Serie TV > Once Upon a Time
Segui la storia  |       
Autore: Kerri    22/08/2018    2 recensioni
[CaptainSwan: AU] [Accenni Rumbelle, Snowing, OutlawQueen]
Emma Swan si è trasferita a New York a 17 anni, accettando una borsa di studio che le avrebbe cambiato la vita, lasciandosi alle spalle un'infanzia difficile, Storybrooke e il suo migliore amico. Ma ha dovuto vedere tutti i suoi sogni frantumarsi, schiacciati dalla consapevolezza di aspettare un figlio.
Adesso la sua vita si è stabilizzata, ha Henry, gestisce un negozio di antiquariato e non sa che la sua vita sta per cambiare drasticamente, riportando a galla i più nascosti fantasmi del suo passato.
Killian Jones ha un'unica regola nella sua nuova vita: basta impegnarsi. È uno degli architetti più promettenti di New York e un giorno, riceverà una proposta che potrebbe dare una svolta alla sua carriera. Ma per farlo, dovrà collaborare con una sua vecchia conoscenza, riaprendo ferite mai rimarginate.
Il destino, continuerà a prendersi gioco di loro e dei loro amici, tra incontri, scontri e colpi di scena. Ma riusciranno Emma e Killian a perdonarsi e a ricominciare? Riusciranno, insieme, a riscrivere il loro destino? E se questo non fosse stato ancora scritto?
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino, Regina Mills, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

24. Lights on and off


Image and video hosting by TinyPic



 
Stringimi
come se
non c'è più
niente
Tornerai tu in mezzo agli altri
e sarà come impazzire
tornerai e ti avrò davanti,
spero solo di non svenire. 
Mentre torni non voltarti
che non voglio più sparire
nel ricordo dei miei giorni
resta fino all'imbrunire.
 
 
Emma chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni per l’ennesima volta.
Era pronta.
Era quasi il momento di andare in scena e lei era pronta.
Davvero?
Il cuore cominciò a batterle per l’ansia. Non si era mai considerata una persona ansiosa e forse avrebbe dovuto. Killian sicuramente sarebbe stato d’accordo, le diceva sempre che si faceva troppi problemi inutili.
Si ricordò di quella volta in cui aveva chiamato Killian al telefono per dieci volte, solo perché aveva paura che non arrivasse in tempo per uno degli ultimi incontri con i Gold…
Forse ansiosa lo era diventata in quell’ultimo periodo…
Ok, stava lasciando correre liberi i suoi pensieri e questo non era di certo un bene.
Doveva concentrarsi.
Inspira, espira, inspira, espira…
Andò avanti così finché il suo cuore riprese a battere più o meno normalmente.
Era pronta?
Sì, certo che lo era.
Conosceva tutti i passi a memoria, la sera prima li aveva ripetuti fino alla nausea, ignorando i “non ti stressare” di Regina e dimenticandosi persino di andare a prendere la cena. Erano serviti Killian, Henry e due grandi confezioni di anelli di cipolla per scollarla di lì. Ovviamente non li mangiò tutti lei perché se l’avesse fatto, a quest’ora probabilmente avrebbe ancora dovuto digerirli, però sicuramente le erano serviti da incentivo.
Sorrise pensando ai due che, quasi sicuramente, adesso erano seduti in prima fila accanto a Regina, tutti e tre più in ansia di lei, chi per un motivo, chi per un altro.
E chissà quanti altri pezzi grossi c’erano lì vicino a loro…
Il teatro era stato riempito. La notizia del sold out era giunta qualche minuto prima e tutte loro l’avevano accolta con felicità mista ad ansia.
Emma rabbrividì.
Stava davvero per farlo? Salire di nuovo su di un palcoscenico, mettere le punte, sentire il tulle leggero aderire al suo corpo e svolazzare assieme a lei.
Da quanto tempo non provava quel brivido? Non riusciva neanche a ricordarlo.
Bugiarda, bugiarda Emma, certo che lo ricordi.
La verità era che quell’ultima volta, Emma non sarebbe mai riuscita a dimenticarla: aveva appena scoperto di essere incinta. Quella volta, l’ultima, quando il sipario si aprì e la musica cominciò, lei ballò con il cuore e i sogni a pezzi, sola e incapace di immaginarsi un futuro.
Nonostante quello o forse, proprio per quello, Emma diede tutta se stessa su quel palco, lacrime e sudore. Per un’ora e mezza dimenticò i suoi problemi, dimenticò quell’ammasso di cellule pulsanti che cresceva dentro di lei e dimenticò di essere sola al mondo. Si immedesimò nel suo personaggio, ballò e volteggiò e sorrise, sorrise come non aveva mai fatto.
Una volta finito lo spettacolo e aver ricevuto moltissimi applausi, Emma seppe con certezza che quella sarebbe stata l’ultima volta. Per questo cercò di imprimere nella sua mente ogni piccolo dettaglio: il preciso colore della tenda del sipario, il punto in cui aveva quasi rischiato di perdere l’equilibrio e quello in cui era seduto Neal, l’unica persona che allora poteva considerare una specie di familiare. Ripercorse i camerini e si fermò davanti a quello che aveva condiviso con Regina e le altre ragazze. Quella sera fu l’ultima a lasciare il teatro, assieme a Danny, il custode. Quella sera fu un addio ed Emma, chissà come, l’aveva intuito.
Adesso però, tutto era diverso, tutto era cambiato, tutto era migliore. Un futuro finalmente ce l’aveva anche lei, un futuro che non aveva neanche più paura di immaginare. Aveva un figlio che amava più della sua stessa vita, un uomo al suo fianco che avrebbe fatto di tutto per lei, degli amici preziosi, un lavoro che le piaceva.
Quella sera sarebbe stata la ciliegina sulla torta della sua vita, un premio che chissà come era riuscita a guadagnarsi. Non riusciva ancora a credere che fosse per lei, troppo abituata alle batoste della vita per riuscire ad accettarne i pregi e le sorprese.
Pensò a quanto fosse infondata quella paura che un mese prima l’attanagliava e quanto fosse fortunata nell’aver avuto qualcuno al suo fianco ad illuminarle la strada.
Pensò che quando il sipario fosse calato e quell’ansia, mista ad entusiasmo, si fosse trasformata in ricordo, avrebbe dovuto ringraziare Regina che le aveva permesso tutto quello e sì, abbracciarla, anche contro la sua volontà perché sapeva che Regina non era proprio una fan degli abbracci…
Scosse le spalle e continuò a riscaldarsi, a tirare i muscoli e distendere la schiena. Vide che Anna e le altre stavano imitando i suoi movimenti e arrossì. Non era mai stata il leader della classe, quel posto spettava sempre a Regina.
Dopo la “riunione” della donna, un mese e mezzo prima, molti avevano deciso di non partecipare allo spettacolo, chi decidendo deliberatamente di ignorare la causa e l’Accademia, chi donando somme in denaro.
Regina aveva capito e non aveva insistito. Dopotutto, non si aspettava consenso da parte di tutti… 
Molti altri, però, erano rimasti e avevano deciso di rimettersi in gioco. Emma, inaspettatamente, era tra questi.
Ritornare ad allenarsi era stato piuttosto faticoso. Non avevano molto tempo, di mezzo c’era anche il Natale e gli insegnanti avevano dovuto metterli sotto con prove intensive per imparare al meglio le nuove coreografie e ritornare, più o meno, in forma.
Avevano addirittura fatto lezione il giorno della Vigilia, sfidando il freddo e il traffico di New York pur di essere lì, in orario, pronti per allenarsi.
Ma non fu un problema: tutti loro erano abituati a quei ritmi, chi più, chi meno di altri.
Nonostante molti avessero lasciato il mondo della danza per dedicarsi ad altre occupazioni, il loro essere ballerini non era mai scomparso del tutto.
La danza ti cambia la vita e anche se non fai di lei il suo mestiere, essa ti resta comunque incollata addosso, manifestandosi in un gesto, un passo o anche solo nella perseveranza di non voler abbandonare un impegno preso.
Tutti loro erano cambiati.
Nessuno era più lo stesso di dodici anni prima, non potevano essere più diversi da quelle persone. Era normale, il tempo cambia anche chi non lo dà a vedere, anche chi non vuole. Le circostanze, le perdite, le gioie, l’amore, il dolore cambiano e modellano anche i cuori più impassibili.
Anna aveva perso quella spensieratezza che aveva un tempo, non del tutto, certo, era impossibile per lei perderla del tutto, ma Emma l’aveva notato, i suoi occhi avevano perso quell’ottimismo assoluto e quella completa fiducia nella vita che aveva da ragazza, anche se lei stessa cercava di non darlo a vedere. La donna avrebbe voluto chiederle cosa le fosse capitato ma non amava essere invadente e aspettava che fosse l’amica a parlarne.
Esmeralda, invece, a dispetto di quanto volesse far credere alla gente, non sembrava più invincibile.
Non ci credeva più neanche lei.
Quante delusioni avevano avuto queste persone? Quante perdite? Cosa avevano dovuto affrontare?
Emma avrebbe voluto saperlo ma non chiese mai.
Sperò che quei giorni insieme, quelle settimane, servissero loro per alleviare i rispettivi demoni, proprio come stavano alleviando i suoi.
Si ritrovò di nuovo a pensare a quanto, per la maggior parte della sua vita, fosse stata egoista e cieca.
Aveva creduto di essere la sola a soffrire, la sola a condurre una vita di rimpianti, di perdite e di dolori.
Non era così, non lo era mai stato.
Ripensò ad una frase che aveva letto molto tempo prima, non ricordava più neanche dove.
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre.”
Quanta verità in poche frasi. Si disse che le avrebbe stampate e appiccate da qualche parte, su un muro della sua camera o al negozio o persino sulla sua testa. Probabilmente ci avrebbe fatto addirittura una maglietta.
«Sei pronta Em? Non posso credere che dopo questa sera non ci vedremo più per chissà quanto tempo…» piagnucolò Anna, correndo ad abbracciarla per la duecentesima volta.
Emma ricambiò con affetto, stringendola più delle altre volte.
«Ti prometto che prima o poi verremo a trovarti Anna…» le mormorò su una spalla, cercando in tutti i modi di ingoiare quel grande malloppo che le si era formato in gola.
«Guarda che ci conto!»
«Verremo insieme!» propose Esmeralda ed Emma annuì piano, cercando di non rovinarsi lo chignon che le avevano appena fatto.
«Oppure possiamo vederci al tuo matrimonio Emma!» propose Tiana seduta davanti ad uno specchio, intenta a truccarsi.
Emma strabuzzò gli occhi e per poco non le andò la saliva di traverso.
Ok, Killian aveva ragione. Era decisamente una persona ansiosa.
«Che dici?! Per quello dovrete aspettare a lungo!» si difese la giovane, allungando un braccio di lato. Anna e Esmeralda la imitarono poi scoppiarono in un «Ma per piacere!»
«Sappiamo che è solo questione di qualche mese prima che Killian ti faccia la proposta!» aggiunse Esme.
«E tu ovviamente accetterai…» continuò l’altra.
«E qualcosa mi dice che Regina organizzerà un matrimonio perfetto, in cima ad un palazzo, con tanto di canzoncine sdolcinate in stile musical…» la prese in giro Tiana e poi tutte e tre scoppiarono a ridere.
«Smettetela!» ordinò Emma, cercando di togliersi dalla mente l’idea di lei in abito bianco e Killian in smoking che danzavano felici e innamorati.
Concentrazione Emma, concentrazione.
«Forse dimenticate che io e Killian stiamo insieme da soli – fece due calcoli veloci in mente – quattro mesi …» concluse, lei stessa chiedendosi come fosse possibile che in così poco tempo la sua vita fosse stata sconvolta al punto tale da farle addirittura prendere in considerazione l’idea di sposarsi.
«Non è importante da quanto tempo stiate insieme! Siete fatti l’uno per l’altra e questo basta!» esclamò Tiana, mostrando a tutte un inaspettato lato romantico.
«Già… Sembrate una coppia felicemente sposata con tanto di prole a seguito!» continuò Esmeralda.
«Voglio ricordarvi che questa qui – si infervorò Anna, puntando il dito contro Emma - è una delle persone più testarde che io conosca e quando io le dicevo che lei e Killian erano fatti l’uno per l’altra, tra l’altro, voglio precisare, senza neanche conoscere quest’ultimo, lei non mi dava ascolto!»
Emma guardò altrove. Odiava parlare della sua vita privata anche con loro, le sue amiche e Anna se ne accorse.
«Ma fortunatamente è acqua passata, hai Henry, vi siete rincontrati e stiamo per salire su un palco e Dio se sono agitata!»
Cominciò a saltellare a piedi uniti da una parte all’altra del piccolo camerino che occupava, provocando un sorriso in tutte loro, Emma compresa.
«Quindi, Killian non è il padre di Henry?» chiese Tiana ad un certo punto.
Doveva essersi persa qualche pezzo, pensò Emma.
«No, non lo è…» rispose semplicemente per poi cambiare discorso e continuare a riscaldarsi assieme alle altre.
Non sapeva che, dietro la porta, qualcuno indeciso se bussare o meno, aveva ascoltato la maggior parte dei loro discorsi.
Un’ombra che si dileguò prima che qualcuno potesse accorgersi della sua presenza.
 
 
Regina non lo dava a vedere, sapeva mascherare bene i suoi sentimenti ma era agitata, Dio se era agitata.
In cuor suo avrebbe preferito essere lì, dietro il palco, pronta ad entrare in scena, piuttosto che reggere tutte quelle responsabilità sulle spalle e caricarsi anche, l’eventuale, sconfitta.
Potrebbe essere anche una vittoria, la ammonì la sua coscienza che, stranamente, aveva cominciato a parlarle con la voce di Robin.
Scosse la testa.
Quando tutta quella storia sarebbe finita, avrebbe dovuto trovare uno psicanalista e anche uno bravo. Cos’era questa storia della coscienza? Lei non era di certo Pinocchio!
Qualcuno bussò alla porta del suo ufficio. Guardò l’orologio sulla sua scrivania.
Le diciannove e quindici minuti esatti.
Precisa e puntuale.
Le voci non sbagliavano.
«Avanti!»
Belle French fece il suo ingresso, accompagnata da Ella.
Regina congedò quest’ultima con un cenno del capo e poi si concentrò sulla prima. I capelli castani le incorniciavano il viso e gli occhi, ridotti a fessure felici, erano blu cielo.
«Signorina Mills, sono davvero contenta che lei abbia accettato il mio invito per un’intervista!» e stranamente, contenta lo era davvero.
Regina, in quelle circostanze, non si era mai fatta cogliere di sorpresa. Rispondeva sempre a poche e precise domande, controllando di persona ciò che i giornalisti davanti a lei annotavano sui loro taccuini.
Questa volta, però, si sentiva stranamente a disagio e Regina Mills odiava sentirsi così. Forse erano quegli occhi così felici e ingenui, del tutto privi di secondi fini o forse, la reverenza che tutti provavano per il fidanzato della giovane aveva alla fine contagiato anche lei.
«Prego, si accomodi… come sa, non ho molto tempo…»
Belle annuì e prese posto sulla sedie indicatale da Regina. Tirò fuori un piccolo registratore portatile, un quadernetto di pelle marrone e una penna a sfera apparentemente molto costosa.
«Cominciamo subito!» disse con professionalità e fece partire la registrazione.
 
 
«Henry! Henry! Sei pronto amico? Dobbiamo andare!» gridò l’uomo, indossando la giacca di pelle e prendendo le chiavi della macchina.
Henry scese velocemente dalle scale, rischiando di spezzarsi l’osso del collo e di provocare un infarto a Killian che, per quelle ore, era stato promosso a baby-sitter ufficiale.
«Sono pronto!» disse, arrivando giù di fronte all’uomo con un salto.
«Non lo fare mai più!» lo ammonì lui con un sorriso tirato, scompigliandogli i capelli.
«Oppure fallo, ma quando c’è tua madre!»
Henry sorrise scuotendo la testa.
Si infilarono in macchina e Killian mise in moto.
Emma aveva voluto invitare anche David e lui e Mary ovviamente avevano accettato. Tutto bellissimo, tranne per un solo dettaglio: toccava a lui dimenarsi nell’invivibile traffico di New York per andare a prendere la coppietta felice e portare tutti loro, sani e salvi, a teatro.
«Allaccia le cinture ragazzino! La Jolly Roger sta per salpare!»



«Allora signorina Mills, secondo lei, cosa penserebbe sua madre di questo spettacolo? E cosa pensa avrebbe fatto Cora Mills al suo posto?»
Regina credeva di essersela cavata piuttosto bene, credeva persino che aveva fatto male a preoccuparsi così tanto per quell’inutile intervista.
Almeno fino a quella domanda.
Non era stupida ed era piuttosto certa che neanche Belle French lo fosse, nonostante i suoi gusti in fatto di uomini lasciassero molto a desiderare.
Non era stupida e sapeva che prima o poi, sua madre sarebbe saltata fuori, come una sorpresa poco gradita dalla sua torta di compleanno.
Regina si portò le mani in grembo, pensando a quello che avrebbe risposto.
Poteva fare buon viso a cattivo gioco, di certo non le sarebbe risultato difficile stamparsi un finto sorriso in faccia e mentire, condire quella storia con banali cliché su quanto le mancasse sua madre e su quanto lei sarebbe stata fiera del lavoro che stava facendo al suo posto.
Sarebbe stato facile e probabilmente, in circostanze diverse l’avrebbe fatto.
Ma lì, in quel momento, non poteva.
Non sapeva precisamente perché, forse il senso dell’onore dell’uomo che stava frequentando di recente (faticava ancora a chiamarlo fidanzato), di Robin, l’aveva contagiata; oppure erano quegli occhi blu puntati su di lei come dei fari che aspettavano una risposta sincera, oppure era semplicemente stanca di mantenersi in faccia una maschera che, ormai, non le apparteneva più.
«Vuole sapere la verità, miss French? Io non so come avrebbe reagito mia madre se fosse stata qui. Non le nascondo che la sua morte prematura sia stata per me molto più che traumatica e che non mi sarei mai aspettata di poter sedere da questo lato della scrivania. Tuttavia voglio mettere in chiaro una cosa: io non sono lei, io non sono mia madre. Da sempre i nostri punti di vista non sono stati del tutto concordanti, anzi. Per molto tempo non ci siamo parlate, per molto tempo non ci siamo sopportate, incolpandoci a vicenda dei torti che avevamo subìto. La sua volontà di vedermi come preside della New York City Art Academy mi ha molto sorpreso, come ho già detto in altre sedi, e all’inizio mi è sembrato un misero tentativo di voler riallacciare i rapporti, un po’ come mettere del misero nastro adesivo su di una crepa molto più profonda… in seguito però, ho capito che non era così…»
«In che senso?»
Regina prese un respiro, fissò per un attimo Belle e poi continuò.
«Non è mai stata mia madre a designarmi come suo successore in questa scuola ma la preside Mills. Nonostante queste due identità, di fatto, portassero lo stesso viso e parlassero con la stessa voce, erano molto diverse e solo adesso, dopo la sua scomparsa, riesco a capirlo davvero…»
Belle non parlò ma Regina capì che era curiosa e che il suo sguardo le implorava di continuare a parlare, a raccontare e così lo fece, stupendo persino lei stessa.
Parlò dell’ultimo periodo di vita di sua madre, della demenza e di quei rari sprazzi di lucidità, quando a sua insaputa, l’aveva proposta al consiglio come futura preside. Loro ovviamente non avevano potuto rifiutare perché temevano ancora l’austera preside Mills e la sua influenza.
Quella, quella era la preside che Regina, in quei mesi non aveva mai incontrato.
Lei, per assurdo, in quel periodo di malattia e terrore, aveva conosciuto sua madre, quella che avrebbe potuto avere se solo le cose fossero andate diversamente, se solo entrambe fossero state meno cocciute. Aveva conosciuto la sua fragilità, il suo sorriso, la sua espressione sorpresa, le sue mani e quei ricordi che erano rimasti impressi nella sua memoria, vividi come non mai.
Disse che sua madre non aveva accennato neanche una volta alla sua nomina, anzi. Durante una crisi, una tra le più violente a cui lei avesse mai assistito, aveva ripetuto che odiava il suo lavoro, lo odiava perché l’aveva tenuta lontana da ciò per cui valeva veramente la pena vivere.
«Allora mi scusi, se sua madre non voleva che diventasse come lei, perché ha accettato il posto? Perché non ha semplicemente rifiutato l’offerta e continuato a fare ciò che stava facendo?»
Regina sorrise tra sé. Si era fatta quella domanda molte più volte di quanto Belle French avesse immaginato, alle volte senza trovare una vera risposta, altre cercando di costruirsela.
Ora, in quel momento, le sembrò chiara e precisa come non mai, come se fosse stata scritta sui giornali, sull’agenda, sul muro del suo ufficio, dappertutto, a chiare lettere.
«Perché sapevo di potercela fare, sapevo che non era mia madre ad avermi scelto, ma la preside Mills e non ho mai messo in dubbio le capacità di quest’ultima…»
Belle si sentiva più viva che mai. Adorava intervistare, adorava i segreti e adorava le storie. Non sapeva perché ma quel giorno Regina Mills, una delle donne più potenti e influenti della città, aveva deciso di aprirsi con lei, mettersi a nudo definitivamente e lei non poteva lasciarsi sfuggire questa opportunità che, era sicura, non le sarebbe ricapitata tanto presto.
«Non ha avuto paura delle voci? Di chi si lamentava del fatto che il posto andasse da padre in figlio, da madre a figlia in questo caso, come una sorta di gerarchia? Non è stanca di chi la accusa di nepotismo o favoreggiamento?» chiese con audacia.
«No, l’opinione degli altri non ha mai condizionato le mie scelte, né tantomeno quelle di mia madre» rispose la donna in tono franco.
«In questo, infatti, le somiglio molto. Per tutta la vita, ho cercato solo e soltanto l’approvazione e l’amore di una madre, approvazione che, mi piace pensare, ho ricevuto solo qualche mese fa. Ottenendo questo posto, non ho avuto che l’approvazione della preside Mills. È stata lei che mi ha scelta come suo successore perché mi riteneva in grado di ricoprire un ruolo del genere, di affrontare una crisi come quella che la scuola sta affrontando adesso, non perché ero sua figlia ma perché ho il carattere e la motivazione giusta per farlo.»


 
 
Era fatta.
L’aveva fatto, l’aveva fatto per davvero.
Si inchinò per l’ultima volta, prima che la tenda rossa del palcoscenico calasse definitivamente e li nascondesse del tutto.
Era sudata e accaldata e piena di energie. Avrebbe potuto ballare per altre due ore se avesse potuto.
Subito tutti proruppero in grida di gioia, qualcuno scoppiò a piangere. La tensione, fino a quel momento presente, si allentò fino a scomparire del tutto.
Emma si sentì prendere per mano e trascinare in mezzo a braccia, corpi sudati e rivestiti di tulle. Tutti si abbracciarono, c’era chi piangeva, chi tirava i muscoli, chi non poteva fare a meno di provare per un’ultima volta un grand-jeté su quel palco.
Anna l’abbracciò ed Emma ricambiò, trattenendo a stento le lacrime.
Si guardò intorno e capì che quella sera aveva preso parte a qualcosa di grande, che tutte quelle persone incapaci di scollarsi di lì, tutte quelle vite apparentemente così lontane, quella sera erano state legate insieme da qualcosa di grande e meraviglioso.
C’erano stati imprevisti e sacrifici, più di uno si era dimenticato qualche parte di coreografia, qualcun altro aveva decisamente improvvisato, ad una ragazza era venuto un attacco di panico e aveva lasciato il palco per correre in bagno a vomitare, avevano avuto problemi con la pece e i vestiti, un’amica di Tiana si era stirata un muscolo proprio durante un balletto e, tirando i denti, aveva continuato a ballare come se niente fosse.
Come in ogni spettacolo che si rispetti, non tutto era filato come previsto ma, forse proprio per quello, Emma non l’avrebbe dimenticato presto. Probabilmente mai.
L’adrenalina prima di salire, i muscoli in allerta, gli ultimi ritocchi prima di entrare in scena, il familiare dolore ai piedi, l’ansia di dimenticare qualche passo, la bellezza di poter girare e saltare, quasi volare, l’energia del pubblico, la loro muta e allo stesso tempo importante presenza, la consapevolezza che tra loro c’erano persone a cui teneva e che, a loro volta, tenevano a lei, l’orgoglio nel poter affermare, senza paure né remore che stava ballando per loro, solo per loro.
Regina li raggiunse poco dopo, seguita da Ella.
Anche lei sembrava emozionata e fu in quel momento che Emma capì quanto tutto quello che avevano fatto fosse stato importante per lei. Una piccola parte di lei, avrebbe voluto che anche Regina avesse ballato sul palco assieme a loro, proprio come ai vecchi tempi. Lei e la sua migliore amica a calcare la scena, sfidando i loro limiti e oltrepassandoli. Emma sapeva che anche Regina desiderava la stessa cosa ma purtroppo le circostanze non gliel’avevano permesso. Si sentì incredibilmente orgogliosa della sua amica, del modo in cui aveva affrontato tutto, con grazia e allo stesso tempo forza, come solo una ballerina avrebbe potuto fare.
Senza troppe cerimonie, lasciò le altre e andò dritta ad abbracciarla.
Non le importava il sudore, non le importava neanche il costoso vestito che Regina indossava.
Doveva farlo perché glielo doveva, perché se non fosse stato per lei, mai avrebbe pensato di poter rivivere una cosa del genere. Doveva farlo perché anche se di fatto Regina aveva fatto parte del pubblico quella sera, lei l’aveva comunque portata con sé sul palco, in tutti i passi, in tutte le coreografie.
La mora, dal canto suo, dopo un commento sarcastico su quanto Emma fosse sudata, si lasciò abbracciare.
La tensione abbandonò anche il suo corpo e per un attimo, furono solo due amiche, l’una felice per i traguardi dell’altra e viceversa.
Fu così che lui le trovò.
«Sei stata bravissima!»
 
 
Killian aveva visto molte cose nella sua vita, non tutte esattamente belle.
Solamente da poco, gli piaceva pensare da quando Emma era rientrata nella sua vita, il suo sguardo aveva ricominciato a soffermarsi sulla bellezza nel mondo.
Bello era svegliarsi la mattina con la sua fidanzata dall’altro lato del letto, ancora addormentata.
Bello era il suo lavoro, quella scintilla che si immaginava scattasse nel suo cervello prima di progettare qualsiasi cosa.
Bello era il panorama dal suo ufficio e il tramonto sul mare.
Bello era fare colazione fuori e chiacchierare con i suoi amici o preparare ad Henry la colazione.
Ormai si era allenato a riconoscere la bellezza, ormai pensava di avere le parole giuste per descrivere qualsiasi cosa.
Eppure quella sera, capì che di parole, lui, non ne aveva proprio nessuna.
Aveva visto Emma ballare, aveva visto Emma nel suo elemento. Aveva visto il candore, la grazia, l’eleganza che emanava e poi aveva visto il dolore, la passione, la forza.
Aveva visto tutto quello che Emma voleva, aveva letto ogni movimento delle braccia, della testa, delle gambe come fossero le sue braccia, la sua testa e le sue gambe a muoversi.
Aveva letto il suo sguardo, tutte le emozioni che erano in quegli occhi verdi e ne era rimasto incantato.
Come poteva, con una singola parola, descrivere tutto quello?
Come potevano le parole contenere tutto quello?
Lo spettacolo era finito e lui ormai si era spellato le mani a forza di applaudire.
Si vergognava ma aveva anche un po’ gli occhi lucidi.
Staccò gli occhi dal palcoscenico soltanto quando non fu più in grado di scorgerla e vide che Henry aveva il suo stesso sguardo.
Orgoglioso, pieno d’amore, velato da lacrime che stavano cercando di trattenere con tutte le forze.
Un sentimento di benessere si impossessò del suo corpo.
In quell’ultimo periodo si era allenato a riconoscere anche un’altra cosa, la felicità, e capì che in quell’istante era felice.
Felice senza attenuanti, felice e basta, felice punto.
E la cosa più bella era che non era felice per qualcosa che lui aveva fatto ma era felice per qualcun altro.
Emma gli si era radicata dentro a tal punto che era ormai parte di lui e per questo, pensava, non avrebbe potuto provare altro. Anzi, a pensarci bene, era sempre stato così, lui l’aveva sempre avuta lì, dentro il suo cuore, rannicchiata e da qualche mese ormai era semplicemente ritornata a galla.
Se lei era felice, lo era anche lui. Dipendeva da lei e le era grato per averlo accettato.
Mai, mai avrebbe pensato che scegliere liberamente di rinunciare alla propria libertà per donarla a qualcun altro, l’avrebbe fatto sentire così vivo.
 
 
«Robin! Grazie!» rispose Emma felice, staccandosi dalla sua amica.
Regina lo guardò con un sorriso a trentadue denti.
Si sentiva fiera di quello che avevano fatto quella sera, sapeva che, in un modo o nell’altro, quello spettacolo avrebbe sicuramente contribuito ad aiutare la scuola.
«Che te ne pare? Siamo stati bravi? Si è visto che non mi ricordavo praticamente nulla?» domandò Emma con una punta d’ansia. Sapeva che, nonostante non ci fosse niente a dividerli, il palcoscenico e la platea erano due mondi estremamente diversi e che, ciò che accadeva sul primo, non necessariamente veniva captato dal secondo e viceversa. Eppure aveva bisogno di un’ultima certezza, prima di affrontare Henry, Killian e gli altri.
«Certo, siete stati tutti bravissimi! Specialmente tu!»
Emma arrossì e gli sorrise, grata.
Era felice che la sua amica avesse trovato, per puro caso in un ospedale, quell’uomo tanto gentile e onesto. Sperava che le cose, tra loro, restassero per sempre così.
«Non dirgli che te l’ho detto ma Killian ha trattenuto le lacrime per buona parte dello spettacolo!»
Il sorriso di Emma si aprì ancora di più al nome di Killian e il cuore le si strinse nel petto.
Non vedeva l’ora di abbracciarlo.
«Non glielo dico, promesso!» disse, prima di fargli l’occhiolino e correre da lui, da loro.
Non ce la faceva più ad aspettare e non importava se avesse ancora addosso il costume di scena, se lo chignon le tirava i capelli o se ai piedi aveva ancora le mezze punte, doveva vederli.
Scese in fretta le scale e si addentrò nella platea.
Alcuni la riconobbero e le sorrisero o almeno così le parve.
Era felice, il cuore le batteva ancora nel petto e forse, non aveva ancora realizzato appieno ciò che aveva appena fatto.
Non fu difficile scorgerli.
Killian ed Henry erano insieme a David e Mary Margaret, parlottavano tra loro e si guardavano intorno, cercando di scorgere un volto familiare.
Il primo a riconoscerla fu Henry.
Si buttò tra le sue braccia proprio come, il giorno della sua recita, aveva fatto con Regina. Lei lo strinse e gli baciò i capelli.
«Sei stata bravissima, mamma! La migliore, la migliore in assoluto!»
«Grazie ragazzino!»
Subito li raggiunsero tutti gli altri.
Emma sorrise a tutti loro, per ultimo incrociò lo sguardo di Killian e vi lesse tutto l’amore e l’ammirazione che provava e si sentì anche lei sommersa, il suo cuore strabordante di emozioni.
Abbracciò tutti, quel giorno avrebbe potuto abbracciare chiunque e per ultimo, abbracciò lui.
Lui che l’aveva vista crescere assieme a quel sogno.
Lui che l’aveva incoraggiata ogni giorno.
Lui che, dodici anni prima, l’aveva persa per quell’insano desiderio di ballare e adesso era lì, come se niente fosse successo, pronta a sostenerla ancora, sempre.
Lui che adesso non l’avrebbe lasciata più.
Tutti i pezzi del puzzle della sua vita si ricomposero, presero vita e unirono tutte quelle persone, tutti quei sentimenti, in un’unica bellissima e indimenticabile immagine.
«Devo dirti una cosa» le sussurrò ad un orecchio.
«Cosa?»
«Ti amo»
«Lo so…» sorrise.
«Ti amo anche io»
 
Il teatro si era svuotato e lei stava raccogliendo le ultime cose dal suo camerino assieme a Killian. Aveva salutato le altre, promettendo loro che prima della loro partenza si sarebbero riviste e avrebbero pranzato insieme. Emma pensò che avrebbe potuto anche invitarle a casa sua, dopotutto era una brava cuoca no? Henry glielo diceva sempre e Killian l’aveva confermato.
Stava ancora valutando l’ipotesi quando sentì qualcuno bussare alla porta del camerino. Si voltò e accolse i nuovi arrivati con un sorriso.
«Emma sei pronta?» chiese l’uomo, appoggiandosi alla porta.
«Sì sì, devo solo raccogliere tutti i miei vestiti sparsi e infilarli qua dentro…» disse indicandogli il borsone mezzo vuoto, pronto per essere riempito.
«Ok, volevo dirti che c’è un uomo fuori che vorrebbe parlarti…»
Emma sollevò lo sguardo mentre prendeva il grande malloppo di vestiti, calze e body e lo infilava nella borsa.
«Un uomo? E chi è? Che vuole?»
Killian alzò le spalle.
«Non lo so ma non sono geloso, non ti preoccupare…» disse con una certa aria di superiorità.
Emma alzò gli occhi al cielo con una risata. Davvero, dopo tutto quello che avevano passato, lui pensava davvero che lei avrebbe potuto avere occhi per qualcun altro che non fosse lui?
No, certo che no. Ecco perché era così sicuro di sé.
Rise.
«Arrivo… e Henry?» chiese, guardandosi intorno per un’ultima volta.
«David ha proposto di andare a mangiare qualcosa e lui, Mary, Robin e Regina sono già andati al ristorante…»
«Wow, una cenetta di famiglia…» sorrise Emma scoccandogli un bacio sulla guancia poi continuò.
«Certo, il fatto che ci abbiano lasciati soli è un puro caso, uno scherzo del destino, no?»
Killian rise e ammiccò.
«Ovvio…»
Emma si avvicinò e gli prese la mano, intrecciando le dita con le sue. Poi si girò per un’ultima volta verso il camerino, diede un’ultima occhiata ai muri, alle scritte ancestrali e ad una, piccolissima, più recente. Inspirò ancora una volta l’odore di umidità e sentì tutto il peso del borsone premerle sulla spalla.
Quella era l’ultima volta.
Questa volta, a differenza di undici anni prima, non era triste, né tantomeno felice. Era una sensazione strana, una sorta di malinconia, come qualcosa che sai che prima o poi dovrà accadere e sai che ne sarai devastata e poi, quando arriva, non è così male come pensavi e tu sei perfettamente in grado di cavartela da sola. Si sentiva in qualche modo preparata a quell’addio, come se fosse qualcosa di inevitabile, qualcosa che rimandava da anni e che non poteva più aspettare. Per anni la danza era stata la sua vita. Per anni ballando aveva dato sfogo ai suoi demoni, alle sue angosce, ai suoi timori ma anche alla sua felicità. La danza era stata salvezza e dannazione al tempo stesso, una medicina e una droga.
Adesso però, era giunto il momento di smettere. Forse tutto quello che aveva passato, tutti gli anni passati a saltare e arrampicarsi su di un palo, tutti gli sbagli e le lacrime avevano come unico scopo quello di portarla lì, sull’uscio di un camerino, nel teatro che più di tutti aveva segnato la sua vita, con la mano intrecciata a quella del suo migliore amico.
Forse sì, forse era così, forse c’era davvero un piano da qualche parte.
Spense la luce.
Un grande, importante capitolo della sua vita era terminato.
O almeno così pensava.
 
«Possiamo sempre andare al Mc Donald’s!» propose Henry che ad arrendersi, proprio non ci riusciva e in questo, nessuno poteva obiettare che non somigliasse a sua madre.
«Henry, mi dispiace ma non ho intenzione di nutrire mio figlio non ancora nato con quelle porcherie…»
«David, caro, apprezzo l’interessamento ma sono io che mangio, ricordi?» gli rispose Mary Margaret che ad un bel panino, in fondo, non avrebbe detto di no.
Regina alzò gli occhi al cielo poi si voltò verso Robin con uno sguardo che parlava.
Sì, perché Robin capì immediatamente ciò che Regina avrebbe voluto dirgli e assomigliava a qualcosa tipo “perché diavolo ci siamo dovuti trasportare anche Biancaneve incinta e il Principe Azzurro?”
Erano loro sei, in piedi sul marciapiede e Regina pensò che di lì a poco sarebbe morta ibernata se non avessero trovato al più preso un locale dove mangiare. Era Gennaio inoltrato e il freddo a New York ti entrava fin dentro le ossa. Qualche giorno prima aveva addirittura nevicato ma i newyorkesi ci avevano fatto l’abitudine. Regina aveva tirato fuori dal suo armadio una sciarpa di lana nera che non indossava quasi mai perché troppo ingombrante. Tuttavia in quel momento, era davvero felice di averlo fatto. Chiamò Henry e Roland a raccolta, stringendo le loro piccole manine infilate nei guanti, poi si voltò di nuovo verso Robin.
«Se non troviamo qualcosa subito, giuro che chiamo un taxi e torno a casa! E mi porto i bambini!»
«Perché non andiamo in quel pub Robin, quello in cui…» David si interruppe a metà frase, probabilmente ricordando che in genere, a quell’ora nei pub non ci sono posti neanche per due persone, figuriamoci per tre coppie con due bambini, ammettendo sempre che li avessero fatti entrare i bambini.
Regina sbuffò e si guardò intorno. Quel quartiere le sembrava familiare…
«Venite, se non sbaglio qui vicino c’è un locale e dovrebbe esserci posto per tutti…»
«Sei sicura? Voglio ricordarti che abbiamo chiamato ben tre posti e tutti ci hanno detto che…» replicò David.
«Sì, so cosa ci hanno detto, grazie per avermelo ricordato Bello Addormentato, c’ero anch’io! Non ti preoccupare, questo posto è abbastanza grande e dovremmo starci tutti…»
Si incamminarono. Lei al centro, mano nella mano con i bambini. Robin dietro di lei e qualche passo dietro di loro, David e Mary Margaret che non osarono controbattere a ciò che disse la donna, vuoi per reverenza, vuoi perché in fondo aveva ragione e quella era la loro ultima speranza.
Poco dopo, si ritrovarono di fronte ad un ristorante tutto illuminato, con una grande insegna blu.
David spalancò gli occhi.
«Aspetta, ma io questo posto lo conosco!»
«Blue Mermaid Restaurant… che nome curioso!» commentò Mary Margaret prendendo sotto braccio David.
«Come fai a conoscerlo? Ci portavi le tue fidanzate?» continuò sarcastica.
«Mm una cosa del genere… Aspetta che lo scopra Killian!» rise, prima di seguire Robin, Regina e i bambini dentro il locale.
 
 
Our love is… m-m-m-m-m-mad-mad-mad madness.
«Be’ direi che la canzone è piuttosto appropriata…» commentò Emma, cercando di alleggerire la tensione che si respirava nell’abitacolo della macchina di Killian. Si stavano recando verso il ristorante che David e gli altri avevano scelto. Emma si guardò intorno, riconoscendo qualche palazzo e ricontrollando sul cellulare se si stavano muovendo verso la direzione esatta.
«Già… - commentò l’uomo, prima di tirare un profondo respiro e affrontare la questione che li tormentava da quando avevano lasciato il teatro- Emma, senti, tu non…» ma la donna lo zittì prima che lui potesse terminare qualsiasi frase avesse intenzione di pronunciare.
Non voleva aprire quel discorso.
Non ora che tutto era perfetto.
«Non dire niente, non ancora» lo pregò, cercando di rassicurarlo.
«Ma…» Killian cercò di obiettare qualcosa, anche se non sapeva neanche lui cosa avrebbe voluto dire.
«Ti prego, ne parliamo stasera, adesso… adesso facciamo finta che quell’uomo non si sia mai fermato, non ci abbia detto niente e…»
«Veramente ha parlato solo con te!» la corresse Killian, beccandosi un’occhiataccia alla quale rispose con un sorrisetto beffardo. Tuttavia la donna, dietro quell’espressione sarcastica, riuscì a scorgere un velo di tristezza, quasi di resa incondizionata, come se in fondo, sapesse già o avesse già vissuto la discussione che li aspettava dopo quella conversazione. Era lì, dietro l’angolo, Emma riusciva a vederla con chiarezza.
Tuttavia, non aveva voglia di imboccare quella strada, non ancora.
Per un volta voleva semplicemente godersi quella cena senza altri pensieri, senza problemi da risolvere, lacrime da versare, persone da abbandonare.
«Hai capito cosa intendo!» gli rispose Emma gesticolando e immaginando di rinchiudere le parole di quell’uomo in un baule e nasconderlo in una qualche parte remota del suo cervello. Henry le aveva detto che funzionava ma probabilmente lei non era in grado di farlo, visto che il viso tondo e sbarbato di Facilier (così si chiamava) continuava a saltare fuori, come una faccia spaventosa di quei clown inquietanti che saltavano fuori dalle scatole non appena le aprivi. Insomma, quelli che nei film horror non mancavano mai e che una volta, un’apparentemente innocua vecchietta le aveva portato al negozio.
Killian annuì pensieroso. Non sapeva bene come si sentiva, probabilmente se avesse dovuto descriverlo a parole avrebbe detto “in bilico”.
Sì, in bilico.
La sua felicità era in pericolo, come se un bellissimo palloncino colorato stesse volando improvvisamente troppo vicino ad un cactus.
Quell’uomo era il cactus.
Maledetto! Come aveva detto che si chiamava? “Facile-qualcosa”? Ad ogni modo, avrebbe potuto tranquillamente starsene a casa sua!
Sbirciò con la coda dell’occhio l’espressione della donna al suo fianco che sembrava stranamente tranquilla.
Strano, molto strano.
Killian non era stupido e conosceva Emma come le tasche dei suoi jeans e lo faceva sorridere il fatto che lei tentasse ancora di nascondergli qualcosa.
Emma si accorse del suo sguardo e gli sorrise, cercando di sembrare il più rassicurante possibile. Forse fallì, non ci badò, distolse subito lo sguardo, il faccione di quell’uomo si stava impossessando di nuovo dei suoi pensieri. Scosse la testa. No, doveva dire ad Henry che il suo metodo non funzionava affatto!
Fissò il panorama.
New York non deludeva mai. Ogni volta che passeggiava, passava in macchina o in taxi tra le strade del centro, qualcosa riusciva sempre a cogliere la sua attenzione: una vetrina, un eccentrico copricapo, una foglia caduta, un cagnolino. Quella volta, il suo sguardo cadde su un’insegna familiare.
Ricontrollò il messaggio di David.
«Ma io questo posto lo conosco!» esclamò, togliendosi la cintura e aspettando che Killian terminasse le ultime manovre del parcheggio.
L’uomo diede uno sguardo in giro, poi sbuffò.
«Di male in peggio!»
Emma lo guardò interrogativa.
«Perché dici così? Non ti piace? In realtà si mangia abbastanza bene, io e Regina ci siamo venute un po’ di tempo fa con dei clienti…»
Killian alzò le sopracciglia.
«Clienti? E da quando andate a cena con i clienti?!» chiese, fingendosi parecchio geloso.
Emma rise e a lui sembrò che le cose ritornarono magicamente al loro posto, che se lei avesse riso così per tutta la sera, forse poteva davvero riuscire a fingere che quell’ultima mezz’ora non fosse mai accaduta.
«Oh sai, qualche volta… Regina mi costrinse a mettere persino i tacchi!» disse, ridendo sotto i baffi.
«A proposito, quel giorno persi la collana! La collana che avevi tu, questo vuol dire che…»
«Dici che siamo stati nello stesso posto, allo stesso momento e non ce ne siamo neanche accorti?»
Emma annuì, sorridendo. Il destino stava giocando con loro da molto più tempo di quanto loro stessi avessero mai pensato.
«Assurdo!» commentò Killian, passandosi una mano sugli occhi. Quelle coincidenze continuavano a destabilizzarlo.
Nel frattempo erano scesi dalla macchina e si stavano incamminando verso il locale. Cominciava a sentirsi già l’odore di pesce ed Emma accelerò il passo, prendendo l’uomo al suo fianco per mano e trascinandoselo dietro.
«Fammi pensare io ero qui il… credo fosse Ottobre… no, Settembre…»
Killian si mise le mani in tasca, prese il cellulare e gli bastò scorrerei tra i vari messaggi per ricordare la data esatta.
«Noi siamo stati qui il 19 Settembre alle 22:21!»
«Noi chi?!» domandò Emma, cercando di non apparire troppo gelosa. Killian la guardò di sottecchi, sapeva che adesso gli avrebbe riservato un’altra delle sue risate contagiose e in fondo, ci sperava anche.
«Io e David…»
Emma, come previsto, scoppiò a ridere.
«E che cosa ci facevate in questo romantico ristorantino tu e David alle 22:21?!» cercò di chiedergli tra le risate.
«E poi perché sai con certezza che erano le 22:21?»
Killian cercò di trattenersi, ma alla fine non poté che ridere con lei.
Avevano varcato la soglia del ristorante e Ariel, la giovane cameriera dai capelli rossi dell’altra volta, li stava scortando al loro tavolo.
«Questo dovresti chiederlo a David!»
Emma rise.
Stava cercando di dimenticare che uno sconosciuto le aveva appena offerto un posto in una prestigiosa compagnia di balletto internazionale.
Per adesso, stava facendo un ottimo lavoro.
O forse no?
 
 
La serata trascorse in tranquillità. Certo, per loro probabilmente “tranquillità” aveva un’accezione diversa rispetto al resto del mondo. Significava ridere incessantemente per venti minuti dopo che David aveva raccontato come fossero andate le cose quella sera al Blue Mermaid Restaurant; sgridare Henry e Roland per aver condotto chissà quali esperimenti in un disgustoso bicchiere ricolmo di un liquido che probabilmente un tempo era stato Coca Cola; punzecchiare Regina perché si ostinava a chiamare Robin, il suo “appuntamento” invece che il suo ragazzo; stare a sentire Mary che si lagnava di quanto David fosse apprensivo durante la gravidanza, quasi dovesse trasportare lui il bambino per nove mesi nella pancia; commentare lo spettacolo che avevano appena visto... Probabilmente neanche la vita avrebbe immaginato che un gruppo di persone così diverse tra loro, potessero sedere allo stesso tavolo e persino divertirsi e scherzare insieme.
Presto Roland si addormentò e stranamente anche Henry si distese accanto a lui su di una specie di letto formato da tante sedie una accanto all’altra.
Il locale pian piano si svuotò, ma le chiacchiere non finirono. Emma riuscì a dimenticare per qualche ora, il grande e grosso elefante che l’aspettava tornata a casa. Si raccontarono qualche aneddoto adolescenziale, come quando Killian convinse Emma che doveva assolutamente provare il cibo indiano e lei stette male per i due giorni consecutivi, maledicendo Killian tra un conato di vomito e l’altro e giurando che mai più avrebbe mangiato una simile schifezza in tutta la sua vita; oppure la prima volta che Killian, David e Robin erano usciti insieme come un vero gruppo di amici, finendo sbronzi e bagnati in una fontana di Central Park, assieme ad un gigantesco orso di peluche; oppure di quando Regina aveva scambiato un cliente per una postino e gli aveva fatto una ramanzina infinita per aver lasciato le lettere sul pavimento e non nell’apposita cassetta.
Insomma, tutto stava andando per il meglio, Emma avrebbe voluto che quella serata non finisse più.
Lanciò un’occhiata a suo figlio che dormiva beatamente dall’altra parte del tavolo, assieme al suo nuovo amico.
Per un secondo, un millesimo di secondo, si lasciò trasportare dagli eventi. Si isolò da tutto il resto, dai suoni, dai colori, dagli odori del locale e stette semplicemente a guardare i suoi amici, quelli vecchi e quelli nuovi, quelli di una vita e quelli appena conosciuti, che ridevano e discutevano e legavano e per un attimo, un singolo attimo, credé di poter essere felice.
Fu un secondo.
Poi arrivò Ariel e con lei arrivarono i problemi.
Nuovi.
Pesanti come macigni.
Gelati come una doccia fredda dopo una giornata intera sotto il sole.
«Scusi signorina, mi avevate chiesto il conto e be’… quell’uomo ha già pagato tutto»
Si voltò.
Le sembrò che il sangue le si fermasse nelle vene, che il cuore e il cervello e persino i polmoni si bloccassero, smettessero di fare qualsiasi cosa fossero destinata a fare.
«Neal»
«Di male in peggio!» ripeté Killian sottovoce, per la seconda volta in quella serata, apparentemente tranquilla.
 
 
Tornerai tu in mezzo agli altri
e sarà come morire.
- “Resta fino all’imbrunire”, Negramaro
 
 
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti!
Un aggiornamento all’anno eh? Che vergogna! Scusate davvero! Purtroppo è davvero difficile conciliare l’università con tutto il resto. Adesso, ad esempio, ho già riaperto i libri! So che non ho scusanti ma volevo rassicurarvi che questa storia AVRA’ una FINE (che ho deciso con certezza qualche giorno fa eheh) quindi prima o poi, sappiate che mi farò viva. Ci dovrebbero essere altri 3 capitoli più l’epilogo, se tutto va come previsto. Ad ogni modo, spero davvero che vi piaccia e spero che mi facciate sapere cosa ne pensate! Mi farebbe tantissimo piacere anche leggere delle teorie se ne avete, pareri, critiche, tutto quello che volete! Vi ringrazio tutti tutti tutti per la pazienza, per essere arrivati fin qui, per aver sopportato i miei ritardi indicibili e impronunciabili, per leggere e ricordarvi ancora di questa storia! GRAZIE! Scusate se vi rispondo tardi, scusate se aggiorno tardi, sappiate che vi leggo e vi rileggo sempre, quando ho bisogno di fiducia in me stessa, quando sono giù, voi siete lì!
Un grande abbraccio e a presto (spero)
Kerri
 
 
 
PS: quanto vi manca OUAT da 0 a 100? A me 1000000000! Che ne pensate del finale? Per me è stato perfetto! Certo, la stagione non è stata una delle mie preferite, ci sono state parecchie cose affrettate che facevano acqua da tutte le parti, ma il finale… quanto ho pianto!
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Once Upon a Time / Vai alla pagina dell'autore: Kerri