un principe che doveva fingersi re balbettasse a quel modo, con quell’aria stupida per di più.
«Gli alberi» indicò con il mento, «sono nostri fratelli, al servizio del nostro Dio.»
«Ah.»
«Adesso le loro foglie sono rosse, perché il sangue della terra le riscalda da dentro. Nella prima Decade d’estate, però, diventano violacee fino ad assumere tinte rosa pallido e indaco. Le foglie diventano secche ed è più facile prelevare la loro resina.»
«Mh» mugugnò intontito. Hyria teneva un tono sommesso, quasi timoroso, eppure la sua loquacità era stordente.
«La resina la usiamo per benedire le nostre barche e le nostre armi. È come portare il potere del Dio insieme a noi, ovunque andiamo.»
Hyria si fermò e tacque, e lo fece così all’improvviso che per un attimo Agur si guardò intorno, confuso e in allerta.
«Siamo arrivati.»
Si trovavano nel cuore dei giardini, i dodici templi che sbucavano come funghi dal terreno intorno a loro. Hyria fece ancora qualche passo e lo condusse nel punto in cui le vene d’acqua si incrociavano tutte: era una conca talmente limpida e piatta da sembrare uno specchio. Con passo leggero, Hyria vi camminò sopra e si sedette a gambe incrociate proprio al centro.
«Vieni.»
Agur mise mano al fianco per scoprire di non avere con sé la sua spada… né il suo arco, constatò portando una mano alla schiena. «Questa è magia» sputò tra i denti. Il senso d’illusione in cui camminava lo stava stordendo, tutto era così irreale! Molti dicevano che a Vitahj c’era ancora chi praticava la magia, eppure la corte di Cahar aveva sempre soffocato quelle dicerie, accantonandole come pregiudizi invidiosi nei confronti di un popolo dalle molte abilità e dalla fede profonda in un Dio straniero.
Hyria abbassò il capo e lo guardò attraverso le ciglia nere. «No» scandì lentamente in un sussurro, quasi muovendo solo le labbra, «è una preghiera che il Volor ha accolto.»
Il principe di Cahar si fece ostile e iracondo. Non avrebbe più tollerato in sua presenza che qualcuno giustificasse le sue gesta come il volere di una divinità superiore.
Hyria continuò dolcemente: «Sono una Portatrice, l’acqua e la pietra sono le mie armi, come le tue sono l’arco e la spada.» Con una mano accarezzò lo specchio d’acqua, il quale si fece increspare dal suo tocco per poi tornare impassibile appena la sua mano si spostò altrove. «Io non possiedo poteri magici né abuso di quelli del mio Dio.»
Agur tirò indietro la schiena e la guardò dall’alto in basso. «Dovresti rivolgerti a me con il mio titolo.» Il suo tono non ne era molto convinto e vacillò in un modesto condizionale.
Hyria esitò un attimo e con tono timido rispose: «Non posso accontentarti, Agur di Cahar, poiché perfino al mio Dio mi rivolgo con tono di sfida e a testa alta. È così che lo onoro.»
Hyria si alzò in piedi e gli si avvicinò di nuovo. Con un movimento lento e innocente, lo prese per mano e lo sollecitò a seguirla sopra la pozza d’acqua. Al contrario di quelli della fanciulla, i piedi del principe sguazzarono e si inzupparono. Hyria si sedette di nuovo a gambe incrociate e sollevò il volto verso di lui, aspettando che le sedesse accanto.
«Mi bagnerò» protestò, ancora dubbioso.
«Solo se la tua preghiera non sarà degna di essere ascoltata. Hai motivo di dubitarne?» Le sue guance si arrossarono leggermente, forse perché si era accorta della sua impudenza; tuttavia non abbassò gli occhi.
Agur sorrise amaramente e le si accostò. I vestiti s’inzupparono immediatamente. «Direi. Io non prego. E a cosa servirebbe? Tu hai mai sentito la voce del tuo… Dio risponderti?»
Hyria socchiuse le labbra e lo guardò come si studia una rarità. «Le voci dei morti sussurrano dall’alto delle terrazze dell’Ambal.»
Agur fece una smorfia alzando un angolo della bocca. «Non hai mai chiesto loro se c’è un Dio o se sono soli?»
«Non si fanno domande sulla morte, o si rischia di essere inghiottito da essa.»
«È un po’ comodo così, però. La curiosità è peccato per il tuo Dio?»
«No» la linea delle sue labbra si aprì lentamente, «la curiosità non è peccato, ma la conoscenza richiede sempre un prezzo da pagare.»
Agur scosse la testa, guardando oltre le luci della città. Nonostante il chiarore, sopra di lui brillavano ancora le stelle, appese a un manto blu scuro. «Se un Dio esiste, dev’essere pieno di rabbia e invidia, perché ha appena rovinato la vita di tutti noi.»
Il principe sentiva su di sé lo sguardo della fanciulla, e in parte si rammaricò di tanto scetticismo, ma poterlo condividere lo fece sentire meglio, quindi non se ne vergognò. Hyria lo guardava senza giudicarlo, non gli faceva sentire il peso della sua carica né gli ricordava i suoi doveri e le sue colpe. Accanto a lei c’era pace. Abbassò lo sguardo, sentendo i suoi vestiti di nuovo asciutti: l’acqua era tornata uno specchio rigido sotto di lui.
«Sei stata tu?»
La vide arrossire e abbassare gli occhi, stavolta. «Ho pregato per te.»
Agur allungò una mano e la costrinse ad alzare la testa posando un indice sotto il suo mento. «Hyria» le si rivolse gentilmente, «ho bisogno di parlare con il vostro bibliotecario. Cammur mi ha mandato qui, lui ha detto che voi avreste potuto ancora dare una speranza al mio popolo.»
Hyria allargò le braccia. «Devi solo chiedere.»
Agur si guardò attorno ma non vide nessuno che gli potesse rispondere farsi avanti.
Hyria insistette: «Cosa vuoi sapere?»
Esitante, guardandola dritto nei bianchi occhi, Agur sussurrò timoroso: «Ho fatto uno sbaglio.» Si ritrasse, ma sentì le dita fredde di lei stringere la sua mano, trattenendola. «Ho varcato le Pietre di Shaev, ho in qualche modo distrutto il loro… potere.» Si fermò, e poi disse: «La loro magia.»
«Non c’era magia nelle Pietre di Shaev» lo corresse ella.
«Eppure avevano tenuto lontano le belve da Cahar, dall’intera Venasta.»
Hyria puntò gli occhi vitrei su di lui. Spiegò con voce atavica: «È stato il mio popolo a erigere tale barriera.» Mentre parlava, lo specchio d’acqua iniziò a incresparsi, le sue misere profondità a farsi scure e opache, fino a spruzzarsi di immagini sfocate a cui la voce della fanciulla dava forma. Anche se era una notte senza vento, le fronde dei fratelli-guida iniziarono a fremere e alcune foglie caddero lievi sul pelo dell’acqua e navigarono come barchette fino a loro. «Nelle terre dei nostri avi, la magia era permessa, gli dei erano spiriti che si facevano carne e insegnavano a utilizzarla al meglio, e la voce del vento era un fiume che ci collegava all’aldilà.» Prese fiato, un po’ ansimante. «Nessun uomo osava varcare il passo sotto i Monti Silenti, perché quelle erano le dita del Giudizio. Quella terra era degli dei, così come le strane leggi che le governavano. Nessun mortale avrebbe potuto comprenderle.
«Di tutte le magie, quella più affascinante era sicuramente quella della plasmazione. Molti non si accontentavano di aiutare a evolvere un bruco in farfalla o di curare il male dal tronco degli alberi.» Il fratello-guida più vicino a loro s’irrigidì, quasi ricordasse quell’era. Ad Agur vennero i brividi, perché per la prima volta capì quant’anima ci fosse in quel luogo: i templi erano simulacri, semplici decori in onore di quelle fronde fatate. Hyria stava ancora raccontando. «Gli alberi che crescevano oltre la valle avevano radici profonde, che raggiungevano persino i picchi dei monti degli dei. La magia che scorreva in loro era una delle più potenti, e il sogno di molti era quello di plasmarla al proprio volere.
«Usarono il fuoco e una strana lega che era stata scoperta in alcune spelonche: voi lo chiamate perion. Manipolarono la magia e usurparono la terra. Alberi e fiere furono soggiogati, privati della loro magia per servire agli scopi di quei molti. Privare un essere della proprio magia significa privarlo dell’anima. Non c’è cosa più orrenda» rabbrividì. «Il perion divenne la corazza di quelle creature e il fuoco la loro linfa, la loro nuova fonte inesauribile di magia. Un’anima rossa in un corpo carbonizzato, ecco cosa diventarono.
«La mia gente invocò allora il potere del loro unico Dio, il Guardiano. Usarono l’acqua e la pietra per sigillare quelle mostruosità al di là dei monti, mentre il Dio Volor tracciava per loro un sentiero tra di essi, in modo che gli uomini potessero passare alle terre al di qua senza cimentarsi in sentieri che portavano verso le terrazze dell’Ambal, territorio immortale. I miei avi riuscirono a salvare alcuni dei fratelli-guida e a condurli in questa terra. Le loro radici, però, sono piccole e fragili, e il loro unico legame con la voce del Dio rimane l’acqua di questo fiume che giunge direttamente dalle sue terre e che filtra fino ai giacigli dei nostri saggi defunti.»
Il sussurro di Hyria si spense in una nota dolente. Il fruscio delle fronde si acquietò. Quello che era stato odio dentro Agur si trasformò in un forte senso di colpa e timore: quanti di quei molti erano suoi avi? Aveva paura a chiederlo. E quanto potere conservava ancora il Dio di quella gente in quelle terre straniere e lontane dall’ombra dei Monti Silenti? Agur abbassò lo sguardo, anche la sua mano si contorse nella stretta delicata della fanciulla, non osando interrompere il contatto. Cahar aveva mostrato ingratitudine e ostilità nei confronti di chi aveva sacrificato il proprio legame con un potere che lui si ostinava a non voler chiamare come ʻdivinitàʼ pur di salvarli. Cacciati alle estremità di quel regno, i cavalieri di Vorouk si erano insidiati in quella piccola terra, stretta da una delle braccia del loro Dio, per essere chiamati di nuovo, all’occorrenza, a servire chi già una volta aveva frainteso il loro potere.
«Sei silenzioso, Figlio di Cahar.» La voce profonda dell’uomo lo fece trasalire. Rineg se ne stava con le braccia conserte dietro di lui, con la spalla poggiata contro il tronco della Porta. Probabilmente era strisciato nell’oscurità della notte, risalendo per il versante alle loro spalle, e aveva ascoltato la storia insieme a lui, forse accrescendo ripulsione e astio nei suoi confronti. Il volto del giovane, però, non mostrava risentimento, ma solo una compassione innata. «Non ti ho ancora sentito fare la domanda più importante.» Al che, Agur non rispose. Così fu il Portatore a pronunciare: «Come si fa a rialzare la barriera?»
 
 
Nor e Jhann erano partiti di nuovo, stavolta in direzione di Varfool. La città era un’avanguardia dell’invenzione e costruzione nel regno di Venasta: lì c’erano i migliori armaioli di tutta la corona, e c’erano le fucine adatte per lavorare il perion. Agur aveva commissionato un lavoro per quei grandi artigiani, affidando il suo volere al suo grande amico, affinché tutti gli armaioli di Varfool impiegassero il loro talento per erigere quattro grandi lastre del perion più puro. I due compagni avevano lasciato la città fantasma alle prime luci del giorno, con i raggi di Mal che brillavano di fronte a loro e i cavalli che alzavano grandi nuvole di polvere correndo come se un’intera schiera di quei mostri neri li stesse alle calcagna. L’attesa, lo avvertì l’Alto Cavaliere, sarebbe stata lunga, perciò era meglio che lui si mettesse comodo e riposasse un po’. Così Agur si ritrovò spesso in quei giorni, un po’ spaesato, a passeggiare per i giardini del palazzo, affidando alla cura dei Portatori gli uomini e le donne del suo seguito, e si concesse la compagnia di Hyria, che mai sembrava lasciare quei luoghi di bianco e vermiglio.
All’inizio fu Hyria a parlare. «Quando ero piccola, salivo di nascosto fin quassù per veder le stelle. Una volta Anojah mandò un’intera schiera di nif lucenti a sfrecciare nel cielo, sembrava una pioggia di luce dorata, quasi volesse creare uno squarcio e mostrarci cosa nascondesse il manto della notte. E io camminavo con il naso all’insù, e sono caduta dentro a una delle vene d’acqua. Sono rimasta inerme guardando il cielo mentre la corrente mi trascinava via» rise con un colpo di tosse, «e l’Alto Cavaliere mi fermò mettendo una mano dietro la mia nuca e riportando il mio sguardo sulla terra. “Non sta bene spiare una guerra tra dei” mi ha detto, però io ho sempre desiderato vederla ancora. Ho sempre pensato che finché gli dei tengono la guerra nei loro cieli, allora il male non potrà toccare noi sulla terra.»
C’era della consapevolezza nelle sue ultime parole, la visione di chi stava vedendo realizzato ciò che più temeva. Nel tentativo di rincuorarla, Agur le raccontò: «Anche io ho sempre guardato al cielo: durante le notti di caccia o presso un accampamento, mentre aspettavo il giorno successivo. Scappavo dai ricevimenti pur di vedere quella che tu chiami “guerra tra dei”. A Valissa sanno replicare quello stesso furore, lo sai? Hanno della polvere che, sparata in cielo, illumina la notte. E non è solo d’oro, ma anche blu, e verde, e rossa…» S’interruppe un momento. «Adesso so che anche la luce delle notti passati all’addiaccio non era altro che polvere sparata in cielo. Non ci sono dei, Hyria, davvero. E se ci sono, sono inutili. Quale Dio si occupa di noi? Siamo gli ultimi, valiamo meno di niente se basta così poco per annientarci.» Si puntò su un gomito per guardarla in viso. «Agabar ha mandato le sue stesse creature contro di noi.»
«Agabar ha due facce» gli rammentò con dolcezza.
«A me guarda con quella nera. Vuoi dirmi tu quale Dio potrà salvarmi se io mi metto a pregare?»
Hyria lo guardò con quegli occhi fatti di morbida neve. Restò in silenzio, cercando di avvolgere le sue pene e cancellarle in esso.
 
 
Il tè di giunco lo calmò e gli diede un po’ di quel ristoro di cui la notte insonne lo aveva privato. Era una strana bevanda amarognola che, a quanto pareva, gli abitanti di Vitahj avevano in comune con i felichi.
«Acqua tutta buona, vita da essa essere pure. Popolo di acqua sapere» annuì sapientemente il felica, come a dire che i popoli che vivevano in simbiosi con fiumi laghi e mari sapevano sfruttare come nessun altro le loro materie prime.
Al caldo, in una delle piccole stanze del palazzo, Agur sorseggiava quella bevanda e ascoltava il silenzio tramortirlo con i suoi enormi spazi, dove ansia e paura si andavano ad ammontare.
Hyria era rimasta ai templi. Al suo fianco aveva il felica e l’Alto Cavaliere. Quest’ultimo era un uomo dalle poche ed enigmatiche parole. Agur avrebbe detto che sarebbe andato d’accordo con i modi incomprensibili del felica, ma quando li lasciò soli per andarsi a occupare dei preparativi per la loro partenza, questi sospirò grato.
Quando il principe gli fece notare la sua confusione, il felica s’indignò e rispose acidamente: «Strano a me no. Difficile parlare per capire essere. Lui strano sì. Facile parlare per non capire essere.»
Agur lasciò perdere. Stravaccato sul grande scranno imbottito di piume d’oca, per far risultare la seduta più comoda, il principe si guardava intorno per tenere lontane le ansie e i pensieri funesti. L’ambiente lo aiutava non poco, con le sue rifiniture particolari e pregiate. Tra le tante cose erano le grandi vetrate colorate che lo impressionavano. Fatture simili erano giunte in dono anche alla corte di Cahar, ma mai di simile bellezza. Quelle che ornavano la sala del trono, nella valle, per esempio, raffiguravano battaglie epiche ed eroi gloriosi; i loro colori erano vividi e avevano il compito di suggestionare gli ambasciatori in visita che venivano accolti in udienza da suo padre, il Re. Quelle del palazzo di Vitahj, invece, possedevano solo un colore – il blu – ma lo frammentavano in infinite sfumature, tanto che la delicatezza di tale opera costernava l’osservatore proprio per il senso di fragilità e imperitura bellezza che rappresentava. In quelle vetrate c’erano raccontate le storie dei miti e delle leggende, quelle dei sussurri del tempo che tanto affascinavano i bambini e facevano fantasticare gli avventurieri come lui; e c’era anche lo scorrere di tutto, dell’acqua che faceva spazio ai nuovi venuti con una carezza, ma che poi tornava al suo posto, libera di andare dove era suo destino scorrere, incurante del volere prepotente delle forze che cercavano di impedirglielo.
Non c’erano porte in quel palazzo. Così, quando Rineg sfiorò il suo scranno, il principe sussultò e si piegò per prendere in mano la sua spada.
«Pensavo ti sarebbe piaciuto visitare la mia città. Signore» aggiunse cercando di essere cortese, ma alle orecchie di Agur quell’appellativo suonò pesante e denso di ironia.
Tuttavia non era saggio per un sovrano rifiutare un simile invito, tanto più che era proprio quella città a ospitarlo e a tenere la sua gente al sicuro. Così rispose: «Sarebbe un onore.»
Rineg annuì e si avviò verso il corridoio. Agur, che era già stato traumatizzato dalla strada fatta per raggiungere quell’alcova, si affrettò a seguirlo, con il felica qualche passo dietro di lui. Le piccole stanze del palazzo erano collegate da tantissimi corridoi lunghi e stretti, cosicché passeggiare per i suoi anfratti diventava un’avventura labirintica in cui era facile smarrirsi. Una volta fuori, però, quello stesso senso di scombussolamento e perdita dell’orientamento si unì a una continua scoperta. Vitahj non era una città per cuori deboli o gente pigra. I vari livelli in cui era costruita erano collegati da lunghe gradinate e strette e ripide scale, tanto che a tratti gli sembrava di star discendendo una montagna; alcuni ponti erano quasi a punta, e li portavano sulla cresta del mondo. Alcune case e terrazze si gettavano a strapiombo, da alte rupi, sui boschi sottostanti o su tratti dell’Hiv. La cosa più impressionante, però, era la calma e la cordialità con cui tutti lavoravano e interagivano tra loro. Vitahj era candida, le sue strade erano pulite e i bambini correvano spensierati portando allegria, come l’acqua di un fiume che inonda di luce le trame oscure di una foresta oscura; i rumori dei fornai e quelli dei venditori che chiamavano la gente erano gioviali e serene, nulla a che vedere con gli schiamazzi disordinati e caotici delle taverne della capitale. Le locande della città fantasma erano allestite all’aperto, all’ombra dei fratelli-guida, e in molti pranzavano in quei luoghi raccontando storie e suonando la zampona. Camminando per le strade non era raro imbattersi in uomini e donne con le vesti blu che parlavano agli alberi. Intorno a loro il vento faceva danzare le foglie caduche e svolazzare in lampi di luce dei piccoli uccelli dalla forma allungata e dalle ali sottili, le nif. Alcuni Portatori, poi, erano seduti a gambe incrociate e lasciavano che la gente si avvicinasse, curando e portando sollievo ai malati e ai sofferenti.
Agur si lasciò sedurre dalla serenità di quella città e per un attimo dimenticò la guerra che imperversava oltre le sue mura. Avrebbe tanto voluto vivere lì, dimenticarsi dei suoi doveri, diventare uno tra tanti, significare qualcosa per poche persone, imparare a trovare quel perdono e quello spirito di unità che gli abitanti di Vitahj coltivavano con cura e amore.
Si fermò davanti a una fucina con le porte spalancate. Un uomo era inginocchiato davanti alla bocca del forno e reggeva una lunga canna di metallo, a cui era stato agganciato un ammasso di vetro. Il materiale, avvolto dalle fiamme, stava velocemente deformandosi e acquisendo un colorito aranciato. L’uomo, a torso nudo, allontanò la canna dal forno e l’appoggiò su un incavo del tavolo. Poggiò le labbra sull’estremità fredda della canna e iniziò a soffiare a pieni polmoni. Lentamente e con fatica, il vetro cominciò a modellarsi e a prendere una forma allungata e vuota all’interno. Veloce come un gatto, l’uomo lo lasciò a freddarsi e mise un’altra canna con un vetro dalle sfumature verdognole dentro al fuoco. Il lavoro a cui assistette Agur fu immenso e delicato. La fronte sudata e le mani annerite, l’uomo fece riscaldare il vetro a più riprese per poi lavorarlo sul tavolo con l’aria dei suoi polmoni e alcuni strumenti; con cura poi, iniziò a mescolare i diversi vetri fusi fino a quando le sfumature si mischiarono in un disegno sempre più definito e chiaro. In ultimo, lavorò il metallo e lo incastrò attentamente al vetro. Quando l’opera fu pronta, sul tavolo si trovò una lanterna di vetro con rifiniture runiche, poste sopra a un disegno di Vorouk che spiegava il volo sopra acque in tumulto.
Agur sgranò gli occhi e alzò il capo: sopra di lui il cielo era imbrunito e Mal stava scomparendo oltre i boschi verdeggianti, al di là del Mare di Mezzo. Era rimasto a guardare l’uomo lavorare il vetro per tutto il giorno. Il felica, al suo fianco, si avvicinò con passi cauti e indicò il lavoro finito sorridendo.
«Prendila pure, uomo blu» rise quello, «illuminerà la tua strada nei giorni a venire.»
Il felica s’inchinò dinanzi alla sua gentilezza e prese la lanterna, quasi con venerazione. Al principe disse, non appena gli si trovò di fronte: «Luce amica ossa nere batte.»
Al che Agur s’intristì e rispose: «Non credo che una lanterna possa aiutare il mio popolo.»
Risalirono verso il palazzo e il principe si congedò dai suoi compagni per addentrarsi in solitudine nei giardini. Camminò senza meta saltando da un isolotto all’altro, guardò le foglie farsi scure e annerirsi per poi rilucere sotto i raggi di Sel. Le luci di Vitahj si accesero, il sentiero di fiaccole che costeggiava l’Hiv sfidò la sera. Agur sperò che potesse guidare i suoi compagni di nuovo da lui. Il freddo gli ricordò cosa covava fuori da quella muraglia bianca, cosa stesse patendo la sua gente a causa della sua arroganza. Non lo aveva ammesso neanche con se stesso fino a quel momento, ma la leggerezza di quella città gli ricordò quanto era costata la sua esuberanza all’intero regno di suo padre. Come poteva adesso lui ereditarne l’onere? Non poteva biasimare la sfiducia che aveva colto chi lo aveva seguito, non avrebbe potuto punire chi aveva perso tutto a causa sua e gli negava la sua lealtà.
Nel tempio alle pendici dei fratelli-guida, l’acqua stava ridendo. Era un suono vivo, ritmato, frizzante. Agur varcò uno dei due ingressi e ammirò Hyria far volteggiare spire d’acqua tutt’intorno alla pietra e al bacile, fino a quando non venne anch’ella avvolta in quella vorticosa danza. Le spire si trasformarono in zampe e iniziarono a tastare il suolo e le pareti, sobillando e iniziando a corrodere le bianche pareti. Infine, come serpenti, strisciarono sul pavimento per tornare remissive dentro il bacile. Il respiro di Agur fu rumoroso e allarmò la giovane, la quale puntò i suoi occhi su di lui: erano di un azzurro glaciale che brillava.
«E questa non è magia?»
Hyria si ricompose e chiuse le mani in grembo. Il suo viso era rilassato, compassionevole. «In lingua runica si chiama Rurh, ed è una preghiera.»
Agur si adirò. «Cos’è una preghiera per te, si può sapere?»
«Un canto, un’invocazione. È gentilezza, è comprensione» rispose in un leggero sussurro. I suoi occhi tornarono del loro consueto biancore. «La magia che tu temi si chiama Gishk, è manipolazione e sottomissione. È abuso di potere, è privazione di libertà.»
«Mi hai mentito!» urlò. Sbatté un pugno contro l’arco di pietra. «Hai manipolato la verità per ingannarmi. Sei come la cariatide, alla ricerca di un vantaggio per i propri scopi.»
«No» mimò con le labbra, e gli occhi le si inumidirono. «Ti ho detto la verità che tu potevi accettare. L’ho fatto per aiutare te» riprese in un sussurro roco e tremante.
Agur le voltò le spalle e ridiscese verso il palazzo. Non si voltò indietro sebbene il suo cuore lo supplicava di ritornare sui suoi passi, ad avere compassione della prima persona, da quando aveva lasciato Cahar, che lo aveva guardato con occhi sinceri. Come aveva potuto mentire con quegli occhi? Come poteva l’acqua più limpida nascondere tali malvagità? Gli era stato insegnato che la magia era peccato, un male da estirpare; che i suoi antenati l’avevano seppellita al di là dei monti. Come poteva adesso lui accettarla, condonare quel crimine solo per aver salva la vita?
Adesso riusciva a vedere la verità: quelle strane piante, i soffiatori di vetro, gli uomini inginocchiati agli angoli delle strade… ingannavano la vita con quella blasfemia.
«Cahar di principe, di re!» lo chiamò una voce allarmata. Il felica stava balzando da un isolotto all’altro, sembrava un gazzella delle creste di Hitclast. «Alle porte tu… lei… essere» s’impappinò.
Agur sentì il sangue coagulare nel petto, e lì puzzare come una ferita in cancrena. «Che succede?»
Senza tanti complimenti il felica lo afferrò da un braccio e lo strattonò scompostamente verso le strade della città, giù per ogni terrazzamento, fino a lanciarlo contro il parapetto di una delle terrazze più sporgenti, la quale si gettava sopra la porta dei Vorouk. I rumori ovattati che già aveva captato lunga la corsa, tra le bianche vie e i canali azzurrognoli, si fecero finalmente immagini tetre e spaventose all’orizzonte, giù per il declivio che loro avevano affrontato al loro arrivo. Uomini e donne si erano armati di spade e fiaccole, tra quella marea di appiedati cavalcavano cavalieri in assetto da battaglia, con le picche alzate e gli spadoni che brillavano alle luci del fuoco. Un alito di vento spianò gli stendardi di Valissa e Cabiorn.
Rineg saltò sul basso parapetto e fiutò l’aria. «Vengono per le nostre teste, alla fine.»
Agur sgranò gli occhi e valutò la situazione. C’erano i buoi che trainavano lunghi carri – lì tenevano gli sputafuoco e altre diavolerie incendiarie tipiche della città di Valissa – e piccole viverne corazzate – a Cabiorn c’erano allevatori di quelle bestie. Il declivio s’illuminò a giorno e si mischiò alle fiaccole che delimitavano l’ansa dell’Hiv. A occhio e croce Agur poté stimare che le due città si erano completamente svuotate e riversate nei boschi intorno a Vitahj, portando con sé persino i vecchi e i bambini, e capì che era la mossa di un folle a guidarli.
«Rineg, raduna tutti i Portatori.» La voce dell’Alto Cavaliere era servizievole.
La veste di Rineg frusciò via in uno svolazzo blu. Agur si avvicinò all’Alto Cavaliere. «Non vorrete attaccarli? Parlerò io alla gente.»
«Non farlo, principe» lo mise in guardia, le rughe tra gli occhi sempre più marcate, «quello è un fuoco che vuole divorarci. E un fuoco non sa distinguere tra la sua preda e le vittime che incontra sul suo cammino.»
«Quelli sono i miei sudditi» lo minacciò con lo sguardo.
«Anche noi lo siamo» gli ricordò con una pacatezza disarmante.
Agur mantenne il contatto visivo per cercare una qualsiasi rimostranza in quello sguardo, ma esso rimase corrugato e mesto, come sempre. Allora il principe lo superò e chiese a gran voce le redini del suo cavallo. Quel poverino, portato a morso da uno stalliere, era stato tenuto sotto una delle tettoie delle terrazze, poiché Vitahj era sprovvista di stalle, e la sua calma era stata messa a dura prova dagli improvvisi risvegli dei Vorouk che vi stazionavano. Agur ne prese le briglie e lo montò con sicurezza. Quello, riconosciuto il suo tocco, lo servì con fedeltà, di nuovo libero dal giogo di quella città di pietra e acqua. Discese al galoppo per le strette strade e superarono la porta sorvegliata dai due Vorouk con la coda attorcigliata all’arco di pietra. Spronò il cavallo ad andare incontro ai fuochi e alle spade, la bava alla bocca e il cuore che pompava sotto i suoi muscoli.
«Popolo di Venasta, fratelli di Cahar!» vociò a metà strada. Gli stendardi erano stati ripiegati e i cavalieri di Valissa avevano puntato le lance. «Se siete ancora fedeli al vostro Re, allora abbassate le armi, perché è il suo sangue che scorre nelle mie vene! Fermatevi, vi dico!» La marea di disperati fu lenta a comprendere, non si fermò ma il suo passo esitò e rallentò. Molti urlarono e imprecarono additando Vitahj, alcuni, non avendo udito le sue parole, incitarono i compagni a uccidere il ʻmessaggero di pietraʼ.
Agur fece arrestare la sua cavalcatura. Si mise ritto sulle staffe e proclamò a gran voce: «Vitahj è nostra alleata! Cahar è caduta sotto i colpi delle belve nere e la città fantasma ha offerto ai sopravvissuti protezione e aiuto. Farò in modo che la dia a tutti voi!»
«Hanno liberato l’ossa ‘nere!» sbraitò una donna tra la folla, con un forcone in mano. Si tirò i capelli dalla disperazione. «Mio figlio… me l’hanno ammazzato!»
«Mio padre!» invocò isterica un’altra, reggendosi a un uomo con il viso sanguinato. «Pezzi pezzi per strada, lì l’ho trovato. Povero padre mio!» si sgolò, e scivolò in ginocchio mentre le sue mani non smettevano di percuotere le gambe del suo compagno.
«Papaveri rossi c’abbiamo lasciato dietro» strillò furente un’altra con la veste a brandelli e le braghe per tenere su i lembi della gonna, «ci penseranno loro a ricordare i morti. O c’abbiamo preparato le buche per noi?»
«Noi li ammazziamo!» chiarì uno dei domatori di viverne, che era già montato in sella a una di quelle bestiacce color del fango e dalle pupille verticali. Uno degli occhi della belva lo puntò proprio mentre il suo cavaliere parlava, una palpebra scattò dal basso verso l’alto repentina. «Sicuro che muore anche la sporca magia. Anojah poi pulirà tutto, piangerà e pulirà, amici!»
Agur deglutì: la gente sragionava, non lo stava ad ascoltare, parlava di miracoli e si attaccava ai loro dei per farli accadere. I visi erano indemoniati, i vestiti sporchi e consunti. Nelle retrovie poteva vedere persino bambini reggere con una mano i più piccoli e con l’altra armi mezze smussate. I vecchi si tenevano a tridenti e a lance, mentre gli occhi dei cavalieri infuocavano tutto ciò su cui si posavano, odiando la pace che li circondava e che invece loro avevano perso. Questo poteva capirlo: era la stessa cosa che aveva provato lui quando era arrivato… lo aveva provato fino a un attimo prima di vedere quella massa di profughi assediare i boschi intorno alla città mentre i suoi abitanti guardavano alla loro paranoia con sguardo mesto e remissivo. I vitahjir erano stati sfruttati, per poi essere cacciati e isolati, ingiuriati alle spalle e invidiati per le loro capacità manuali e visionarie. Decise di non pensare, per il momento, a ciò che aveva visto fare a Hyria.
«Sono il principe Agur, erede di Cahar…» deglutì, «e vi ordino di abbassare le armi!»
«Principe Agur?» chiesero alcuni tra le seconde file.
«È il principe Agur?»
«È il principe!»
Le voci si rincorsero fino ai declivi, dalle acque dell’Hiv ai carri ancora nascosti nel sentiero. Qualcuno gli puntò contro una fiaccola per illuminargli i tratti.
«Agur! Sei tu!» Der si fece largo tra la calca e si buttò sul garrese del suo cavallo per stringere le sue gambe in un gesto di felicità insperata. «Non credevo in tanta fortuna. Ho perso ogni traccia di Nor…» si affievolì la sua voce, lo sguardo perso nel manto scuro del cavallo. Scosse la testa e lo guardò a occhi spalancati. «Anche tu, a scacciare il male. Li purificheremo con il fuoco, come si fa con la peste, amico mio. Sei qui per questo anche tu…»
Agur rimase inorridito dallo stato pietoso e convulso in cui versava l’amico d’infanzia. Non sembrava in grado di riconoscerlo veramente. Smontò da cavallo e cercò di allontanarlo dalle sue vesti. Lo afferrò dalle spalle e aprì la bocca per calmarlo, ma Der continuava a farneticare e a guardarsi intorno, lanciando ordini e annunciando l’appoggio del signore di Cahar alla loro missione.
«Der, devi ascoltarmi…»
Il giovane uomo si trascinò sopra un carro e richiamò la folla a sé. «Ecco, ecco! Agabar ha mandato a noi il suo figlio prediletto. Il Dio del Fato sa come debellare il male dalle terre di Anojah, il Dio del Fato conosce la giustizia!» Le voci di esultazione si innalzarono verso le terrazze di Vitahj, e i versi dei Vorouk si scossero dalla pietra che li teneva dormienti. «Ecco, ecco! Sentite? I maligni si preparano ad attaccarci. Scendono direttamente a prendere parte a questa guerra. Se uccidiamo loro, l’Agabar ci libererà dalle belve nere, e dalle fiere d’oro, e dalle donne-ragno…» La bava gli colò sul mento e lui dovette riprendere fiato. Urlò: «Diamoli in pasto al fuoco! Uccidiamo i maligni!»
La gente fece balzare le proprie armi in alto e intonò: «A fuoco! A fuoco!»
Agur perse la pazienza. Si gettò sull’amicò e lo trascinò giù dal carro. «Che diavolo stai facendo?»
«Mi hai mandato tu ad avvertire il tuo popolo. Tutti quelli che sarebbero stati disposti a seguirti verso ovest. Poi ho pensato…» Der lo guardava confuso e balbettava sconnessamente, «… Nor non l’ho più visto… le belve nere, le hai viste? Oddio, spero di no… ho pensato, sì… Vitahj, a ovest sta Vitahj… Cahar distrutta, tutti i sovrani smembrati sul balcone…» Il sangue si gelò nelle vene del principe, «…sì, se tu eri morto, non potevi andare a ovest, ma a Ovest c’è Vitahj… ho pensato… a fuoco Vitahj, così finisce tutto, sì…»
«Ascoltami adesso!» Lo afferrò dalle spalle e gli diede un violentissimo strattone, tanto da catapultargli la testa all’indietro. «Nor è vivo, tornerà qui presto. Io so come fermare le belve… so dove potremo trovare pace e prepararci ad affrontarle.» Gli uomini più vicini a loro sentirono le sue parole e si azzittirono, quelli accanto a loro, di riflesso, sussurrarono sempre più piano, nel tentativo di capire cosa stesse accadendo. Presto, intorno ad Agur e Der si formò una campana di silenzio. Agur si sentì male, ma continuò a testa alta: «I cavalieri di Vitahj ci aiuteranno, useranno la loro… preghiera, pregheranno il loro Dio perché alzi una barriera a protezione della nostra terra. Non potete attaccare la città!»
Der spalancò gli occhi: «Nor è vivo? Dov’è?»
Agur ebbe pietà di lui. «Arriverà presto.» Si guardò intorno, fissò alcuni uomini e ne scelse uno che gli parve ancora lucido e moderato nell’atteggiamento. «Il tuo nome?»
«Mors. Sono… ero un alto in grado del palazzo di Cabiorn, mio signore.»
«Bene! Recluta dei messaggeri, che portino a tutti questo messaggio! Il figlio prediletto di Cahar è ancora vivo e si è guadagnato il potere del Dio delle acque per proteggere il suo popolo. Di’ loro che avranno acqua e cibo, ma che adesso dovranno abbassare le armi, perché il loro signore non vuole spargimento di sangue, per ora.»
Mors annuì più volte, poi si congedò in fretta e ripeté le sue parole agli uomini alle sue spalle. In sella ai loro cavalli, quelli si avviarono tra la folla per gridare a gran voce il volere del principe.
Agur sospirò di sollievo e si costrinse a prestare nuovamente attenzione al suo vecchio amico. Der gli stava strattonando la manica e chiedeva insistentemente dove fosse il fratello. «Sta facendo una cosa per me. Vieni, al palazzo dell’Alto Cavaliere c’è una stanza che ti aspetta. Mors, sarai tu a…»
«Nel covo dei maligni non entro!» sbraitò quello. «Ti hanno forse avvelenato la mente?» s’insospettì.
Agur lo guardò come si guarda la peggiore serpe che tenta di avventarsi al fianco. «Nessuno, divino o mortale, riuscirà mai a togliermi il senno! Che la mia stirpe possa perire nel fango, se questo mai accadrà.»
Der sputò per sancire quel giuramento. Sembrò calmarsi.
«Mors, rappresenterete Cabiorn. Trovate un rappresentante di Valissa e raggiungetemi alle porte della città. Vieni, Der» disse controvoglia.
Un po’ incitandolo e un po’ tirandolo di peso, condusse l’amico fino al palazzo dell’Alto Cavaliere. Il suo cavallo era stato di nuovo affidato alle cure dello stalliere, al quale stavolta egli si raccomandò perché al suo destriero non mancasse fieno, una cesta di mele e una bella spazzolata.
«Ah» esultò Der, il quale aveva adocchiato il felica, «tu sei il muso blu che serve Agur.»
Agur non ne poté più. «Siediti e resta buono qui fino al mio ritorno. Lì troverai un fuoco e un pasto caldo. Non lasciare questa stanza, nessuno ti disturberà.»
«Si, Agur. Ma muoviti» tremò sulle ultime sillabe.
Agur si chiuse la porta alle spalle con uno sguardo abbattuto: Der sembrava un bambino che ha paura del buio, incapace di potersi occupare di se stesso. Adesso egli doveva scoprire quali orrori si nascondevano nelle memorie di Valissa e Cabiorn, in modo da potersi spiegare una simile perdita di senno.
Mors aveva portato con sé una donna: Milenna. Dal suo portamento più che dai suoi abiti infangati, capì che era una donna dell’aristocrazia della città. Sul viso aveva un lungo graffio che le sfregiava lo zigomo e i capelli erano un ammasso aggrovigliato sulla sua testa.
«Vorrei potervi offrire riposo, ma ho bisogno di risposte.» In quel momento, sentì il peso che era gravato una volta sulle spalle di suo padre passare sulle sue. «Avete notizie di Cahar?»
Mors esitò, ma Agur scoprì che Milenna non aveva peli sulla lingua né conosceva mezze misure. «Impiccati sul balcone che dà sulla grande piazza, spogliati e spellati dalla vita in giù.»
Agur si tenne allo schienale di uno scranno per non vacillare. «Quali sorti per Cabiorn e Valissa?» Non voleva sapere!
Milenna rispose puntualmente: «Mio padre, il reggente della città, è stato legato a un cavallo sellato con dell’olio di acacia a cui è stato dato fuoco. Non credo potreste riconoscerlo, non ce l’ho fatta neppure io nonostante abbia guardato attentamente ciò che ne rimaneva. A Cabiorn siamo arrivati prima delle belve nere, ma le donne-ragno avevano già iniziato i loro giochi perversi.»
Milenna continuò nel suo catastrofico monologo, e a ogni parola che aggiungeva l’anima di Agur cadeva sempre in più profondi e squallidi anfratti, dove strati di viltà e ignobile paura sedimentavano sopra a quelli di inadeguatezza e colpa. Il felica era al suo fianco e non sembrava sorpreso dai racconti, ma li ascoltava con scrupolosa attenzione. Anche l’Alto Cavaliere ne reggeva il peso con la postura dritta e un’espressione indecifrabile.
«Mio signore» lo riscosse esitante la voce di Mors, «avete detto di avere un piano.»
Agur lo guardò allibito: aveva un piano? Lui? Sì, certo, ma cosa poteva la sua idea per coloro che erano già periti o per quelli che avevano dovuto assistere a quell’orrore? E con quale coraggio poteva garantire a quelli ancora in piedi che non lo avrebbero dovuto più rivivere? Ancora una volta, in quel momento più che mai, il bisogno di un potere più in alto di lui fu talmente forte da provocargli una fitta di odio-dolore.
«Io…»
«Mio signore.» La voce di Hyria attraversò la stanza come un lampo di luce che squarcia le nubi. Agur la vide rischiarare le tenebre che lo avvolgevano e affiancarlo a testa china, gli occhi puntati sulle sue mani. Non lo aveva mai chiamato con tanta reverenza. «Gli ultimi profughi sono stati rifocillati, i feriti hanno ricevuto le cure adeguate. Le Silenti, tue servitrici, stanno adesso rincuorando i più piccoli con le nuove preghiere.»
Agur si voltò verso di lei, ma fu Milenna a chiedere: «Le nuove preghiere? Verso quale Dio?»
Hyria rispose in un sussurro accorato: «Il Dio degli ultimi, il Dio della forza, il Dio della vendetta, il Dio della rossa rabbia… Colui che ha accettato il dono delle madri senza figli e delle spose vedove, dei figli rinnegati e delle anime in collera.» Chiuse gli occhi. «Meg.»
   
 
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