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Autore: Kore Flavia    31/07/2019    1 recensioni
Gabriele ha un potere speciale ed è quello di vivere attraverso gli altri. Ciò che vedono gli altri lo vede anche lui e ciò che risentono gli altri lo risente anche lui. Conosce la vita di un mucchio di gente, quindi, ma ciò non viene senza sacrificare qualcosa e nel caso di Gabriele a fare da agnello sacrificale è la sua di vita. A 35 anni Gabriele si ritrova però privato di questa capacità ed è perciò costretto a vivere nel proprio corpo. Giostrarsi in un’esistenza completamente vuotata di rapporti e senza risultati degni di nota non è però così semplice. Tra suo fratello che lo odia, sua madre che lo vede come un fallimento personale, Anna che vive a centinaia di chilometri di distanza e Giulia che non l’ha mai veramente provato a capire, sua nipote Francesca è l’unica a stargli accanto.
In questo clima Gabriele si racconta e attraverso sé stesso rivela le difficoltà che le relazioni presentano e la paura onnipresente della solitudine e della propria incomunicabilità. Il tutto senza mai smettere di provare a costruirsi in quanto persona e a ritrovare quel rapporto all’altro che fino ad allora aveva rifiutato.
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Terzo Ricordo

 


 
Il terzo ricordo fu una scazzottata a sedici anni. Non ricordo neanche come avvenne, probabilmente a qualcuno non andava a genio che io non parlassi, che non guardassi, che non vivessi. Probabilmente la cosa li fece infuriare: dovevano essere invidiosi perché io avevo vissuto centinaia di vite e loro a malapena stavano gestendo la loro. Perciò un pugno corse dritto contro il mio volto indifferente e io sobbalzai, spalancai gli occhi e barcollai. Ero lì, senza avere idea di come rispondere ad un cazzotto. Avrei potuto lasciare correre il suo gesto, ma era evidente che aveva voglia di continuare e che voleva una risposta da parte mia. L’accontentai.
In fin dei conti questo corpo mi serviva per poter vivere le vite degli altri e senza di esso le mie mille vite sarebbero finite, troppe sarebbero state dunque le perdite.
Quello davanti a me era Marco, un ragazzo largo e nerboruto il cui volto assomigliava ad una patata schiacciata e il cui naso troneggiava tra l’acne. Aveva spesso fatto a botte con altri ragazzi e io avevo pensato di vivere anche la sua di vita. Una madre sempre assente, che tornava solo per ricordargli quanto fosse superfluo, un padre che passava le notti a bere e masticare parole senza significato, magro e grigio, due fratelli, entrambi più grandi, entrambi più intelligenti, entrambi più amati. Lui era l’ultimo ed era stupido, stupidissimo e largo e brutto e superfluo. Con gli anni si era incattivito, una volta aveva mandato all’ospedale un altro ragazzo, un’altra aveva minacciato una prof e un’altra volta ancora aveva dato un pugno al padre. Marco odiava il grigio, perché grigio era suo padre e grigia era la sua vita. Ecco il motivo per cui mi picchiò quel giorno: perché grigio ero anche io.
Eravamo fatti della stessa pasta, entrambi stentavamo a vivere la nostra vita, ma se io lo facevo per scelta per lui era una condanna. Mi urlò cose terribili vedendomi tranquillo e con lo zigomo spaccato.
Io mormorai piano:
“Marco…”
“Taci, cane!”
Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Era una sensazione estrema l’adrenalina. Solo in seguito imparai che, una volta passata, mentre l’amore ti lascia saturo, l’adrenalina ti svuota. In quel momento, però, mi sentivo euforico. Avevo voglia di saltare, correre, ballare e ridere e piangere e prenderlo a pugni, così, per provare ancora questa euforia, ancora e ancora. Saltellai prima sul piede destro e poi sul piede sinistro e di nuovo e di nuovo, ne volevo ancora. Volevo sentirmi vivo come mai e avevo bisogno di quella droga, di quell’adrenalina.
Davanti al mio repentino cambiamento da grigio a vivo Marco barcollò. In quel momento non eravamo più uguali, perché l’unico a essere rimasto incolore era lui. Allora un altro pugno colpì la mia guancia, questa volta la destra e anche lì lo zigomo si spaccò. Sentii il sapore del sangue sulla lingua e immaginai i denti rossi.
Risi. Alcuni pensarono che fossi coraggioso, la maggior parte che fossi pazzo. Avrei propeso per la seconda: una persona coraggiosa non si limita ad illudersi di vivere la vita degli altri e non ride, se ne va.
Questa volta risposi, fui svelto e preciso e lui piombò a terra per la sorpresa. Ringhiò, bestemmiò e si passò una mano sulla bocca e sputò.
“Bastardo. Lurido cane.” Vomitò su di me insulti sterili. Aveva lo sguardo feroce di un predatore rinchiuso in gabbia e come tale aveva i denti spogliati dal labbro in un ringhio che di umano aveva ben poco.
“Sei tu ad aver cominciato.” Gli feci notare con un gesto febbrile di nonchalance. La mano mi tremava ed era colta da spasmi, volevo prenderlo ancora a pugni. E sarò io a finire, pensai, percependo l’adrenalina scorrermi nelle vene. Prendere a pugni qualcuno e essere preso a pugni a tua volta è liberatorio, è euforia e dolore, è rabbia e pena. È simile per certi versi all’amore. Ora mi rendo conto che forse il secondo fa un poco più male e per più tempo.
Si rialzò troppo rapidamente e barcollò, poi saltellò e sogghignò, quindi si avvicinò a passi rapidi verso di me e sputò. La saliva mista a sangue era il disgusto e l’euforia che stava provando, che stavamo entrambi provando. Eravamo corpi in movimento, eravamo macchine pronte a scattare e io scattai nel momento stesso in cui sputò. Questa volta il pugno colpì la bocca dello stomaco con precisione sorprendente.
“Io ti sto solo rispondendo.” Mi giustificai in un calo di adrenalina che mi lasciò svuotato per qualche istante. “Non è colpa mia se sei grigio” Continuai.
Qualche ragazzo attorno a noi aveva tirato fuori il telefono, nascondendosi dietro allo schermo luminoso, sghignazzando davanti alle immagini che scorrevano nel video che stavano riprendendo. Altri, i vigliacchi, si nascondevano tra la folla, impauriti e ridicoli non riuscivano a distogliere lo sguardo, ma non avevano neanche la forza d’intervenire. C’era chi urlava, le ragazze soprattutto, e le urla erano di una tale varietà che quasi lo trovai divertente. C’era chi ci incitava, chi ci intimava di smettere, chi sussurrava un “basta, basta, basta” e chi gridava e basta, senza sviluppare parole concrete. Un urlo animalesco e nient’altro. In fin dei conti noi stessi eravamo cani da combattimento.
I prof sembravano essere spariti, alcuni usciti prima, altri ancora tra le aule. Nessuno a fermarci, né giovani, né adulti.
Marco diede un calcio al vuoto, stizzito, non si sarebbe mai aspettato che reagissi, che sapessi reagire. Emise un verso stridulo, così bestiale, così lontano dall’essere umano, poi si passò nuovamente una mano sulla bocca. I primi lividi si formavano timidamente sulla pelle pallida e arrossata, neri, blu, violacei, alcuni rossi e altri giallastri, eravamo chiazzati come cani. Marco si passò una mano sul braccio destro, là dove una cicatrice correva a nascondersi sotto la manica corta della maglietta. Era una cicatrice gonfia di rabbia e sporgeva violacea sulla pelle chiara di Marco.
Fissò dunque il suo sguardo su di me, rimase in silenzio. Se avesse parlato non l’avrei sentito ugualmente: sarebbe stato sovrastato dal brusio e dalle urla. Poi, in un istante di calma, si decise a dire:
“Mi fai schifo.”
“Lo so. Pure tu fai schifo.”
Rise e poi un altro pugno andò a colpirmi la guancia destra e ora la sinistra e poi ancora la destra. Non risposi, mi limitai a barcollare e perdere sangue. L’interno della guancia era stato maciullato dai denti e disperdeva il sapore del sangue nella bocca, se avessi sorriso i denti avrebbero dato l’idea di essere ciliegie mature.
Lo zigomo destro era oramai spaccato e quello sinistro era una grossa macchia nera. Ad un occhio la vista si era oscurata al terzo pugno e mi lasciava intravedere solo un’ombra scura che si avventava su di me. Un’ombra dalla risata sguaiata e dalla grande collera.
“Sei un verme!”
“Pure tu e tu lo sei più di me. Meni chi è più debole di te pur di sentirti forte, ma tu forte non lo sei, Marco. Tu sei il più debole di tutti, sei scadente. Tu hai paura, Marco, io no.” Un ampio gesto verso tutti gli altri. “Guardali. Riprendono la tua pateticità perché sono divertiti dalla tua miseria. Fai pena, Marco, la fai a tutti. Ma tutti hanno paura dei pugni. Io no. Io non ho paura di te. Non posso che provare sconforto nel vederti così grigio e meschino.”
La tranquillità con cui avevo pronunciato quelle poche parole era accolta con grande sorpresa e riguardo da chi ci stava attorno. Marco mi si avventò addosso prima che potessi continuare il mio discorso. Non potevo vederlo, ma potevo chiaramente immaginare i denti rossi di sangue stringersi e le labbra sollevarsi in un ringhio. Le urla diminuirono nel momento stesso in cui la tempesta di pugni terminò. Marco ammirò la propria opera: un ragazzo basso e tarchiato era ridotto ad una maschera di sangue, grondante di sudore e adrenalina. Il mio volto deturpato rispecchiava il suo: eravamo orribili, ma eravamo anche magnifici. Malati e distrutti.
“Ti ammazzerei.” Ringhiò.
“Fallo.” Fallo, fallo, fallo.
Nel buio che in quel momento vivevo, nei rumori ovattati dal sangue, una mano si posò con forza sul mio braccio. Lo strinse con forza, mi divincolai infastidito: volevo che mi ammazzasse, volevo riservare a lui l’onore di farlo.
“Uccidimi, uccidimi. Sarà l’unica azione coraggiosa che avrai compiuto. Fallo.”
Marco, però, coraggioso lo divenne davvero crescendo.
Fu la prima volta in vita mia in cui la morte mi sembrò accogliente e liberatrice. Liberatrice di cosa? Ancora non lo sapevo. In fin dei conti all’epoca ero troppo preso dalle mie fantasie per soffrire realmente.
Arrivai persino a pregarlo, a supplicarlo di finirmi tra gli schiamazzi della gente, sotto gli occhi di tutti. Qualcuno ci interruppe, strattonandomi via, urlandomi parole di rimprovero nelle orecchie. Ma come le forze mi vennero meno, così fece la vita stessa.
   
 
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