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Autore: Makil_    25/07/2019    3 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



La fessura nel tetto lasciava che la luce della luna rischiarisse quel breve tratto del pavimento. Era alta, maestosa e brillante quella sera, pallida come la pelle appena abbeverata di latte di una dolce fanciulla.
Nessun uomo libero avrebbe fatto caso a quella mezzaluna nel cielo là fuori, ma loro, prigionieri insoliti di una casa troppo orgogliosa, avevano così poco a disposizione che persino il bianco occhio del cielo notturno era in grado di meravigliarli.
Le ore passavano lente all’interno di quel piccolissimo spazio di roccia fredda che era stato loro riservato. I giorni erano interminabili e riuscivano ad appesantire i prigionieri nonostante facessero tutto meno che muoversi anche solo di qualche passo. L’assenza continua di luci non poteva che essere un trucco migliore di un soporifero laggiù, dove gli unici mormorii disgraziati erano i lamenti dei condannati alle peggiori pene proposte dal regno. Il lettino che gli avevano donato stava iniziando a puzzare di un tanfo cadaverico e letale persino per le mosche. Le spesse pareti di pietra sapevano contenere con rigidità tutti gli odori acri di quel luogo, compreso il fetore degli escrementi, delle fogne e del sudore, ormai divenuto insopportabile per quei corpi che non si lavavano da parecchi giorni.
Tutti avevano volti sciupati e corrosi dalla prigionia là sotto, persino i soliti carcerieri aggobbiti o minacciosi che, pur potendoselo permettere, non amavano dedicare più di qualche minuto alla loro igiene personale e preferivano piuttosto spassarsela con le loro armi da tortura.
Ser Dayn, piegato per terra con la fronte poggiata sul ginocchio destro, fu preso da un sussulto improvviso all’avvertire di un sibilo appena percettibile.
«Sta tornando per la cena» mormorò delicatamente il giovane ser piegato in due dai lancinanti dolori che ormai da ore lo stavano tartassando. «Fatelo smettere, vi prego…»
Ma le sue suppliche non trovarono alcun esito fuori dalle sue labbra, e il tormentante rumore della correggia di cuoio infranta sulle pareti di roccia si affievolì solo quando Cargo giunse, come al solito, dinanzi alla loro cella. Per quell’incontro, il carceriere aveva indossato una scura giubba di cuoio scolorito, bracciale di spesso e scuro ferro nero ai polsi e un paio di brache color sabbia che, nonostante fossero stretti con una forza tale da poter bloccare la circolazione del suo sangue all’inguine, non riuscivano a tenere a bada i flaccidi strati di grasso che si sollevavano dal suo ventre.
«In piedi, prigionieri». Cargo batté un colpo di correggia sulla trave d’ingresso, poi girò la chiave ed aprì la cella. «Avete sentito?»
Nessuno si alzò, e il gesto non passò inosservato al becero carceriere che già era passato a puntarli con la sua arma. «Argh!». Lo scudiscio saettò e mezz’aria e si scontrò con le sbarre. «Eccovi la cena, prigionieri!»
Cargo lanciò una pagnotta tonda al centro della stanza.
A quel punto ser Mark alzò lo sguardo. «Un pezzo di pane freddo? Uno solo per sfamare quattro persone?»
«Aye» fece Cargo lisciando lo scudiscio. «E presto non vi daremo nemmeno più questo. Il cibo scarseggia grazie a voi fecce del regno, e anche noi dobbiamo mangiare.»
«Va’ al diavolo, imbecille!»
Cargo alzò lo scudiscio con una rapidità tale da far vergognare una mosca. Fece per infrangerlo su Mark, ma una voce lo destabilizzò.
«Cargo!». Patres Steffon fece ritorno nella cella accompagnato dall’esile carceriere di nome Zobo, un uomo avvilito e sciupato, sempre pronto a far del male con la sua correggia di cuoio. L’uomo teneva Steffon per i cappi che gli legavano i polsi. Non appena aprì la cella, gli diede un forte spintone con il piede destro e lo mandò a schiantarsi sul gelido suolo della celletta.
«Esperto» lo accolse tetro il carceriere robusto. «Come ti è finita?»
Steffon guardò tutti i suoi amici prima di rispondere: l’esperto aveva il volto rigato dal segno di cinque dita rosse. «Ho fallito» fiatò sommessamente, non tanto rivolto al carceriere quanto, invece, ai suoi compagni di cella. «Ho fallito miseramente.»
«Ah!» tuonò Cargo. «Al diavolo quello che hai fatto tu! Io mi riferivo a quello che mi interessa. Ti ha dato ciò che ti avevo chiesto?»
Steffon tastò le tasche interne alla sua tunica sgualcita e tirò fuori una benda bianca arrotolata attorno ad un piccolo ramoscello. «Ecco» fece lanciando il tutto al carceriere. «Prenditi questa cosa e lasciaci in pace.»
«Io non sono… insomma, io non so curarmi le ferite.»
«Non ho mai detto che quelle bende ti sarebbero state d’aiuto contro le tue ferite, Cargo. E mi sembra di ricordare che non avevamo altri patti in sospeso… il tuo aiuto mi è stato dato una sola volta, e una sola volta è stato ripagato.»
«Argh». Cargo si avvicinò a Steffon, gli mise una mano sotto l’ascella e lo rialzò da terra con forza. Gli passò una mano sulla veste e gliela ripulì per bene della fuliggine che gli si era formata addosso. «Avanti, raccontami com’è andata.»
«Non c’è niente da raccontare» rispose secco Steffon. «Quel… quel…  quel castellano è un uomo testardo e senza un minimo di educazione… sì… e…»
«…e non è un castellano.» mormorò rapidamente il carceriere rinfoderando lo scudiscio.
«Cosa? Come sarebbe a dire?»
«Già» confermò Cargo. «Che c’è, non lo sapevi?». Era impossibile non notare l’atteggiamento di rispetto nei confronti di Steffon che il carceriere iniziava a riservare. In sua presenza sembrava quietare un minimo quel suo istinto omicida che lo contraddistingueva dinanzi al resto delle sue prede.
Bartimore si convinse a credere che fosse pura soggezione.
«Non sapevo cosa, con esattezza?»
«Che tutti parlano di lui come Bennor Falso Esperto, ovviamente. Alcuni dicono che lo fanno per sfottimento, altri ancora che si tratta di ingiurie da popolo senza cervello. Ma io il cervello ce l’ho, e bello grosso pure, ma non mi tiro indietro quando c’è da chiamarlo con il suo nome per intero: già». Cargo sorrise nel pronunciare quelle parole, come fossero appaganti quanto una sorsata di vino. «Bennor il Falso Esperto; senti come suona bene?»
«E con ciò?»
Cargo inserì il suo grosso e tozzo indice all’interno dell’orecchio e prese a fare su e giù per tirare fuori un po’ di cerume. «Esperto… sarà pure esperto di nome… ma non ha mai preso i voti all’Accademia.»
«Ah no?» domandò curioso Steffon, i cui occhi presero a brillare nel momento stesso in cui la conversazione iniziò a toccare punti più interessanti. «E perché ora lo chiamate castellano?»
«Perché sua signoria Wargrave gli ha affidato questo compito in sua assenza.»
«Ma non ha il diritto di reggere un regno in vece di reggente se privo di una validità o di una specializzazione adeguata a quel compito.»
«E tu non hai il diritto di crearti problemi su quello che non ti riguarda». Sfilò rapido lo scudiscio e lo alzò verso il tetto della cella.
«Cargo!». La voce di Steffon si fece cupa un’altra volta. «Ti chiedo di mettere giù quell’arma e di non utilizzarla più contro di me e contro i miei compagni. Sono un passo dall’uscire da questa prigione, e tu sai cosa potrebbe capitarti qualora dovessi dire in giro ciò che ci hai fatto qui dentro…»
Cargo abbassò il braccio e si mordicchiò le labbra chiaramente disturbato. «Solo perché me lo stai chiedendo tu, esperto prigioniero. Tu sei un esperto, almeno… non è vero? Puoi garantirmelo?»
«Certo che lo sono!»
«Allora conoscerai sicuramente la storia che tutti gli altri della tua risma raccontano di Bennor.»
«Io… io… non sono come gli altri.»
«Argh!» fece Cargo. «Eppure non sei il primo che mi rivela questa cosa, forse Bennor era un tipo timido all’Accademia. Di certo è cambiato molto lontano da là… vecchio marpione, lui. C’era un esperto una volta, ad esempio, e si chiamava Cyde se non ricordo male… oh sì, proprio così… patres Cyde, che un giorno mi raccontò un paio di cosette su Bennor. Dovevi vedere come parlava, manco gli fosse stata bloccata la bocca per giorni senza farlo replicare. Fece tutto il giorno a raccontarmi di Bennor, a gettare fango su di lui… sì, aveva proprio bisogno di sfogarsi quel povero ometto. E la stessa sera fu accusato di vili… vili…»
«Vilipendio» suggerì stanco ser Mark. I volti di tutti gli astanti si voltarono verso lui.
«Esatto» mormorò Cargo. «Fu accusato di quella cosa lì e fu messo a morte. Bennor richiese la sua testa al boia, andando contro ogni sacra legge di Giardino Fiorito che impone la morte per cappio davanti a tanti testimoni. Il Falso Esperto riuscì ad avere la testa mozzata a dovere di quel povero patres e la espose per più di due mesi di fronte alla porta della sua camera. In molti dicevano che Bennor la utilizzava per pulire i tacchetti delle sue scarpe quando la sera faceva ritorno nelle sue camere. Ma io non l’ho mai visto fare queste cose…»
Che essere ripugnante”. Bart riuscì a trattenere a stento i conati di vomito e anche Dayn, già ridotto sul filo del rasoio del suo malessere, sembrò scombussolarsi sentendo quelle cose.
«E cosa ha detto di tanto incriminante quel poveruomo?»
«Ah, dannato patres Cyde… dovevi proprio vedere quante cose mi ha detto; cose in grado di far rivoltare un morto nella sua tomba. In poche parole, Bennor non è mai riuscito a prendere i voti all’Accademia… e questo perché era frenato dal suo… dal suo…»
«Dal suo?»
«Accanimento… così disse Cyde… accanimento per le servette e per le matres che gli giravano attorno giorno e notte. Patres Cyde mi raccontò che fu cacciato ben tre volte dall’Accademia, all’età di sedici, ventidue e quarantatré anni, per essere stato visto con le mani addosso a quelle donne… nella notte… mentre andava a sorprenderle nei loro letti!»
«Disgustoso…» commentò Steffon.
Il carceriere si lasciò sfuggire un ghigno. «Diciamo che lui aveva il coraggio di fare quello che molti dei tuoi amici vorrebbero fare ogni secondo della loro vita.»
«Noi giuriamo di non prendere moglie, tra le tante altre cose, carceriere Cargo. E noi rispettiamo i nostri voti. Sempre.»
«Ma lui non ha mai preso i voti, infatti. E poi in lui non c’è un briciolo di dignità… e se ne fotteva di quello che gli altri dicevano di lui.»
«E allora perché accusò quel patres di vilipendio? Puro sfizio personale? D’altronde ci crederei. Bennor avrebbe tutte le carte in regola per fare un gesto simile, dato che è circondato da gente che gli conferisce determinati titoli senza alcun criterio.»
«Ma no!» tuonò Cargo. «Mica era quello il problema più grande. Patres Cyde mi riferì che, alla fine, Bennor adocchiò una ragazzina bella tonda e provocante… e non si fece mica problemi ad avvicinarsi pure a questa. Con l’unica differenza, però, che almeno lei gli rivolse la stessa considerazione e lo accolse nel suo letto.»
«All’Accademia!?» domandò sbigottito Steffon.
«All’Accademia» confermò Cargo incrociando al petto le braccia. «Parola di patres Cyde, che ci rimise la testa per tanto.»
«E chi diavolo era questa scellerata?»
«Il suo nome era Marysanne, e lei era bella e giovane, dagli occhi cer… ceru…»
«Cerulei» suggerì ser Mark precedendolo.
«Quelli lì, appunto». Cargo si grattò il basso ventre. «E Marysanne riuscì a far perdere la testa al povero ed anziano Bennor… tanto che egli finì per darle la caccia, giorno dopo giorno, come se quella ragazza era la preda nella foresta oscura. Fioredea… così la chiamava: a sentirlo, che ebete infinocchiato! Ben presto, Marysanne divenne il motivo per il quale Bennor continuava a restare inutilmente all’Accademia, seppur invano, dal momento che non riusciva mai a terminare i suoi studi. Sì, proprio così… e non mancava di metterle le mani addosso per strizzarle i fianchi, per afferrarle le vesti… no, non mancava affatto. Ma un giorno, qualcuno osò denunciare il tutto… uno degli infimi che studiava lì da poco e che si era innamorato di Marysanne, e la voce si sparse nelle stanze dell’Accademia, risalì le bocche dei più pettegoli ed arrivò nelle orecchie del Supremo Patres Polwyr, pace e gloria al suo nome, che lo allontanò di nuovo dall’Accademia. Non c’è cosa che più vorrebbe quell’uomo, se non tornare a mettere le mani sulla sua bella Marysanne. Ora si fa chiamare esperto. Guardalo bene: si è convinto pure di esserlo, un esperto. Ed è per questo che lo chiamiamo in tutt’altro modo.»
Steffon socchiuse gli occhi e si tastò le tempie con le dita. Pensò ad alta voce. «Ciò che più desidera e poterla riavere per sé…»
«Rimetterle le mani addosso» puntualizzò il carceriere grattandosi il petto. «Meglio dire le cose come stanno.»
«Difficilmente coloro che amiamo fuggono dai nostri cuori, anche a distanza di tempo, anche in circostanze per le quali essi si rivelano causa di grandissimi problemi.» fece Steffon con un tono più quieto. «Io so cosa significa. E posso dargli una mano, se lo vorrà.»
«Te la taglia» disse secco Cargo. «Non gli piace che qualcun altro metta le mani sulla sua bella Marysanne.»
Steffon si voltò verso i suoi compagni di cella. «Lasciaci soli, Cargo. E lasciaci cibo a sufficienza.»
«Mi spiace Steffon, dovrai accontentarti di questo e di quel poco che hai avuto già. E non posso fare altro.»
«Puoi sempre lasciarci, però». Il tono incisivo di Steffon non ammetteva replica.
Cargo arricciò il naso e si allontanò dalla cella, il cui ingresso fu chiuso da tre giri di chiave prima che il mostro bipede dalla massa flaccida sul ventre si allontanasse del tutto.
Ser Mark prese parola per primo, spezzando il silenzio tombale che era sceso sul volto di tutti. L’aria era satura di tensione. «Steffon… con tutto il rispetto: tu sei un pazzo.»
«Un pazzo a cui piace rischiare il peggio per avere il meglio. Gioco d’azzardo, illudendomi… sia pure.»
«Un pazzo illuso, allora». Bartimore si mise in piedi e si posizionò accanto agli altri due uomini già in piedi.
«Dobbiamo uscire al più presto possibile da questa prigione» mormorò Steffon osservando la complicata situazione in cui versava ser Dayn, il quale avrebbe sicuramente annuito se avesse avuto le forze per farlo. «Per il bene di ognuno di noi.»
«E come?» domandò ser Mark portando le braccia intrecciate al petto. «Questo pomeriggio ser Dalwar è venuto a trovarci per constatare quanto fossimo morti. Ha trovato gente sana, non lo nego, ma per quanto ancora avremo modo di dirlo? Non c’è modo di fuggire da qui se non attraverso l’umiliazione capitale, pena l’impiccagione. Io non voglio morire adesso, Steffon… lo capisci?»
«Guardati intorno, ser Mark. Vedi qualcuno disposto a farlo?»
Ser Mark piegò le labbra e si girò dando un pugno alla parete dietro di lui. «Ser Dayn non sopravvivrà un giorno di più qui dentro. Ha bisogno delle cure di un incantatore… e del migliore, possibilmente.»
Era vero: nelle ultime ore il malessere di Dayn si era aggravato a tal punto da renderlo instabile e dannoso persino per la sintonia del gruppo stesso. I bei lineamenti fini e arguti di Dayn si erano smussati come cera sciolta dal fuoco, trasformando il bel viso aquilino del giovane cavaliere in un’informità di piaghe.
«Trovo alquanto strano ciò che sto per dire: se trasgredire alle regole e sfruttare l’assenza di pudore all’Accademia possono salvarci la pelle, allora è giusto che mettiamo da parte qualsiasi tipo di onore e cediamo i nostri ideali all’immoralità. Ed è per questo che proverò di nuovo a fare qualcosa… qualcosa per cui impiegherò tutto ciò che so.»
«Un’altra volta?» chiese ser Mark. «Non servirà a nulla. Manda un messaggio a qualcuno, Steffon, e fa’ qualcosa di concreto piuttosto che proporre e basta: è fiato sprecato il tuo… quel castellano non ci libererà mai.»
«Lasciami provare un’ultima volta, sono sicuro che potrò smuoverlo un po’. Quando in gioco c’è il cuore, le vie di fuga non sono infinite. So come parlargli». Il volto di Steffon si corrucciò convinto. «Posso farcela.»
«E come? Forse giocando con lui una partita a trova-chi-trova-la-mia-casa
«Giocherò, su questo non hai torto, ma non con quel genere di tresche. Ho ancora una carta da scagliare in campo, in effetti. Il mio asso nella manica
Ser Mark lo guardò attonito a lungo.
«Quale carta?» domandò curioso Bartimore, il cui fare era lo stesso di un uomo avvilito e distrutto dalla vita. “Fame… sete… giustizia… eccoli i miei più grandi bisogni”. Guardò fuori dalla fessura che si apriva verso il cielo, sulla luna. “Dalton, almeno tu… aiutaci…”. Finse si calarsi per un attimo nei panni del suo glorioso signore: cosa avrebbe fatto al suo posto? Avrebbe sguainato la spada per combattere i suoi assalitori o li avrebbe vinti con l’arguzia?
Steffon gli rivolse un sorrisino sbieco, come soddisfatto dalla domanda del giovane ser. «La tua, cavaliere di Fondocupo. E aggiungerei anche ciò che ho appena saputo da Cargo.»
Bartimore lo guardò allontanarsi dalla sua postazione, le gambe rinsecchite quasi sospese sul suolo nel camminarvi sopra. Il patres si avvicinò alla grata ed afferrò con una mano una delle tante sbarre che li separavano dal corridoio.
«Cargo!» vociò come un dannato. Ovunque fosse quell’uomo, sicuramente la voce gli sarebbe arrivata istantaneamente. «Cargo, dannato carceriere, vedi di tirarmi fuori da qui ora! Ho un affare da discutere con il tuo Bennor… e temo che faremo le ore piccole.»
Come il cane richiamato dal pastore dopo aver condotto al pascolo il suo gregge, Cargo si mise a correre per arrivare subito a Steffon. Il suono dei suoi passi corti, infatti, rimbombò nel lungo corridoio di quelle segrete.
Il giovane esperto si girò d’un tratto, nei suoi lineamenti la bellezza scomposta della giovinezza fresca della sua età finalmente di nuovo visibile. «Ve lo prometto nel buon nome dei nobilissimi signori che abbiamo servito e che ora ci guardano dall’alto. Lo giuro su Kordrum, il Sole del Sud, su Wysler, il Gigante Sorridente, su Norstone, la Vecchia Roccia». Non c’era alone di dubbio nel suo fiero sguardo grigio. «Io vi porterò fuori da qui.»



♣ Angolo d'autore ♣
Ci siamo, è il momento della resa dei conti, che segnerà finalmente il destino dei nostri. Il ritorno di Steffon ha sancito un'altra sconfitta, ma ora l'esperto è più che pronto a giocarsi la sua ultima possibilità. Cosa avrà in mente, secondo voi? 
Come lui stesso dice, il piano gli è sorto nel sentir parlare a sproposito Cargo - che sappiamo aver sfruttato sin dal primo momento, data la dote - circa la nomea e l'epiteto che gravano su Bennor, il castellano. Alla luce di ciò, che vi pare di Cargo? Pensate sia soltanto uno stolto? E cosa mi dite del suo rapporto con Steffon?
Cosa pensate, invece, di quanto raccontato da Cargo sul conto del castellano? Cosa del suo passato e delle sue avventure all'Accademia?

Ditemi tutto ciò che pensate e, se volete, in che modo secondo voi Steffon userà le informazioni di cui è in possesso per vincere la sua causa. Ce la farà, questa volta? Se sì, andrà tutto liscio? Staremo a vedere!
Un immenso grazie a tutti voi che mi seguite. Ci sentiamo al prossimo aggiornamento [giovedì 1 agosto] e - non appena possibile - nelle recensioni a cui presto risponderò. Un abbracio,
Makil_



 
   
 
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