Storie originali > Epico
Segui la storia  |       
Autore: CHAOSevangeline    15/10/2018    5 recensioni
{ Mito di Apollo e Giacinto | Modern!AU }
Eccola, la sua condanna: era un fiore che non poteva crescere.
Di fronte a quel giovane, il volto illuminato da un sorriso fiero sulle labbra cesellate, Giacinto si era sciolto e aveva perso tutte le parole, ogni facoltà di pensiero. Cosa poteva dire? Cos’era giusto dire? Cos’era il caso di dire proprio a lui, per far sì che restasse ancora un minuto, dieci, anche per sempre se lo desiderava?
I suoi occhi celesti, quei capelli di grano ondulato raccolti forse in una coda, forse in uno chignon che non vedeva. La pelle ambrata coperta da una camicia chiara e dei jeans che fasciavano i muscoli delle gambe. Pareva una statua.
E Dio, era bellissimo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Apollo e Giacinto'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
II.
Apollo




Non gli aveva chiesto il numero.
Era questo il cruccio di Apollo.
Non aveva chiesto il numero a Giacinto e tutto per colpa di Artemide e della sua delicatezza. Lo aveva trascinato via e Apollo, tanto concentrato sullo scusarsi e sullo scegliere una battuta ad effetto con cui far calare il sipario sulla propria dipartita, non gli aveva chiesto il numero.
Se ne era reso conto sulla soglia della biblioteca, ma quando era riuscito a piantare in asso la sorella per cinque minuti in modo da correre al piano di sotto a controllare se Giacinto fosse ancora lì, facendo i gradini a quattro a quattro, aveva scoperto che il ragazzo se n’era già andato.
Sconforto. Ecco la sensazione che l’aveva assalito.
Apollo era un tipo ottimista, sicuro di sé. Avrebbe anche potuto incontrare nuovamente Giacinto, magari sulla stessa panchina dove lo aveva conosciuto. Sarebbe di certo accaduto se anche Giacinto avesse voluto che questo fosse il loro destino.
Apollo era ottimista, sicuro di sé. Ma era anche un grande attore e fare una tragedia dell’accaduto, incolpando la gemella e frignando sul tavolo della biblioteca era certo da lui.
Senza ombra di dubbio.
E l’aveva fatto.
Poco importava che Artemide lo stesse minacciando con il tomo di Farmacologia.
«Un colpo ben assestato in testa per farti rinsavire», aveva detto.
Apollo non era certo di voler declinare l’offerta, non in quel momento. In quel momento, per la prima volta nella vita, si reputava abbastanza stupido e si disprezzava per tutte le volte in cui, da adolescente, si era differenziato dai suoi coetanei per un’autostima sopra la media. Stava pagando per tutte quelle sofferenze risparmiate e oltre. 
Aveva sentito un legame speciale con quel ragazzo sconosciuto dal primo momento in cui gli aveva rivolto la parola. Avrebbe mentito dicendo che lo aveva percepito da subito e che solo per questo gli aveva parlato: era la sua bellezza ciò che lo aveva colpito e per fortuna che per una volta stava guardando qualcosa che non fosse la fiera strada che stava percorrendo. Troppe coincidenze.
«Apollo.»
Eppure quelle coincidenze non gli dispiacevano, così come non gli dispiaceva l’idea di essere rimasto tanto colpito da una persona che conosceva a malapena. Era come se quel poco che aveva conosciuto e intravisto gli fosse stato sufficiente a fare grandi scommesse sul futuro.
«Apollo?»
«Sì, mi scusi», rispose in automatico quando si accorse finalmente di qualcuno che lo chiamava.
Le coincidenze non gli dispiacevano, essere disturbato mentre pensava a Giacinto invece sì. Perché tutti sembravano mettersi d’accordo pur di ostacolarlo quando si dedicava a qualcosa che lo riguardava? Sua sorella il giorno prima mentre ci parlava, il caporeparto dell’ospedale durante il suo tirocinio.
Non che fosse molto legittimo sperare di non essere interpellato mentre veniva istruito a non avvelenare i propri pazienti per negligenza.
«In base alla diagnosi, che cura dovremmo somministrare alla paziente?»
Se si fosse trovato insieme al gruppo di tirocinanti che inseguivano come dei cuccioli il capobranco avrebbe anche potuto continuare a sognare ad occhi aperti: ci sarebbero state almeno tre o quattro mani alzate prima ancora che fosse lui ad essere interpellato: tutti facevano a gara per dimostrarsi migliori di lui. Ma invece era solo, perché “abbastanza brillante da poter seguire degli insegnamenti speciali e intensivi”. Testuali parole del dottore di fronte a lui. I pensieri su Giacinto erano durati poco più di un paio di minuti, in cui il medico aveva conversato con la signora seduta sul letto dandogli il giusto tempo per perdersi nei suoi pensieri. Ma Apollo conosceva la diagnosi.
«Consiglierei un antiemetico, prima di tutto», rispose distratto.
«Ottimo lavoro, come sempre.»
I complimenti erano diventati una piacevole routine che ormai gli scivolava addosso come l’olio. Era bravo e lo sapeva, non c’era quasi bisogno glielo ripetessero, per quanto le frasi «Complimenti, Apollo» e «Wow, sei davvero bravo, Apollo!» non invecchiassero mai.
Naturalmente portato per la medicina, ecco cos’era. Portato per quella disciplina così come lo era per molte altre arti e passatempi. Un po’ come Giacinto era portato per l’arte. Avrebbe voluto approfondire la questione con lui, il giorno prima, ma non ne aveva avuto il tempo. Più ci ripensava, più diventava nervoso.
Mentre usciva dalla stanza si ritrovò a chiedersi come sarebbe stato ricevere dei complimenti da Giacinto. Che riguardassero il suo lavoro, i suoi studi, il suo aspetto, qualsiasi cosa, sarebbero suonati come una fresca carezza di novità. Non lo avrebbero stancato.
Ma non poteva riceverli.
Non aveva il suo numero, maledizione.


Per una volta ad Apollo non andava di eccellere. Tradotto: non gli andava di studiare.
Era qualcosa che faceva senza peso di norma, gli riusciva così bene e con tanta facilità da spingerlo a non preoccuparsene neanche, a farlo e basta: più studiava e più in fretta avrebbe portato a termine la propria carriera universitaria, questo pensava.
Quel giorno però era troppo distratto: pensava ancora a Giacinto, a come avrebbe potuto fare per incontrarlo ancora e beh, per la verità recarsi in biblioteca era la scelta a suo avviso migliore.
Magari lo avrebbe trovato lungo la strada e se ci fosse riuscito avrebbe pur sempre potuto dire che era stato tutto merito di un nobile scopo come lo studio.
Se le cose non fossero andate così bene, magari sarebbe riuscito a concentrarsi su qualcosa che non fosse quel ragazzo, i suoi riccioli, le due pozze verdi che aveva al posto degli occhi e il labbro arrossato per i denti che lo stringevano mentre disegnava.
Calmati.
Se lo disse mentalmente.
Quando Apollo aveva degli interessi amorosi – e ne aveva avuti nella vita –, di solito non era mai quello più coinvolto. Non era di sicuro il tipo di ragazzo che tentava di conquistare qualcuno come se fosse uno sport o una sfida, non era così poco rispettoso: le persone non erano oggetti o trastulli e lui lo sapeva. Sua sorella Artemide sosteneva che non aveva mai trovato la persona giusta.
Era possibile avesse percepito a pelle che Giacinto poteva esserlo, quella persona giusta?
Si chiese se tutte quelle sciocchezze su un bimbo alato e grassottello che si aggira con la faretra piena di frecce dalla punta a forma di cuore non fossero vere, se sulla sua schiena non ci fosse piantata una grossa frecciona che lo aveva spinto a prendersi una bella sbandata per Giacinto.
Non gli importava.
Perché per il momento quelle farfalle nello stomaco, anche lo struggimento per non avere il suo numero, lo facevano sentire bene. Vivo. Si sarebbe sentito così anche con qualche ora in meno di sonno sulle spalle alle sei del mattino, orario in cui puntava la sveglia, dopo aver speso la notte intera a pensare a lui.
Con quei pensieri Apollo spinse la porta che conduceva all’atrio dell’edificio in cui si trovava la biblioteca. Guardò per un istante l’angolo con le macchinette del caffè, dove il giorno prima aveva conversato con Giacinto: di lui nessuna traccia.
Tragedia, struggimento.
Cominciò a salire le sfarzose scale di marmo che conducevano al piano superiore, alla biblioteca.
Apollo era corso lì dall’ospedale universitario, sperando con tutto sé stesso di trovare Giacinto lungo la strada. Aveva camminato così di gran carriera da impiegare molto meno tempo del solito, quando la sua sicurezza nelle vesti di scintillante sorriso garantiva a chiunque fosse con lui che sarebbero potuti arrivare quando volevano e che tanto, in biblioteca, un posto a sedere lo avrebbero trovato.
Una volta entrato, Apollo si guardò intorno.
Non c’erano poi così tanti studenti ad occupare i tavoli rettangolari disposti fra gli scaffali, tre sedie per ciascun lato.
Si sarebbe potuto sedere dove voleva: accanto alla porta, vicino alla finestra, protetto da una delle imponenti librerie o schiacciato dalla sua torreggiante altezza, nella speranza che il percepire l’incombere della conoscenza su di lui lo spronasse a studiare. Avrebbe potuto fare ciò che voleva, ma quello che scelse di fare Apollo fu rimanere fermo sul posto, gli occhi intenti a scorrere vigili sulle teste dei presenti.
Lui, ecco, non si aspettava qualcosa.
La speranza che nutriva nel cuore era quella rassegnata che provi come ultima spiaggia, per non demordere e non rassegnarti. Sai che non si avvererà mai, ma ti illudi ugualmente per procedere fino a quel momento e da quello in poi trovare un’altra motivazione che ti spinga a muoverti.
Stava già pensando a qualche frase da ripetersi a mente per consolarsi quando i suoi occhi si incepparono su una nuvola di capelli ricci che cadeva a cascata intorno al volto di un ragazzo chino su un album da disegno. Aveva il labbro stretto fra i denti.
«Giacinto!»
Grazie al cielo lo urlò solo nella propria testa, o già immaginava la bibliotecaria pronta a fulminarlo e poi a sbatterlo fuori dalla porta.
Si avvicinò al suo tavolo, perché era ovvio dove si sarebbe seduto anche se, man mano che copriva quella distanza, si rese conto del perché nessuno fosse sistemato accanto al ragazzo: seduto sulla sedia al centro, Giacinto aveva monopolizzato il tavolo, distribuendo su tutto il proprio lato matite, carboncini, pastelli e persino una tavolozza di acquerelli.
Apollo arrivò al suo fianco e sorrise.
«Guarda chi si vede.»
Il tono era entusiasta ma pacato, basso perché nessuno potesse lamentarsi del suo saluto.
Come il giorno prima, Apollo vide Giacinto alzare il capo, l’espressione sorpresa e il labbro inferiore che veniva lasciato dai denti.
«Apollo!»
Il ragazzo non si curò come lui di trattenere l’entusiasmo e nemmeno parve accennare a coprirsi le labbra in un gesto fatto per dissimulare l’accaduto.
La ragazza dall’altro capo del tavolo, Atena – Apollo la conosceva, era una sua compagna di corso sopravvissuta alla mietitura dei primi anni –, si schiarì la voce. Servì come monito per ricordare loro dove si trovavano.
Dopo aver scelto di ignorarla senza troppi scrupoli, Apollo si chiese se la scelta migliore in quel momento non fosse domandare subito a Giacinto il suo numero di telefono. Così, per non scordarsene in preda all’euforia, per essere certo di averlo e placare i crucci della notte quasi insonne.
«Oh… vuoi sederti?» chiese il ragazzo, raccogliendo le proprie cose e facendole da parte quel tanto che bastava per lasciare ad Apollo una bella fetta di tavolo.
Apollo lo ringraziò e si sedette.
«Non pensavo di trovarti qui», gli disse. «Ci speravo però. Ieri non ti ho salutato come avrei voluto.»
Giacinto gli rivolse un bel sorriso incastonato dalle labbra carnose.
«Avrei voluto fermarmi a chiacchierare molto di più anche io», rispose. «Ho pensato che se fossi stato nei dintorni, oggi, magari avremmo avuto occasione di vederci.»
Apollo era lusingato, perché l’oggetto di tutti i suoi pensieri era lì, accanto a lui, con un sorriso radioso fatto su misura per lui. E si era fermato lì sperando di rivederlo, proprio come aveva fatto lui.
Doveva essere un sogno, o forse la sua proverbiale fortuna non era solo un mito creato dagli invidiosi – e da sua sorella – per giustificare che la dea bendata lo baciasse un po’ troppo spesso.
«Anche io speravo di rivederti. Ho controllato sia la panchina dove ti ho trovato ieri che l’angolo delle macchinette del caffè, al piano di sotto.»
Se erano così intenzionati e speranzosi di vedersi entrambi, allora non doveva avere vergogna nel rivelare quei retroscena. Giacinto non lo avrebbe trovato esagerato.
«Davvero?» chiese il ragazzo. «Anche io ho controllato le macchinette prima di salire.»
Era normale che lo credesse sulla propria stessa lunghezza d’onda per quelle inezie?
Il suo cervello continuava a pensare. Chiedigli il numero, chiedigli il numero.
«Ascolta…»
«Oh santo cielo, volete piantarla?!»
Atena, la rivale di Apollo al corso di medicina, l’acerrima nemica che prendeva la vita in modo troppo serio, aveva parlato.
«Se dovete chiacchierare potete farlo fuori da qui. Se non lo sapeste è una biblioteca, c’è gente che sta cercando di studiare!»
Giacinto si era stretto nelle spalle, realizzando che si era meritato in tutto e per tutto quel rimprovero. Apollo, invece, non stava facendo altro che fissare Atena con aria di sufficienza, il gomito puntellato sul tavolo e il palmo della mano sotto il mento.
«Ti verranno le rughe da giovane se ti arrabbi così per ogni sciocchezza.»
Si stava immaginando il tic all’occhio di Atena, che non rispondeva probabilmente solo per evitare di insultarlo? E sarebbe stato peggiore se le avesse ricordato che in graduatoria l’avrebbe battuta, che studiasse tanto in biblioteca o no?
Apollo si voltò verso Giacinto e si sporse verso di lui. Voleva parlargli all’orecchio, o abbastanza vicino al viso da non disturbare. In realtà era una scusa per riuscire ad annusare il suo profumo.
Sapeva di vaniglia, di una dolcezza tale da ricordare un nettare divino.
«Perché non continuiamo questa discussione stasera?» gli chiese. «Se ti va di venire a cena con me.»
Giacinto sgranò gli occhi, sorpreso. Apollo amava le sue reazioni. Giurò di aver sentito il cuore del ragazzo battere più forte, ma forse era il suo.
Aveva lo sguardo di chi voleva dire mille cose, Giacinto, ma alla fine si limitò ad annuire energicamente, per non guadagnarsi altro odio dal fronte opposto del tavolo.
Si voltò verso il proprio sketchbook e recuperò la matita che stava già usando. Scrisse su un angolo il proprio numero di telefono e fece per staccare tutto il foglio. Apollo portò la mano sulla sua.
Atena scoccò un’occhiata di fuoco in sua direzione, vedendolo sul punto di parlare, le labbra appena aperte.
Sollevò l’indice e fece cenno a Giacinto di attendere.
Non che il ragazzo potesse fare molto, come se fosse facile muoversi: le mani di entrambi avevano percepito una scossa toccandosi.
Apollo trovò in fretta e furia un pezzo di carta nello zaino, poi fece cenno a Giacinto di prestargli la matita.
Scrisse il proprio numero, poi gli passò il foglio.
«Perché non mi fai un bel disegno finché siamo qui?»
Ancora quella luce negli occhi. Quella che sembrava dire che solo Apollo riusciva a farlo sentire apprezzato come davvero aveva bisogno, quella che scaldava il cuore del biondo fin quasi a bruciarlo. Annuì ancora. Di nuovo quel sorriso mozzafiato sul volto. Possibile fosse tanto bello?
Giacinto tornò chino sul blocco da disegno dove, senza attendere un istante, iniziava a tracciare delle linee sicure con la grafite della matita.
Apollo si chiese come avrebbe fatto a studiare il tomo di chirurgia con Giacinto accanto e il suo sguardo che non riusciva a resistere alla tentazione di guardarlo quasi ogni istante. Era una droga di cui non poteva fare a meno.
La sua presenza in qualche modo però lo faceva sentire più tranquillo e gli permise di concentrarsi, non senza che i suoi occhi indugiassero su di lui più a lungo di quanto fosse conveniente.
Apollo non si rese nemmeno conto del tempo e dopo aver perso il conto delle pagine lette e dei secondi vide Giacinto raccattare le proprie cose. Sul tavolo solamente un disegno, quello di una pianta di giacinti rossi acquerellata e illuminata dal tramonto.
Apollo si chiese se la muta richiesta di quel disegno fosse che pensasse a lui, perché avrebbe voluto dirgli che avrebbe continuato ininterrottamente senza dover guardare un dipinto.
Sopra c’era un bigliettino. Giacinto spinse entrambi i fogli verso di lui e gli sorrise.
«Questo è il mio indirizzo. Ti aspetto alle otto.»
Sotto l’indirizzo c’era anche una serie di cifre.
Lo sguardo che gli lanciò prima di andarsene sembrava dirgli una sola cosa: «sorprendimi».
Apollo non aspettava altro che quell’occasione.




----
Dopo una lunga attesa eccomi qui con il secondo capitolo!
Un po' di passaggio, ma comunque necessario per gli sviluppi che la storia riserverà a questi due.
Come sempre ringrazio chiunque abbia letto fino a qui: mi auguro vorrete dirmi cosa ne pensate!
Alla prossima ~
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Epico / Vai alla pagina dell'autore: CHAOSevangeline