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Autore: Ellie_x3    29/08/2019    3 recensioni
A volte a Chuuya mancava qualcuno che gli tenesse compagnia senza essere...beh, Dazai.

La stessa persona che aveva “sbadatamente” dato fuoco al suo armadio e che gli hackerava la carta di credito ogni due giorni e che a volte camminava per casa nel cuore della notte, i piedi scalzi e l’espressione vuota, in preda ai fantasmi dell’inquietudine.
Convivere con quell'idiota era un lavoro a tempo pieno.
Tuttavia, più spesso di quanto volesse ammettere, si era chiesto come avesse fatto a sopravvivere in quattro anni di separazione.
[Dazai Happiness Week 2019]
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Epilogue
-

Tsubaki petals on the Balcony

 

Wait for me to come home

 

 

 

I mesi si erano susseguiti in un fiume di avvenimenti sempre uguali, una patina di insensatezza che avvolgeva la routine quotidiana e la privava della luce nella sfiancante imitazione di un prisma che agiva al contrario.
In quel periodo Higuchi era rimasta ferita durante una missione ed era stato il volto conosciuto di Yosano che gli aveva rivolto un cenno quando l’uomo era entrato nell’infermeria privata della Port Mafia. La dottoressa dell'Agenzia dei Detective Armati al capezzale della giovane donna gli aveva stretto lo stomaco in una morsa. L'executive aveva soppresso a malapena un ringhio riconoscendo quanto le barriere fra tutti loro si stessero assottigliando, ma Mori vegliava al fianco di Higuchi con le mani affondate nelle tasche del camice bianco, mentre Elise aggrappata alla sua gamba spiava in punta di piedi ogni movimento di Yosano Akiko, e Chuuya si morse l'interno della guancia senza commenti.
Non che tutti gli sforzi congiunti delle organizzazioni di Yokohama fossero negativi: no, per lo più era una catena di successi. I membri corrotti della Dieta erano stati scoperti e neutralizzati da Edogawa mentre Akutagawa e Jinko si erano occupati insieme di un serial killer dotato di abilità, consegnandolo nelle mani di Sakaguchi Ango con tutta la fanfara del caso.
Grazie a loro, tutti loro, Yokohama era una città un po’ più sicura ed un po’ meno sporca.
Nel frattempo Eyes of God e Fitzgerald vegliavano sulla sicurezza privata e pubblica come una divinità benevola (con un debole per gli sconti sui casalinghi), con il benestare della polizia e del governo. Nel frattempo Yumeno, il vero Dio della morte, giocava con una bambola innocua lamentandosi ma lasciando che “Dazai-nii” vegliasse sull’oggetto di pezza che, altrimenti, avrebbe attirato una carneficina su tutti loro.
A dispetto delle differenze anche Akutagawa e Jinko continuavano a lavorare insieme.
Giorno dopo giorno, a volte seguiti da Kyouka e altre tallonati dall'occhio vigile di Higuchi, miglioravano e familiarizzavano l'uno con i ritmi dell'altro: Chuuya, prendendo silenziosamente esempio da come i due avevano iniziato a non protestare, aveva a propria volta smesso di prendere sul personale le volte in cui si era trovato a sedere ad un tavolo di fronte a Dazai, Kunikida e il loro presidente. Mori insisteva che fosse presente ed aveva la sensazione che O'nee-san l'avrebbe sventrato come un pesce se si fosse azzardato a rifiutare, dunque Chuuya aveva preso un pesante sospiro, indossato il miglior paio di guanti neri che possedeva e aveva fatto pace con l'idea di vedere non solo Dazai, ma anche la stupida Agenzia di smidollati a cui si era affiliato.
Una sola volta non era riuscito a mantenere la maschera annoiata di fronte all'agenzia.
Una sola volta era sobbalzato.
Una sola, ed era dovuto alla mezza luna del sorriso di Kyoyou, scarlatta come il kimono che indossava.

“Chuuya-kun, non dovresti distrarti.”
Se glielo avesse detto chiunque altro l'executive avrebbe replicato con un insulto, ma meccanicamente drizzò le spalle ed annuì. Kunikida lo guardava con le labbra strette, gli occhi castani che scintillavano pericolosamente dietro gli occhiali come se avesse calpestato qualcosa di molto importante con la sua disattenzione: Chuuya era piuttosto sicuro di aver rovinato la sua tabella di marcia, quella che conosceva grazie ai ricordi di Dazai. Il ricordo gli strinse lo stomaco in una morsa.
“Non so neanche perché chibikko sia qui, non aiuta nemmeno~”
“Via, Dazai-kun, non essere ingenuo,” replicò Mori, le labbra incurvate in un sorriso, “È bene che impari. Dopotutto, un giorno sarà Chuuya-kun a sedere su questa sedia.”
Chuuya per poco non si era soffocato con la propria saliva, sentendo improvvisamente ogni funzione del proprio corpo bloccarsi. 
Cosa.
Sbattendo le palpebre, cercò convulsamente lo sguardo di Dazai e, un istante dopo, gli occhi di Kouyou nel tentativo di leggervi un commento, una risposta, un cenno inesistente di sorpresa. Era una dichiarazione ufficiale, quella? O’nee-San aveva lavorato tutto quel tempo a una scalata sociale per lui, così da lasciarla libera di agire nell’ombra? Dopotutto, tutti sapevano che Chuuya era già stato un leader — e com’era finita, andiamo, chi voleva prendere in giro?
Con una protesta già in gola e le mani improvvisamente sudate nonostante le dita gelide, Chuuya affondò i denti nelle labbra. Il ragazzo avrebbe voluto sotterrarsi e lavarsi di dosso gli occhi argentati di Fukuzawa, avrebbe voluto non sentirsi come se Mori gli avesse appena appiccicato un target sulla fronte perchè non era quello il momento nè il modo nè il pubblico per una dichiarazione, eppure era troppo tardi per rimangiarsi ciò che era stato detto.
Dazai gli aveva tirato un calcio da sotto il tavolo e Chuuya era rimasto zitto.

A parte quel singolo incidente, tutte le altre riunioni si erano susseguite in tranquillità. Naturalmente Dazai, essendo lo spreco di bende che era, non poteva certamente ignorare una tale possibilità di rigirare il coltello nella piaga.
Con una sola frase il boss aveva servito all'ex discepolo tutto ciò per cui Chuuya sentiva di non essere ancora pronto — leadership, la fiducia altrui, il peso dell'eredità di Mori — perchè ci giocasse a proprio piacimento, liberando la crudeltà dell'ex Demone Prodigio della mafia come avrebbe fatto con una bestia che aveva per troppo tempo annusato il sangue senza poterlo mai assaggiare, flirtando con l'idea della preda finchè non vedevano altro che rosso.
Chuuya non si era mai aspettato pietà. Non da Dazai, non quando poteva infastidirlo, non quando Chuuya l'aveva ferito così a fondo che non potevano guardarsi negli occhi senza che uno dei due fingesse di non aver notato l’altro.

 

From: Mackerel

Ah, congratulazioni Chibikko!
Come ci si sente ad essere la seconda scelta? ( ̄▽ ̄)


Visualizzato.
Non risposto.

Chuuya sperava fosse un vaffanculo abbastanza eloquente da abbattere le barriere e dall’esecuzione abbastanza nuova, nella replica perfettamente sincronizzata della loro routine, da catturare l’attenzione dell'ex partner.
Era la seconda scelta in Soukoku, quella che era rimasta? Non ne era sicuro, nonostante Mori avesse insinuato in passato la possibilità di essere assassinato da Dazai, e non gli interessava. Non era quello il vuoto che non voleva saperne di essere colmato né di sparire una volta per tutte, non era una promozione di cui sentiva la mancanza.
Yokohama aveva continuato ad essere una città migliore, una città più tranquilla. Francis aveva continuato a vegliare su di loro, le riunioni con Fukuzawa, Kunikida e Dazai si erano susseguite, Ranpo era un fastidioso aiuto alla polizia locale.
Andava tutto bene.
Naturalmente, nessuno si illudeva che 'tutto bene' sarebbe durato a lungo.

 

- - -

Quel mattino di febbraio lo scricchiolio del ghiaccio sui marciapiedi era l’unico suono in tutta Yokohama. Ango, quel quattrocchi maledetto che ancora accumulava favori con lui, li aveva avvertiti che l'evasione di Dostoevsky non era una ritirata quanto piuttosto il preludio di un tornado, di una pioggia di sangue e morte come mai si era visto in precedenza. Fukuzawa aveva assicurato che l’Agenzia aveva tutto sotto controllo.
Certo, sbottò fra sè e sè Chuuya, mordendo il tessuto morbido dei guanti per sfilarseli, punta dopo punta, rivelando la carnagione pallida sotto il velo nero, tutto sotto controllo un accidenti.
Come aveva previsto, quell’assicurazione e la disgustosa auto-convinzione dell'Agenzia aveva portato ad una bomba, a decine di civili coinvolti e all’intero squadrone di Chuuya e a buona parte delle forze di Black Lizard dispersi sotto macerie che puzzavano di gas, chissà dove in un edificio che si era accartocciato su se stesso come un modellino di cartapesta. Yokohama era un castello di carte e quel ratto bastardo portava la tempesta ma, finchè erano mafiosi quelli schiacciati da pezzi d'asfalto e ferro, andava bene.
Finchè erano mafiosi, i preziosi ideali di Kunikida Doppo erano salvi, Dazai riposava con la sicurezza che qualche pedina dal lato 'cattivo' era stata schiacciata e la sensibilità del governo rimaneva intoccata. Chuuya strinse i denti, perchè erano mafiosi ed erano suoi amici e avrebbe stilato decine di rapporti su di loro, quella sera, su ogni corpo mai trovato e su ogni cadavere da riconsegnare alle famiglie: un dossier di morte e d'onore che l'Agenzia era troppo ipocrita per riconoscere.
Così, iniziava la guerra — l’ennesima — con il rombo della gravità che piegava e crepava l'asfalto attorno alle armate della Port Mafia.
Quella mattina il freddo condensava il respiro in nuvole bianche e le ostilità erano di nuovo cessate fra le due organizzazioni.
Ranpo aveva gli occhiali calati sul naso, mentre Akutagawa vegliava il fianco di Jinko come se si stesse incaricando personalmente della sicurezza del ragazzo. Kyouka li osservava con il cellulare in mano, una bambina dal kimono sporco di sangue, defilata e impassibile con il fantasma di Demone Biancaneve che le svettava alle spalle.

"Un giorno, Chuuya-kun si siederà su questa sedia," echeggiavano le parole di Mori nella sua mente, in una riunione solo qualche settimana prima, "e sa benissimo che essere leader significa essere schiavo dell’organizzazione di cui è a capo. La sua opinione conta e voglio sapere cosa ne pensa."

Doveva davvero smetterla di gettare quell'argomento nella conversazione come se interessasse a qualcuno, ma Chuuya aveva stretto le spalle e finto di non aver sentito.
"Chuuya non saprebbe gestire una classe all’asilo," aveva replicato Dazai, stringendosi nelle spalle e, maledizione, non era nemmeno certo di potergli dare torto: non era stato il più brillante dei leader in passato e, nonostante sperasse di aver trovato un equilibrio in quegli anni, O’nee-san non poteva aver tentato di prepararlo a tornare ad essere un capo su cui poteva pesare l'intera organizzazione.
Era un’arma segreta, un ottimo executive ed un buon sottoposto; non un leader supremo.
"Se non fossi stato così gentile da reclutarlo per noi, Dazai-kun, Chuuya-kun sarebbe ancora a capo della sua fazione," aveva assicurato Mori, "e ti prego di non fraintendere, nessuno ha chiesto la tua opinione."
Ma Dazai non aveva certo smesso di dare la propria opinione (ugh) e alla fine avevano tutti finito per seguire il suo piano, come sempre.

In quel mattino di febbraio in cui l'ombra di Dostoevsky era tornata ad adombrare la città, Kunikida fissava gli executive della Port Mafia dal fianco di Dazai e del ragazzino con il cappello, con l’espressione familiare e disgustata di chi ha visto un Rashomon, una bomba limone ed un mafioso di troppo. Chuuya gli aveva rivolto un ghigno sfrontato, concentrato piuttosto nel trovare una risposta efficace per la tempesta che li avrebbe travolti.
Le rovine fumanti del palazzo, lo scheletro di cemento e ferro si sposavano in maniera bizzarra con gli occhi di Elise, gemme rosse scintillanti d'aspettativa, e con il camice bianco di Mori: con Fukuzawa accanto a lui, una silenziosa visione con la spada al fianco e le mani nascoste nel kimono, sembrava il preludio della fine del mondo, e Chuuya poteva percepire l'elettricità nell'aria. Erano centinaia di spilli che gli pungevano la pelle, scariche elettriche che gli correvano lungo la schiena.
Comincia; sta per iniziare.
Manca poco.
“Ratti,” flautò Mori, “chi l'avrebbe mai detto? Neanche il veleno di quegli incompetenti del governo li uccide.”
“Che seccatura,” era stata la risposta di Akutagawa prima di portarsi una mano al volto per coprire un colpo di tosse. Gli occhi cangianti di Jinko seguivano ogni suo movimento e Chuuya giurò di leggervi apprensione, ma doveva ammettere che Nakajima Atsushi sembrava un ragazzino che si preoccupava facilmente.
“Le cose si stanno mettendo male,” continuò Mori. Si stava massaggiando le tempie, la voce carica di preoccupazione fasulla sporcata da una punta di divertimento, “non credi anche tu, Fukuzawa-dono?”
Gli occhi di Fukuzawa li scrutarono, uno ad uno.
Chuuya sostenne lo sguardo in onore della sua squadra scomparsa, stringendo i pugni scoperti e scoprendo i denti come una bestia alla catena — non esattamente al Presidente dell'Agenzia in sè, ma a quello che rappresentava. Kunikida fece scattare il cane della pistola in un veemente invito a tenere per sè le animosità e l'executive giurò a se stesso che prima o poi gliel'avrebbe fatto ingoiare, quel suo quaderno dell'accidenti.
Fukuzawa, al contrario, non sembrava stupito quando tornò a rivolgersi a Mori.
“Non ricordo un giorno in cui scarse possibilità di vittoria ti ha impedito di tentare, Mori-sensei.”
“Giusto, giusto. Sarebbe un peccato.”
L'uomo annuì, il volto tagliato a metà dal sorriso estasiato di chi non è disposto a perdere — né la vita, né il controllo sulla città e sulla Mafia. L'attenzione del Presidente si mosse verso Ranpo, istintivamente, che rispose accennando in direzione di Dazai.
“Abbiamo un piano.”
Kunikida alzò gli occhi al cielo.
“Moriremo tutti?”
“Non se va tutto come previsto,” replicò Dazai, allegramente.
Lo spreco di bende, la metà sanguinosa di Soukoku, il Demone Prodigio: alla fine era lui, era sempre lui. Gli aveva rivolto un sorriso, il volto ammorbidito da una gentilezza che Chuuya non aveva visto dal giorno in cui le strade si erano divise per l'ennesima volta.
Idiota di uno sgombro, non c'era nulla da ridere.
“Chuuya, te la senti?”

Era andato tutto bene fino a quel giorno, ma “fino a quel giorno” non voleva dire nulla perché nulla andava mai bene per sempre, non a Yokohama.
Eppure Dazai continuava a chiedergli se se la sentisse di mettere la propria vita in prima linea ed aver fiducia in lui pur sapendo che non aveva scelta, e Chuuya continuava ad annuire.

 

- - -

Dazai Osamu non si considerava un individuo pessimista.
Non era certo colpa sua se il mondo era così palesemente marcio, se la sua mente si ostinava a vedere la deprimente immagine di un guscio vuoto dove chiunque altro sovrapponeva la menzogna di uno scrigno di colori, un dagherrotipo di un’esistenza felice.
No, Dazai Osamu era un realista. I calcoli e le previsioni erano qualcosa che conosceva così bene da poterne descrivere il sapore ogni qualvolta gli eventi si srotolavano davanti ai suoi occhi in una sequenza già vista; poteva tracciare il futuro sulle linee invisibili di un tavolo di metallo e raccontarlo in un codice morse trasmesso attraverso i battiti del suo cuore. Vedeva nella trama di Yokohama, una città di luce punteggiata d'anime troppo corrotte per essere portate in salvo.
A volte, Dazai guardava il buio e credeva di riuscire a cogliere la figura di Dostoevsky.
Quello che non aveva previsto era di trovarsi a sedere sulle poltrone che odoravano di polvere della sala d’aspetto della clinica interna alla Port Mafia. La moquette scura, la luce intrappolata fuori da pesanti tendaggi rossi e lo stagnante profumo di fiori e sigarette (Dazai l’aveva sempre imputato ad un tentativo di Mori di coprire il ricordo dell’odore chimico nella sua vecchia clinica) facevano sembrare l’ala riservata all’ospedale un obitorio, un luogo dove riposare per sempre piuttosto che riprendersi in fretta: a Dazai non era mai dispiaciuto prima.
Non vi aveva mai fatto caso prima di dover aspettare passandosi una mano fra i capelli, pentendosi ogni minuto perchè un mazzo di fiori avrebbe dovuto riposare sulle sue ginocchia e invece aveva preferito non portare niente.

‘Sia mai che Chuuya si faccia l’idea sbagliata.'

In tutta onestà si era fermato di fronte ad un negozio, sfiorandosi il mento con dita distratte nel momento in cui i suoi occhi si erano posati sulle camelie rosse, ma un brivido lungo la schiena ed un senso di vuoto, il mondo che tornava ad essere bianco e nero gli aveva ricordato che non era ancora pronto e che un gesto del genere l’avrebbe fatto sentire più vulnerabile di quanto potesse accettare.
Dazai, che si fidava dei numeri, delle previsioni, aveva sbagliato. 

Era per quello che si trovava a dover visitare una stanza d’ospedale: un minuto troppo tardi perchè lo stato Corrotto dell’abilità di Chuuya non lasciasse alcun tipo di danno fisico, un minuto prima che quegli stessi danni risultassero permanenti. Poteva andare peggio, l’aveva rassicurato Mori; il gelido disappunto di Kouyou gli aveva ricordato che un minuto troppo tardi era sufficiente.
Aveva perso il conto del tempo che aveva passato a battere il piede per terra e a cambiare posa sulla sedia perchè le sue gambe sembravano improvvisamente troppo lunghe per qualsiasi posizione comoda. Aveva lanciato più occhiate alla porta di quante fosse disposto ad ammettere, chiedendosi se non facesse ancora in tempo a correre a comprare quelle maledette camelie perchè sì, chibikko se le era meritate, ma ciò non aveva mutato il silenzio della sala d’aspetto, ammorbidito solo dal parlare che proveniva dalla stanza di Chuuya.
Yosano era uscita ormai un’ora prima, scoccando un sorriso al collega.
“Qualcuno qui è in vena di aspettare, hm?” l’aveva punzecchiato, drappeggiandosi il camice bianco sul braccio. Cerchi violacei le appesantivano gli occhi, il rossetto era scomparso e il mascara si era raggrumato sulle ciglia.
“C’è ancora molto?”
“Stanno terminando gli ultimi accertamenti,” la donna si umettò le labbra, indecisione scritta in ogni pausa, “Non è mai chiaro come il corpo umano reagisca a questo tipo di abilità e a questo tipo di danni. Mori vuole essere sicuro di non aver compromesso Nakahara.”
“Possiamo dargli torto?” flautò Dazai.
Lo stomaco non gli era crollato alle caviglie, doveva essere solo una bizzarra coincidenza.
“No, non esattamente. Dazai-kun, non credo che sarà una cosa veloce; possiamo tornare all’agenzia, verremo aggiornati quando sarà il momento.”
“Yosano-san è così diligente~ Ma credo che rimarrò, Kunikida-kun mi sotterrerebbe di documenti se dovessi tornare troppo presto~” aveva replicato, con un broncio leggero e fingendo di non notare i segni della stanchezza ovvi sul volto del medico, “e Mori-san deve aver investito in delle poltrone più comode.”
“Rubagliele. Ruba a quel bastardo di Mori tutto quello che puoi.”
A quel punto, sulle labbra di Dazai si era dipinto un ghigno gemello. Non era esattamente una minaccia, ma era anche certo che Yosano si riferisse a qualcosa che trascendeva lo stupido furto di un oggetto d’arredo.
“Con piacere,” aveva risposto, allegramente.
Ma c’era poco da stare allegri, quando un’ora era passata e nessuno si era ancora degnato di fargli sapere come stessero le cose, quanto si dovesse sentire responsabile. Akutagawa era comparso, preceduto da un leggero colpo di tosse, ma Dazai gli aveva sorriso e assicurato che Chuuya era in ottime mani. Non era certo se il giovane fosse più sorpreso dal leggero sorriso che l’ex mentore gli aveva rivolto, e che aveva tinto il suo viso di un bizzarro tono di rosso, o per il fatto che un traditore agisse indisturbato nel bel mezzo degli edifici della Port Mafia, ma Dazai aveva immaginato che la gentilezza lo allontanasse più velocemente di una minaccia.
Akutagawa non era stato l’unico, però, ad avvicinarsi. Dazai aveva avuto un gran daffare ad allontanare il viavai di amici e sottoposti, tutti con un mazzo di fiori o l’occasionale pacchetto di cioccolatini, che erano corsi a sincerarsi delle condizioni dell’executive.
Chuuya era popolare, lo era sempre stato.
La domanda era come potesse non esserlo, con quel viso e quegli occhi azzurri e la mania di uscire a bere con chiunque, di essere protettivo e gentile e disponibile ad ascoltare i problemi dei sottoposti che definiva, indiscriminatamente, scioccamente, amici: una mamma chioccia alla perenne ricerca di una famiglia.
Dazai sospirò, più frustrato di quanto avrebbe mai immaginato, quando dei passi alle sue spalle e una leggera scia di profumo costoso lo fecero sobbalzare. Tachihara aveva iniziato ad utilizzare lo stesso shampoo di Chuuya qualche mese dopo essere stato reclutato nella Port Mafia e, da allora, qualsiasi cambiamento in Chuuya aveva trovato un’azione speculare in Tachihara.
Il detective strinse le labbra.
“Bizzarro vederti qui.”
Anche senza voltarsi poteva immaginare la mascella dell’uomo irrigidirsi di fronte al tono leggero, come se tutto quel miele potesse celare il veleno di quello che Dazai avrebbe davvero voluto dire.
“Potrei dire la stessa cosa."
Tachihara sospirò, prendendo posto in una delle poltrone libere, e Dazai gli lanciò un’occhiata laterale.
“Se hai qualcosa da dire a Chuuya, puoi aspettare? Credo che solo i padroni possano vedere per primi il proprio cane quando lo portano dal veterinario~”
“Non è molto cortese riferirsi a Chuuya-san come ad un cane.”
“Oh? Tachihara, non ti ho mai sentito rispondere ad un superiore in maniera così diretta. Immagino che anche tu sia cresciuto, hm~?”
Un’occhiata affilata, Tachihara che storceva il naso.
“Con tutto il rispetto, non credo si possa più parlare di superiore a questo punto.”
Con un tch infastidio, Dazai scosse la testa. Tachihara teneva fra le mani un bouquet di fiori freschi— rose rosse, per l’amor del cielo — avvolti in carta decorata, e Dazai si impedì di sobbalzare alla vista di qualcosa di così prevedibile e volgare.

Chuuya lo apprezzerebbe.

Per un secondo, si chiese se fosse davvero la prima volta che Tachihara aspettava chibi con un mazzo di fiori.
“Comunque, ho un consiglio per te.”
Si voltò a guardare l’altro ragazzo; il verde nei suoi occhi era torbido ma le pupille si strinsero impercettibilmente quando Dazai lo fissò, un sorriso affilato come una lama tratteggiato sul volto. Se non altro, doveva ammettere che Tachihara aveva mantenuto una facciata consistente, accennando un sogghigno a propria volta.
“E sarebbe?”
“Se fossi nella posizione di Tachihara-kun, con un’abilità mediocre e senza talento nell’usarla, smetterei di puntare troppo in alto. Potresti finire per pestare i piedi sbagliati e mirare a cose che non ti appartengono.”
Quattro anni prima sarebbe stato sufficiente. Quattro anni prima, Tachihara non avrebbe lanciato uno sguardo preoccupato alla porta chiusa che li separava da Chuuya, le labbra strette in una linea intellegibile.
“Dazai-san,” uno sbuffo, “forse non sta a me dirlo, ma non ti sembra di parlare senza tenere in conto i desideri di Chuuya-san?”
“Non mi sembra~ ”
“Solo Chuuya-san ha il diritto di dirmi che non mi vuole vedere.”
Un qualcosa di ancestrale, una bestia che credeva di aver zittito quando aveva lasciato la mafia, si rivoltò nello stomaco di Dazai; in superficie si era cristallizzato in un sorriso che gli scuriva gli occhi ma il ruggito carico di odio lo scosse da capo a piedi.

Odasaku, perdonami. Vorrei davvero svuotare un caricatore su questo bastardo, in questo momento.

Immaginò per un istante di avere ancora una pistola sotto la giacca ed il mondo si tinse di bianco e di nero. Era il giorno fortunato di Tachihara, apparentemente.
“Tachihara…”
Giurò di vedere una scossa di tensione percorrere l’uomo. Persino le rose tremarono. Quelle orribili, orribili rose.
“Forse non mi sono spiegato. Esci da questa stanza finché hai ancora le gambe.”

Alla fine, la porta si era finalmente aperta.
Dazai era scattato in piedi, complice l’adrenalina ancora in circolo dallo spiacevole incontro con Tachihara; non era fiero di come aveva gestito la situazione, non era felice della facilità con cui ripercorreva le vecchie strade ed i vecchi errori, ma tutto era scivolato nell’inutilità nel momento in cui un’infermiera in kimono gli aveva fatto cenno di entrare. 

 

- - -

 

“Te la sei cavata per un pelo, Chuu~ya. Sei fortunato ad avere un partner solerte come il sottoscritto, non trovi?”
“Vattene, Dazai.”
Chuuya strinse gli occhi, il dolore alla testa che montava come un temporale, impennato dal suono dei macchinari che gli pulsava nelle orecchie. Per quanto tentasse pigramente di sfilare la mano dalla presa di Dazai lui rimase dov’era, immobile, dita bendate ancorate a quelle di Chuuya. In silenzio.
“Vattene dai tuoi amici, dal tuo partner e dal tuo allievo.”
Ora c’era qualcosa di capriccioso bel modo in cui non mollava la presa. Chuuya non era certo se fosse tutto l’antidolorifico o a causa della maschera impenetrabile davanti a lui, ma sentiva di dover vomitare.
“Vattene a rendere fiero Oda.”
Eppure.
“Vattene.”
Era una preghiera, ora. Dazai non si era mai fatto problemi a sbattergli le porte in faccia, eppure quando glielo chiedeva sembrava incapace di lasciarlo andare. Sentendo la rabbia attutita dalla debolezza fisica e con nelle orecchie il suono dell’elettrocardiogramma che si faceva più insistente e crollava a picco un istante dopo, Chuuya socchiuse le labbra per parlare— e le richiuse, interrotto da un sussurro. Un suono strozzato.
“Ci sto provando, Chuuya.”
Prendendo un ampio sospiro, l’executive chiuse gli occhi.
“No, Dazai,” un tremolio della maschera, la presa che si allentava. Chuuya sentì le proprie labbra incrinarsi in un broncio esitante, “no, ci stai riuscendo. Sembra che tu abbia preso fottutamente sul serio questa cosa di diventare una persona migliore, e lo vedo, lo vedono tutti. Ci stai riuscendo, ma continuo comunque a rimanere della mia idea.”
Due occhi nocciola lo fissarono. Negli anni della Port Mafia erano sembrati quasi scarlatti, ma l’insegnamento di Oda vi aveva trasferito una luce diversa — la propria— che li ingentiliva persino quando il vecchio Demone annaspava per tornare a galla.
“Credi che stia facendo tutto questo per tormentarti?”
“Ryūnosuke.”
Dazai arricciò il naso, come se non avesse alcuna familiarità con il nome. Chuuya sogghignò, e non era mai stato così difficile incollarsi un sorriso sul volto quando avrebbe voluto prenderlo a testate.
“Akutagawa.” precisò.
“Ah, lui.”
“Sembra che tu abbia paura del ragazzo, Dazai, e di quello che gli hai fatto.”
“Che cosa stupida da dire,” replicò, un sorriso cristallizzato sulle labbra; ma nelle pupille strette, nell’immobilità plastica del suo volto, echeggiava il fantasma di un uomo immobilizzato dal terrore. Un uomo che aveva voluto morire, e che nella scoperta di qualcosa per cui vivere si era scontrato anche con un nuovo tipo di paura.
Chuuya scosse la testa, lentamente.
“Dev’essere sfiancante sforzarsi costantemente di ignorare le persone che ti amano e credono in te, dirsi che non vali nulla, allontanare tutti; e non insultarmi credendo che non lo capisca, ho gli occhi.
“E da quando Chibi è uno psicologo?”
Il sorriso di Dazai tagliava perché era finto, un pezzo di ceramica, l’ennesima fessura nella maschera.
“Sai che ho ragione.”

Ti prego di smetterla di dire cose senza senso.”
“Sei tu quello che non ha senso. Cos’è, Oda non ti ha dato un manuale d’istruzioni? Salvare le persone non è facile come pensavi che fosse? Eppure stai facendo così tanta strada che mi domando come tu possa non accorgertene.”
Dazai sussultó. Impercettibilmente, un movimento nascosto ad un occhio inesperto, ma Chuuya sapeva di doversi aspettare esitazione ed una risposta elusiva: una risposta che non voleva dire nulla solo per infastidirlo, a che riuscì a battere sul tempo.
“Sarebbe fiero di te, Dazai.”
Quando il detective si morse le labbra un frammento della maschera che si sgretolò ancora, sostituito da un sorriso, uno stringersi nelle spalle, una voce incrinata.
“Forse dovrei andare. Chibikko sta straparlando.”
“Esci da quella porta ora ed è l’ultima volta.”
Fu sufficiente a cristallizzare Dazai nell’atto di alzarsi, e si lasciò ricadere sulla sedia senza un suono. L’executive, stancamente, si passò una mano fra i capelli.
Alle volte pensava che l’ex partner fosse una persona così egoista da non permettere a nessuno a cui teneva di essere felice, mentre altre credeva si stesse semplicemente prendendo gioco di chi voleva vivere, disgustato dalla bugia in cui Chuuya aveva invece affondato le unghie anni prima senza più lasciarla andare.
Una metà di loro era sempre stata più nera ed irraggiungibile dell’altra.
Almeno Chuuya aveva una parvenza di vita normale, Dazai aveva un ricordo piantato nello stomaco e un bagaglio emotivo senza fine.
Forse era a causa di quelle barriere, di tutte le maschere che aveva indossato, del freddo che doveva fare nella sua testa — perchè Chuuya non si era mai fatto illusioni, Dazai aveva probabilmente una landa desolata al posto dell’anima— che Dazai non rispose. Si chinò in avanti, una mano sulla guancia dell’executive e l’altra ancora ancorata alle sue dita, e premere le proprie labbra sulle sue. Con irruenza, prima, ma quando Chuuya non si era spostato Dazai aveva piegato il capo lentamente, una sensazione così familiare che, per un momento, invece dell’impermeabile e del profilo di Dazai, l’executive pensò di aver intravisto cerotti, bende e un cappotto nero.
“Non ti odio. Non odio niente di te, Chuuya.”
Non rispose, ma chiuse gli occhi e sentì il proprio corpo rilassarsi, sciogliendosi perchè Dazai era tiepido e delicato e gli stava tracciando minuscoli cerchi con il pollice sul dorso della mano e le sue labbra erano leggermente rovinate.
Sentendo il peso di cento vite sulle proprie spalle, Chuuya si chiese se fosse davvero Corruzione o se il bastardo non avesse trovato un modo per rubargli anche l’ultima stilla di forza.
Decise che non gli importava quando Dazai gli morse il labbro inferiore, spingendo Chuuya più contro di sè. Il rumore metallico della flebo che si spostava gli suggerì che dovevano aver usato un po’ troppo entusiasmo, ma sospirò e lo lasciò fare con rassegnazione.
“Mi dispiace, partner.”
“Anche a me,” ammise.
Era un uomo adulto, poteva accettare di dividere le colpe; poteva accettare di mostrarsi vulnerabile, se ciò poteva convincere Dazai a spogliarsi di alcune delle sue difese più superficiali, quelle sottili come carta e che lasciavano ferite altrettanto invisibili.
“Chuu~ya, non avevo idea fossi gentile!”
La voce dell’ex partner era leggermente roca. Labbra contro labbra, l’executive sentì il sangue andargli al viso.
“Non ti ci abituare troppo, mackerel.”
“Chuuya rimane sempre il solito teppista maleducato~”
“Vattene, idiota, fammi respirare.”
Annuendo fra sé e sè, Dazai si ritrasse. Chuuya notò con un improvviso tuffo allo stomaco che le loro mani rimanevano intrecciate, le dita rovinate ed affusolate del detective contro le sue morbide e ancora macchiate di sangue. Per il Dolore Corrotto e una vita passata a non combattere eccessivamente con i pugni avevano reso Chuuya sensibile, e sentì l’intero dorso della sua mano andare a fuoco nel momento in cui Dazai la sollevò per sfiorare le nocche con le labbra.
Il cuore sembrava volergli saltare fuori dalla cassa toracica, sfondando le ossa con la pura forza dell’imbarazzo.
“Ne parliamo a casa?”
Chuuya, istintivamente, storse il naso.
Sì, sì, sì.
“Hm; fa’ come vuoi.”

 

- - -

 

“Oi, polipo troppo cresciuto, lasciami andare cinque minuti!”
“Ma Chuu~ya!” fu il lamento che ricevette, mentre Dazai si allacciava con più entusiasmo al braccio del partner e posava il mento sulla cima del suo cappello, “Vuoi solo scappare lasciandomi qui da solo a fare queste cose noiose!”
“Te lo meriteresti, mackerel.”
Un gasp oltraggiato.
“Se non mi lasci andare, brutto imbecille, non mangiamo.”
“Hm-hm.”
“Perchè se non la smetti di nullificare la mia fottuta abilità, non arrivo allo scaffale più al—” si immobilizzò, sentendo il sangue e la vergogna scaldargli il viso nel momento in cui le parole stavano per sfuggirgli dalle labbra. Il sogghigno che si era aperto sul volto di Dazai era provocatorio, affilato come una lama.
“Sì~?”
Facendo schioccare la lingua, Chuuya si voltò con abbastanza violenza da liberarsi dall’abbraccio di Dazai — chi si abbracciava di fronte ad uno scaffare di formaggi, dopotutto? Solo quell’idiota con cui Chuuya aveva malauguratamente condiviso la casa— e da obbligarlo a barcollare in avanti. Le dita di Dazai rimasero ostinatamente ancorate al suo polso, ma ormai Chuuya era troppo occupato a nascondere il color ciliegia che gli arrivava sino alla punta delle orecchie per preoccuparsene.
“Tch. Andiamo avanti.”

 

Non è che Chuuya e Dazai avessero deciso di vivere insieme, esattamente.
Era stato un avvicinamento graduale che aveva formato quella che era la loro —precaria e a volte esplosiva, altre addirittura domestica — relazione, una forza che aveva spinto Chuuya proprio malgrado a plasmare le proprie abitudini su quelle del disastro ambulante che gli avevano assegnato come partner sin dai giorni in cui erano gli unici adolescenti nell’intera Port Mafia. Non era cambiato molto. Dazai era ancora una minaccia per la società, e Chuuya oscillava ancora tra il desiderio di prendergli il viso fra le mani e baciarlo e quello di riempirlo di schiaffi finché Dazai non si fosse reso conto di essere un disastro ambulante.
Tuttavia, Chuuya sentì il sangue gelarsi nelle vene nel momento in cui il proprio partner si era immobilizzato nel bel mezzo della corsia e il suo sorriso si era piegato all’ingiù. 
Aveva quasi paura di seguire la traiettoria dello sguardo di Dazai, puntato verso la fine del corridoio senza espressione alcuna, e tuttavia si rilassò quando la voce di Jinko gli arrivò alle orecchie. Giurò di sentire Dazai esitare, come se stesse per scattare ed andarsene.

“Dazai-san!”
Chuuya strinse con più forza la mano del proprio partner nel momento in cui la sentì tremare, dita gelide che erano state tiepide un momento prima. Quelle dita intrecciate avevano fatto sorridere fra sé e sé l’executive: l’espressione di una crisalide di semplicità, un gesto fragile che urlava piú forte di mille parole vuote e splendeva di più dei mille angoli d’ombra nella psiche di Dazai. Chuuya non avrebbe mai immaginato che fosse lui a prendergli la mano, solo un’altra coppia normale che ne aveva avuto abbastanza di cena d’asporto e si era trascinata al supermercato, ma nel momento in cui qualcuno gli ricordava chi erano, e cosa si erano lasciati alle spalle, la presa del detective esitava e tentava di scivolare via in silenzio.

Atsushi-kun, salutò, incertezza che gli incrinava la voce.
“Nakajima,” annuì Chuuya a propria volta, con un sorriso.
Dazai Osamu non si esponeva.
Dazai Osamu non assumeva rischi che non fossero meticolosamente calcolati e non mostrava niente di sè — non mostrava niente di loro. Ma Chuuya non aveva intenzione di fargli dimenticare che non era solo, che i suoi colleghi lo amavano e che, per quanto lo infastidisse e mandasse in bestia, lui stesso non aveva mai avuto molta scelta.
La tigre lo guardò, occhi sgranati che cercavano quelli del mentore nel tentativo di registrare la situazione. Aveva le labbra socchiuse in una ‘o’ di stupore, ma qualunque domanda educata stesse per porre alla coppia — alla quale Chuuya avrebbe risposto e con sincerità, perchè non era un disgraziato come Dazai — venne coperta dal ruggito di un altro dei colleghi di Dazai: Kunikida.
Quello che, con il tempo, Chuuya supponeva di poter compatire ma che non gli impedì di alzare gli occhi al cielo con una punta di fastidio.
“Allora eri a bighellonare, bastardo!”
Meccanicamente, Chuuya lo sentì stringersi al suo fianco. L’executive sollevò un sopracciglio in direzione di Kunikida, indeciso se spostarsi o fare finta di nulla. Lo scorno dipinto sul viso snello del detective e l’odio per la pigrizia del proprio partner risvegliavano in Chuuya la voglia di abbandonare Dazai nelle grinfie dei colleghi solo per fargli pagare tutte le volte in cui l’aveva lasciato solo a finire un lavoro.
“Oh no. Ci hanno scoperti, che faremo ora~”
“Arrangiati,” mormorò, facendo un passo indietro.
“Chuuyaaa~!”
“Non me ne frega niente di quello che fai nel tuo tempo libero, spreco di bende ambulante, ma non è accettabile che si ripercuota sul lavoro di tutti! Ma non hai un minimo di vergogna? Almeno presentarsi al lavoro ti sembra troppo?!”
Dazai sorrise.
Un sorriso timido, accompagnato da un ritrarsi quasi colpevole; Se Chuuya non l’avesse conosciuto per il bastardo che era avrebbe detto che stava per scusarsi, ma la vena sulla tempia di Kunikida aveva già cominciato a pulsare furiosamente in attesa della risposta.
“Ups, forse mi sono dimenticato~”
“Dazai!” ruggì, scarlatto in volto.
“Beh, che ci possiamo fare? Ormai la giornata è finita, Kunikidaaa-kun, andrà meglio domani! E non ti arrabbiare, che ti si alza la pressione~"
Incapace di registrare l’urlo oltraggiato dell'interessato — un suono dall’oltretomba che aveva fatto girare un drappello di civili che con tutta probabilità stavano cercando di fare la spesa e tornare a casa senza incappare nell’ennesimo problema — Chuuya sospirò, massaggiandosi le tempie.
Avrebbero perso l’offerta sulla carne, di nuovo. Per colpa di Dazai, di nuovo.
Ma il detective aveva ignorato Kunikida per rivolgersi ad Atsushi in quel suo tono che avrebbe potuto far nascere i fiori dall’asfalto: una voce che avrebbe sciolto ogni scheggia d’ira nell’animo di Chuuya se non fosse stato così diverso dal modo in cui parlava con Akutagawa. Ma aveva promesso che ci avrebbe provato e Chuuya voleva credergli, voleva dargli una possibilità perchè era l’unica strada che gli era rimasta dopo sette anni in cui aveva dato modo all’ex partner di piantare radici nella sua vita.
“—Così Kyouka-chan ti ha minacciato?”
“Lucy-chan mi ha minacciato,” stava replicando Atsushi, stancamente.
Chuuya aggrottò la fronte, tornando a prestare attenzione.
“Atsushi-kun di sicuro è popolare con le ragazze. Non è vero, Kuuunikiida~? Sei geloso di Atsushi, che troverà la donna perfetta senza la tua lista?”
Perplesso, l'executive lanciò uno sguardo al ragazzino.
Era pallido e magro e non dava l'idea di una tigre feroce; ciò significava anche che era delicato, che si sarebbe rafforzato col tempo e che aveva l’aria di una persona che dava valore alla gentilezza nonostante non l’avesse mai conosciuta prima. Un quadro tutto sommato tranquillo per essere un’arma di distruzione di massa e una tigre mangiauomini, ma chi era lui per giudicare?
“Hm? Jinko, credevo di aver capito che fossi con Akutagawa, perchè un ragazzina della Guild dovrebbe—”
“Stop!” lo interruppe Dazai, mostrandogli il palmo della mano, “Chibi non vuole avventurarsi in questo discorso!”
“Cosa…?” brontolò, ma Dazai sostenne il suo sguardo scrollando il capo e occhieggiando i colleghi. Alla ‘A’, Jinko era già di un’impossibile tonalità di viola, gli occhi cangianti ridotti a due fessure cariche di panico.
“Nakajima-kun?!” replicò Kunikida, in un suono strozzato a cui, onestamente Chuuya non poteva dare torto, “Cos’è questa storia?”

Ah. Almeno non era l’ultimo a sapere le cose.

“Ecco, io—”
“I miei amati discepoli stanno diventando grandi,” spiegò Dazai, lanciando un’occhiata allusiva ad Atsushi, “in-sie-me!”
Chuuya poteva quasi vedere il cuore al termine della frase, e le implicazioni che essa portava con sé, ma era più angustiato dal fumo che pareva dover uscire dalle orecchie di Jinko da un momento all’altro.
Aspetta, cosa? l’executive fissò Nakajima, e poi quell’idiota del suo mentore, In quel senso? Seriamente?
Il silenzio che si creò fra di loro era rotto solo dal sibilo dell’aria condizionata nelle corsie e dei banchi frigo, dal trillo insistente delle casse automatiche; un bambino stava stillando da qualche parte oltre gli scaffali.
Akutagawa; Akutagawa e Jinko, Jinko e Akutagawa. 
Con un sospiro, passandosi una mano sul volto, Chuuya si disse che avrebbe dovuto immaginarlo.
Kunikida fu il primo a rompere il vuoto che addensava l'aria lanciandosi verso Jinko — una sfortuna che Atsushi si fosse mosso meno velocemente del proprio superiore, davvero, e che il suo sedicente mentore si fosse limitato ad un sospiro carico di enfasi.
Un istante dopo il detective aveva iniziato a scrollare Atsushi con foga, ululando proteste sul fatto che la Port Mafia non fosse un parco giochi né un’applicazione di appuntamenti (‘Oi, quattrocchi, guarda che ti sento’, avrebbe voluto sbottare Chuuya) e che, sicuramente, non aveva pensato alle conseguenze per tutti loro.
“Con Akutagawa?!”
“Kunikida-san—”
Akutagawa, tra tutti!
Forse doveva chiamare un buon assistente sociale perchè Jinko sembrava vessato dai matti nell'Agenzia ed era abbastanza certo che non fosse compito di Kunikida intromettersi nella vita del ragazzino, ma alla fine non erano davvero affari suo. Tuttavia, in quel momento Dazai rise di cuore e il mondo si immobilizzò, costringendo Chuuya a voltare lo sguardo: gli parve l’unico suono che aveva senso nell'universo, trascinando tutto il resto nello sfondo.
Era una novità sentirlo ridere così in pubblico mentre lo afferrava per il polso un’altra volta e lo tirava a sè, ed era l’unico suono che l'executive avrebbe voluto sentire per tutta la vita. Era un pezzo dell’anima di Dazai che si staccava dalla maschera, umana e con la forza improvvisa di uno tsunami.
Chuuya si era reso conto che lo stava guardando con occhi sgranati carichi di sorpresa ma, nonostante Dazai avesse smesso di ridere e lo stesse fissando di rimando con il capo leggermente inclinato per la curiosità, riusciva a malapena a battere le palpebre.
“Chuuya?”

Oh, si disse, è difficile guardare chiunque altro. 

“Chibi?” Dazai sorrideva, ora, un sorriso provocatorio ma privo di spigoli.
Chuuya scosse la testa, obbligandosi a guardare altrove; le corsie attorno a loro, i propri piedi, Kunikida che aveva lasciato andare Atsushi, tutto andava bene pur di nascondere l’improvviso senso di leggerezza che l’aveva avvolto.
Dazai rideva.
Avevano definitivamente perso ogni tipo di offerta a tempo per quella sera, non avevano finito neanche metà della spesa, erano un detective traditore ed un membro della mafia, un suicida ed un esperimento del governo, due coltelli pronti a tagliare eppure Dazai rideva come se non avesse nessun problema al mondo. Si chiese se quella fosse l'eredità di Oda, o un percorso che l'ex partner aveva fatto da solo.
Ma Dazai rideva e tutto andava bene ed erano insieme e forse, questa volta, c’erano buone possibilità all'orizzonte.
“Comunque sia, vi dispiace?” sbottò Chuuya, con la voce arrochita dalla stanchezza e dall’improvvisa fretta di andarsene; per buona misura, gesticolò in direzione dell’uscita del supermercato in maniera abbastanza eloquente, cosicché anche l’unico neurone di Dazai non potesse ignorarlo, “vorrei non dover dormire in una corsia che puzza di formaggio, se per voi stupidi detective armati non è un problema.”
La realtà era che voleva andare a casa dopo una giornata disastrosa per chiudersi alle spalle la porta e posare le mani sulle braccia di Dazai e iniziare a srotolare le bende che nascondevano la pelle, le ferite ancora furiosamente rosse e i residui bianchi di giorni peggiori, liberarlo dal tessuto e dall’armatura strato dopo strato. Voleva vederlo rilassarsi sotto il suo tocco, arroccarsi sul divano con una bottiglia di Chianti e una coperta e gli orribili dorama che il suo partner lo obbligava a seguire.
Voleva tornare a casa e non poteva più immaginare — non aveva mai potuto immaginare — di chiamare “casa” quattro stupide mura in cui Dazai non c’era. Forse era melenso e stanco e se ne sarebbe pentito in futuro, ma voleva andare ‘a casa’ e quelle poche sillabe avevano un suono tiepido e bello nella sua mente.
Non definitivo, non perfetto, ma era qualcosa: ed era più di quanto Nakahara Chuuya avesse mai osato sperare.

   
 
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