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Autore: AdhoMu    22/01/2019    7 recensioni
["Principenny" Clearwater / Charlie Weasley (et Percy Weasley)]
"Weasley.
Patronimico riferito ad antichissima famiglia magica inglese, appartenente al rinomato gruppo delle Sacre Ventotto. I suoi membri sono tradizionalmente affiliati alla Casa di Grifondoro e presentano un biotipo ben preciso, costituito da capelli rossi, pelle chiara e lentigginosa ed occhi di colore variabile fra il celeste e il nocciola."
Ah: e sono anche maledettamente numerosi, aggiungerei io.
E pure fascinosi, accidenti a loro.

Dodici caselle. Dodici draghi.
Riusciranno Penny e Charlie a recuperarli tutti prima della Battaglia Finale?
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Antonin Dolohov, Charlie Weasley, Filius Vitious, Penelope Clearwater, Percy Weasley
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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2. Per chi scocca la scintilla?

Non erano trascorse neanche quarantott’ore dal mio ammutinamento nei confronti del Sistema Clearwater + Weasley, che io mi ero già resa conto di avere fatto una cazzata colossale. Anzi: due cazzate a volere essere precisi, ed entrambe tanto grosse da farmi quasi scoppiare a ridere per il nervoso.
Subito dopo il colloquio con Alastor Moody, il professor Vitious mi aveva gentilmente accompagnata a casa sua, una graziosa villetta nel quartiere residenziale di Ealing, nella zona suburbana di Londra. Il mio squallido baule mi attendeva all’interno di una sgargiante stanza degli ospiti, dipinta con circa centoventisei toni diversi di azzurro.
Ecco che cosa succede quando il cuore ha il sopravvento sulla mente mi dissi al mio risveglio, stringendo le labbra di fronte allo specchio mentre, dal vetro, il mio riflesso mi osservava con lo stesso stanco cipiglio che, tanto spesso, si dipingeva sul volto di mia madre.
Complimenti Penny pensai, scuotendo la testa: con la tua sconsideratezza sei riuscita, in quattro e quattr’otto, a recidere tutti i tuoi legami più importanti.
Non c’era un minuto da perdere.
Dovevo assolutamente cercare di porre rimedio agli effetti nefasti della mia avventatezza e così, dopo essermi strofinata con dovizia il viso sotto l’acqua fredda, inviai un compìto Patronus a Percy per chiedergli di incontrarsi con me.
Una volta che il mio airone argentato ebbe attraversato svolazzando il riquadro della finestra, io mi misi a sedere sul bordo del letto, in paziente attesa. Se tutto fosse andato come speravo, nel giro di pochi minuti il mio fidanzato (non riuscivo proprio ad immaginarlo come un “ex”: non dopo i cinque anni di relazione che avevamo alle spalle) mi avrebbe risposto; e già me lo pregustavo, il momento in cui il suo serioso gufo (non parlo di Hermes ovviamente, ma del suo Patronus, che è esattamente uguale ad Hermes dal momento che, per Percy, la coerenza conta più di qualsiasi altra cosa) fosse approdato nella mia stanza per poi, con squisita efficienza, fissare un appuntamento da Florian Fortebraccio subito dopo il lavoro o, meglio ancora, durante la pausa-pranzo.
E colá ci saremmo rivisti, ci saremmo sorrisi, ci saremmo chiesti scusa a vicenda e avremmo fatto la pace.
E poi io, con estrema contrizione, avrei comunicato al professor Vitious e al signor Moody che no, purtroppo in Romania avrebbero dovuto mandarci qualcun altro...
Tre ore dopo, ero ancora lì a fantasticare sul mio glorioso ricongiungimento con Percy.
C’era un piccolo problema, però: il fatto che, in effetti, la risposta del mio (ex?) fidanzato non era arrivata.
 
Niente da fare.
Ci avevo provato e riprovato ripetutamente per tutto il giorno, pentita ed ormai agitatissima ma, da parte di Percy, neanche uno straccio di risposta. Nel frattempo avevo anche provveduto ad entrare in contatto con i miei familiari per tentare di fare ordine almeno su quel fronte ma quelli, punti sul vivo, mi avevano risposto con un rapidissimo e freddo gufogramma, che diceva più o meno così:
No Percy - No Party.
Arrangiati Penny.
Ed io, piuttosto disturbata più da quella profusione di ipsilon e di P maiuscole che dal messaggio in sé (ero ormai convinta di meritarmeli tutti, quei giusti rimproveri), m’ero dovuta rassegnare al fatto di dovere essere paziente e procedere con ordine, recuperando prima i buoni rapporti con il mio Precisino preferito e poi, facendomi dare man forte da lui, rientrare nelle grazie di mamma e papà.
Purtroppo per me, alla faccia delle mie belle speranze di armonia e di pace, mi era toccato gettare la spugna. Le avevo tentate tutte: Patroni, gufi, areoplanini incantati, Posta celere babbana e quant’altro.
Sbuffando indispettita (detestavo mettere al corrente degli affari miei terzi non direttamente coinvolti nei fatti) mi ero pure recata in pellegrinaggio al centro allenamenti del Puddlemere United per chiedere consiglio ad Oliver, che era sempre stato un buon amico di Percy. L’ex Capitano Grifondoro mi aveva guardata alquanto stupito mentre, seduti davanti ad un paio di boccali di Burrobirra al barettino dello stadio, gli esponevo i fatti con voce accorata.
- Sai Penny – aveva ammesso Oliver, evidentemente a disagio. – Anch’io, per la verità, è da un bel pezzo che non lo vedo...
E mi aveva raccontato che il suo amico e mio (ex!?) ragazzo era cambiato a tal punto da rendersi irriconoscibile, e che si era perfino messo ad evitare sia lui che Katie. Dinnanzi alla mia richiesta di intercedere, però, Oliver si era dichiarato disponibile ad entrare in contatto con lui per tentare di farlo ragionare.
Io ci avevo seriamente sperato, ma una rapida comunicazione di Oliver, recapitatami quella sera stessa, aveva drasticamente freddato le mie speranze.
Percy, di me, non ne voleva più sapere.
E giocoforza, senza di lui, la mia famiglia si trovava al di fuori della mia portata.
E così, purtroppo o per fortuna, avevo dovuto prendere una decisione. Dopo circa tre giorni di strazio assoluto e di intenso arrovellamento, avevo raggiunto il professor Vitious nel suo studiolo e, deglutendo a secco, avevo esordito:
- Riguardo quel... quel progetto in Romania, ventilatomi dal signor Moody...
Il mio ex-Direttore aveva abbassato gli occhiali da vista e mi aveva fissata per qualche istante.
- Che cosa ne sai, esattamente? – aveva indagato, con estrema delicatezza.
- Un bel nulla – avevo risposto io, con sincerità.
- Ti spiegherà tutto Alastor – aveva replicato lui ben sapendo che, in realtà, Moody non mi avrebbe rivelato un Purvincolo secco.
 
- Entra pure, Hagrid.
L’invito di Moody era stato preceduto da una serie di tonfi profondi che, più che un comune bussare, ricordavano più che altro il frastuono prodotto da un ariete scagliato contro la porta da un manipolo di assalitori fermamente decisi ad abbatterla.
Mi trovavo di nuovo all’interno del Quartier Generale, in attesa di essere sottoposta a quella che, col più cupo sarcasmo di questo mondo, Alastor Moody aveva definito “la prova del fuoco”.
Io il guardacaccia di Hogwarts lo conoscevo bene, e quindi la sua entrata in scena un po’ rumorosa non mi sorprese affatto; ciò che mi fece sgranare gli occhi fu, invece, la grossa cesta che il professore di Cura delle Creature Magiche reggeva fra le grosse mani.
Era fatta di un materiale grigiastro che, lì per lì, non fui in grado di identificare (più tardi mi rivelarono che si trattava di fibrocemento, un aggregato ignifugo); al suo interno c’era qualcosa, qualcosa di sorprendentemente vivo, che si dibatteva con furia.
Moody, che fino a quel momento non mi aveva degnata di uno sguardo, mi rivolse un’occhiata severa.
- È pronta, signorina Clearwater? – mi apostrofò, puntando la bacchetta sulla cesta che, nel frattempo, era stata posizionata sul tavolo.
- P-pronta? P-per...? – balbettai io, nervosissima.
- Alohomora!
Il coperchio della cesta scattò su.
Immediatamente, un draghetto verde smeraldo dall’espressione truce saltò fuori, soffiando fumo dalle narici. Non era che un cucciolo un po’ cresciutello, Priscilla Santissima, eppure ricordo che mi parve assolutamente temibile.
- Gallese Comune – mormorai a mezza voce, rispolverando in fretta il contenuto dell’esame di Interlocuzione.
- Non farci male, eh – mi raccomandò Hagrid, lievemente apprensivo.
Nel frattempo, la bestiola aveva cominciato ad aggirarsi per la stanza, alternando zampettii rapidi a voletti frenetici da uccellino in gabbia. Con piccoli getti di fuoco dalle frogie, aveva subito cominciato ad appiccare il fuoco alle tappezzerie tarmate di quella lugubre sala.
- Ehi tu! Smettila subito! – gli urlai nel mio draghese dalla pronuncia traballante.
Quello mi ignorò.
In un angolo della stanza, vidi con la coda dell’occhio che Moody scuoteva la testa, deluso.
- Mi hai sentita?
Nessuna risposta.
Ci stavo facendo la figura della scema, accidenti a me.
Pensa Penny, pensa. Perché mai quel benedettissimo rettile non mi dava ascolto? Sciocco gallese... oh! Ma certo che no: la sciocca ero io, che l’avevo apostrofato nel dialetto dei Neri delle Ebridi. Non si diceva “sgrunt-sgrunt”, ma “sgroont-sgrrooont”, testa di legno che non ero altro.
Reimpostata la pronuncia, mi rivolsi nuovamente al draghetto che, questa volta, girò il capo verso di me per ascoltarmi. Ripetei l’ordine. Lui si fermò, trattenendo il fumo.
- Torna nella cesta, da bravo, e Hagrid ti darà... ti darà un bel coniglietto.
Il rettile eseguì.
- Bravissima Penny! – esclamò Hagrid, battendo forte le mani. Gli ero sempre stata simpatica e alla fine del sesto anno, dopo che le cure di Madama Chips mi avevano guarita dall’infausto incontro col Basilisco, aveva passato intere giornate assediandomi per sapere come era fatto il Re dei Serpenti.
Io gli rivolsi un gran sorriso, finalmente soddisfatta di me stessa.
- Davvero niente male, principessina – gracchiò Moody, tendendomi la mano affinché io gliela stringessi. Questo suo gesto valse per me più di mille parole. – Pronta per fare un bel viaggetto?
- Il Gallese attende il suo coniglio, Hagrid – dissi io, per tutta risposta.
 
Il viaggio alla volta di Bucarest fu sorprendentemente rapido.
I membri dell’Ordine disponevano di mezzi magici illegali ed autoprodotti, per cui recuperare una Passaporta Internazionale non rappresentò il minimo problema per loro; il giorno dopo, alle prime luci dell’alba, un certo Sturgis Podmore venne a recuperarmi a casa del professor Vitious per accompagnarmi a destinazione.
“Perché non si sa mai” aveva ironizzato Moody, al termine di una serie di secche disposizioni. “Se la principessa perde la scarpetta per strada, sono guai”.
Da Bucarest alla catena dei Carpazi, sede dell’importantissima Riserva dei Lungocorno Rumeni, fu invece una bella trafila, sommamente stancante ed apparentemente eterna. I confini della Riserva erano schermati da incantesimi ad altissima protezione, cosicchè era impossibile varcarli con i più comuni mezzi magici; io e Sturgis dovemmo compiere lunghi giri e sottoporci ad estenuanti procedimenti di identificazione prima di riuscire a raggiungere la tetra casa di pietra grigia che fungeva da sede amministrativa e da ricovero per il personale.
L’equipe principale, mi fu detto, era composta da una quindicina di persone, suddivise in veterimagici, allevatori, domatori e schiantatori. Al mio arrivo circa la metà degli addetti si trovava sul campo; in ogni caso la mia presenza, data l’assoluta scarsità di interpreti umano-draghese, venne salutata con un certo entusiasmo.
Quella sera, dopo aver sistemato il volumetto di Dialetti dell’Est sul panchetto che mi faceva da comodino, stramazzai sul mio ruvido pagliericcio imbottito di foglie di granoturco. L’ambiente era eccezionalmente rustico; il giogo di montagne che circondava la casa era impervio ed aveva un aspetto incombente e minaccioso.
Mi sentivo una specie di Avvincino fuor d’acqua.
Da una parte, avvertivo un fastidioso senso di smarrimento e faticavo a capacitarmi del fatto di ritrovarmi catapultata, praticamente da un giorno all’altro, così lontano da casa, in un altro Paese e, per giunta, in una Riserva rigurgitante bestiacce ferocissime ed ignivome. Dall’altra, però, quel senso di aspettativa instillatomi dalla consapevolezza di essermi ficcata in un qualcosa di eletrizzante e avventuroso mi piaceva. Non avrei saputo spiegare il perché ma, per la prima volta da quell’ormai lontano finesettimana della Coppa del Mondo di Quidditch, avevo la sensazione di respirare la vita a pieni polmoni.
 
Il giorno seguente, subito dopo colazione, Sturgis Podmore si accomiatò da me e fece ritorno a Londra.
- Charles è già stato avvisato – mi sussurrò mentre, tentando di non dare troppo nell’occhio per fare sì che gli altri non si accorgessero di nulla, mi salutava con un abbraccio. – Ci penserà lui ad informarti circa la Missione.
Charles?
Missione?
Nessuno, a Londra, si era premurato di farmi sapere in che cosa, esattamente, avrebbero dovuto consistere i miei servigi. Al Quartier Generale si respirava un’aria di intensa cospirazione e, men’ero accorta fin da subito, le informazioni venivano accuratamente tenute sotto chiave per evitare eventuali fughe di notizie.
Lo stesso Sturgis, durante il nostro viaggio, si era scucito assai poco: e difatti, da quanto avevo pian piano cominciato ad intuire, meno se ne sapeva, meno rischi si correvano.
Una volta rimasta sola, comunque, ritenni inutile temporeggiare oltre.
- E Charles, è in sede? – domandai, con falsa dinsinvoltura, allo sparuto gruppetto di maghi e di streghe seduti attorno al tavolo della colazione.
- Charles? Charlie, vorrai dire – rise Mircea, una paffuta strega di mezz’età che, in quel momento, sorseggiava un’abbondante misura di Caffelatte Corroborante da una tazza sbeccata.
- Proprio lui – mentii io, come se nulla fosse, per poi aggiungere. – Non l’ho ancora visto... (anche se, in effetti, sarebbe stato meglio dire che non l’avevo mai visto).
- Oh sì – mi rispose allegramente un affabile mago barbuto, che rispondeva al nome di Freiwald Brancusi. – Ieri sera è rincasato molto tardi, ma a quest’ora è già in piedi.
- Già. Quel vulcano di Charlie è già giù alle fucine a sistemare le uova – soggiunse Mircea, allungando le dita per afferrare la zuccheriera. - Scendi pure: lo troverai là.
 
Mi piacerebbe trovare le parole giuste per descrivere in maniera efficace quello che provai, quel mattino di metà luglio, nell’imbattermi, del tutto inaspettatamente, in quella strepitosa persona che, in men che non si dica, mi avrebbe rapito il cuore.
Ripensandoci in seguito, mi diedi più volte della stupida per il fatto di non averci pensato prima: avrei dovuto arrivarci da sola attraverso una semplicissima associazione di idee, roba che il Batacchio-Aquila della Sala Comune reputerebbe una sciaradina da primo anno. Perché io lo sapevo – lo avevo sempre saputo – che uno dei fratelli maggiori di Percy (in concomitanza col quale, peraltro, avevo anche frequentato Hogwarts per ben tre anni, pur non avendolo mai conosciuto di persona) viveva in Romania e lavorava con i draghi.
Semplice, no?
Romania + draghi + “Charlie”.
Uguale, guarda caso, Weasley, perdincicirce.
“Eh sì che sei una Corvonero” mi avrebbe detto mamma, modulando la voce nel suo più pungente tono di rimprovero.
Macché.
La sorpresa dovevo proprio beccarmela tutta, dall’inizio alla fine.
E che razza di sorpresa, ohibò.
 
Le fucine erano ubicate in un locale allestito ad uopo, un basso casale anch’esso costruito in pietra, parzialmente interrato ed afflitto da un caldo a dir poco soffocante.
Alcuni locali erano adibiti a fucina vera e propria e ospitavano svariati strumenti da fabbro come pinze, martelli, tenaglie e mantici. Una volta appurato che quelle stanze erano tutte vuote, mi slacciai un bottone della camicetta e passai oltre dirigendomi verso il fondo del corridoio, dal quale un bagliore intermittente aveva richiamato la mia attenzione.
Mentre procedevo, al baluginio di fiamme accese si sovrappose una voce maschile dal timbro piuttosto grave che canticchiava un motivetto allegro.
- Ehm... permesso? – chiamai avanzando di un passo, con circospezione, per poi arrestarmi di colpo.
All’interno della stanzetta c’era un ragazzo.
Mi dava le spalle ed io non riuscivo a scorgergli il viso, peraltro protetto da una pesante maschera integrale da saldatore, ma si capiva che era piuttosto giovane perché... beh, perché le sue membra presentavano un aspetto decisamente tonico.
Non troppo alto ma ben proporzionato, fisico asciutto, pelle chiara punteggiata di efelidi, il torace privo di maglietta schermato sul davanti da uno spesso grembiulone di cuoio. Lentamente, canticchiando a mezza voce, il ragazzo si sporgeva in direzione di un enorme forno di mattoni e, facendo levitare un paio di spesse pinze di ferro con la bacchetta, rigirava con cura delle grosse uova nerastre.
Io ero rimasta a bocca aperta.
I muscoli delle braccia guizzavano alla luce tremula delle fiamme, animandosi di chiaroscuri che ricordavano quelli delle statue scolpite nel marmo. I fianchi snelli, che io osservai vergognandomi come una ladra, scomparivano all’interno della cintura dei pantaloni, neri e un po’ sbiaditi.
Ma per tutti i diademi...
Ci misi diversi secondi ad accorgermene eppure, forse, quel dettaglio avrebbe dovuto essere il primo a catturare il mio sguardo. Da sotto il cappuccio del copricapo spuntava una coda di cavallo: un ciuffo di capelli folti, mossi e... e rossi, rossi di una tonalità inconfondibile, che io sarei stata capace di riconoscere fra mille.
Rosso Weasley, per tutte le gonne di tulle di Morgana.
E proprio mentre io, come una sciocca ninfetta da Settimanale delle Streghette, me ne stavo lì imbambolata a guardarlo, il giovinotto si girò verso di me.
- Oh – fu il suo commento mentre, dopo aver fatto levitare le pinze fino al loro supporto, si sfilava la maschera e mi metteva a fuoco (e mai locuzione mi parve più appropriata, data l’intensità del mio avvampare in quel momento).
Io non potevo credere ai miei occhi.
Avrei dovuto arrivarci da sola, lo dico e lo ripeto.
Non ci ero arrivata, però, e il risultato era stato assolutamente sbalorditivo, per tutte le fatine del Bosco di Farfin.
Perché quello, signore e signori, era nientepopodimeno che il fratello maggiore del mio ex (l'avevo capita, finalmente) fidanzato.
Quello, gente, era Charlie Weasley.

Post scriptum:
Questo secondo capitolo viene pubblicato a tempo record perché, in parte, era già pronto.
Nel frattempo, temo che Hemingway si rivolti freneticamente nella tomba per la storpiatura del suo eccelso Per chi suona la campana? Ahimé, non ho potuto resistere al desiderio di adattare il titolo della sua opera immortale a questo capitolo in cui la nostra Penny comincia a prendere fuoco!
Nel mio HC Oliver Baston e Percy Weasley sono stati compagni di classe e, nonostante le loro evidenti differenze, hanno sempre intrattenuto rapporti di profonda amicizia.
   
 
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