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Autore: Ghen    09/09/2019    3 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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52. Chi sono io?


La sveglia suonò tre volte, quattro, cinque. La sesta era quella buona e una mano pallida si sporse dal copriletto per spegnerla. Era sveglia da un po', in realtà, ma non le andava proprio di alzarsi dal letto. Si scoperchiò lentamente e sbadigliò pacata, girandosi dall'altro lato. Ancora cinque minuti, forse venti, e finalmente poggiò i piedi a terra. Ancora cinque minuti, forse dieci, e si portò in piedi. Il corpo era pesante, le gambe si muovevano a fatica e, prima di allontanarsi troppo dal letto, ci si ributtò sopra a peso morto. Fissò il lampadario con aria assente e le mani le scivolarono sul fianco sinistro, così Siobhan Smythe sollevò la canotta del pigiama in raso che indossava, passando due dita delicate sul vistoso cerotto. Fece una smorfia, e si rialzò.
Aveva smesso di farle male, così avevano detto i medici. L'avevano aperta, tolto il proiettile, ricucita, così la pelle si era cicatrizzata e rinata sotto una nuova forma, stava bene. Andò in bagno, aprì il mobiletto sopra il lavello e prese una scatola di cerotti. Si alzò la canotta di nuovo e si staccò il cerotto vecchio, lasciando prendere aria alla cicatrice. Era pulita, neanche troppo grande, poteva andarle peggio. La ricoprì subito col nuovo cerotto. Odiava vederla. Aveva smesso di farle male, così avevano detto i medici, ma al diavolo i medici! Lo borbottò per sé, perché a lei quel segno ancora troppo rosso sulla pelle faceva male, faceva male eccome. «Mica ce l'hanno loro», continuò a borbottare. «Non sono loro a sentirlo, a essere stati sparati».
Ignorò i rumori dei camion che passavano sotto il suo appartamento e così anche il piccione che quotidianamente si adagiava sul davanzale di una finestra. Andò in cucina che era ancora scalza e in pigiama, aprendo il piccolo e ammaccato frigo. Era pieno: sua madre le aveva fatto la spesa giusto il giorno prima, ma non le andava di prepararsi qualcosa che afferrò la scatola del cibo cinese da asporto avanzato dalla notte e le bacchette, sedendo davanti alla tv. Mangiò in fretta e non guardò nulla, la lasciò spenta. Una volta finito, lasciò tutto sul tavolo e andò a cambiarsi di fretta. Scese le scale lentamente e aprì il portone dell'edificio guardando al traffico con occhi sgranati. C'erano molte, molte macchine. Molte, molte persone. Una coppia le passò davanti e si tirò indietro, prendendo grossi bocconi d'aria. Andava tutto bene. Chiuse il portone e ricercò le chiavi dell'auto in borsa.
«Buongiorno, signorina Smythe. Ha bisogno di aiuto?». Grembiule sporco di macchie nere, affacciato dalla porta sul retro, il ragazzo del ristorante cinese sotto casa era ancora più apprensivo da quando seppe della sparatoria alla CatCo.
Lei allungò una mano verso la sua direzione per fargli cenno negativo, camminando a tentoni nel viottolo. Lo sentì rientrare e si spaventò quando la porta sbatté, saltò quando passò un gatto e si mantenne contro un muro quando suonò un clacson. Andava tutto bene. Prese altri grossi e lenti respiri profondi, appiattendosi contro la parete. Si toccò là dove le avevano sparato e scivolò a terra, piegando le ginocchia. Altri respiri profondi. Gli occhi lucidi, le labbra secche tirate, i denti stretti. Le lacrime.

Ore prima…
L'alto cancello di villa Luthor-Danvers si aprì e Indigo mise via il cellulare in tasca, tirando meglio il cappuccio della felpa sulla testa e rientrando. Corse verso il portone, mentre il cielo si accendeva a nuovo giorno.
Il cellulare vibrò sul comodino e Kara si sporse dal letto per prenderlo, stropicciandosi un occhio appiccicato e sbadigliando. Si mise un poco seduta e pigiò sullo schermo, accigliandosi improvvisamente.
«Cos'è successo?», le domandò Lena con la voce impastata, al suo fianco, reggendosi con un gomito sul materasso. Sbadigliò subito anche lei, coprendosi con un palmo.
«Alex. È-È Alex… Faora Hui è morta», deglutì Kara, guardando grave l'altra che si portò una mano sul viso. «L'hanno uccisa questa notte».
«Hanno detto così? Sono stati i medici dell'ospedale o…?».
«No. Alex ha detto che è stata uccisa, non si sa ancora niente, al momento. Ha parlato con una dottoressa che si occupava di lei e dicono già che il suo corpo era provato, che si erano sbagliati a dichiararla fuori pericolo», prese fiato e rimise il cellulare sul comodino, rimettendo la testa sul cuscino mentre Lena l'avvolgeva con un braccio, baciandole una spalla. «Ma è chiaro che l'hanno uccisa, no? Loro. La polizia. Zod. Diranno che è stato per il colpo inferto da Alex, ma…».
«Alex è già stata scagionata, non la incolperanno di omicidio».
«Parlavo dei genitori di Faora. E Alex… Anche lei penserà che una parte di questo sia colpa sua».
Lena la baciò ancora, lasciandosi stringere a sua volta. «È a casa, adesso?».
«Ha detto che tornava a casa perché ha il turno in boutique questa mattina, ma… non lo so», sospirò.
Alex strinse i pugni e, appena lo vide arrivare dalla corsia davanti, decise di andargli incontro con rabbia. «È così che risolvete le cose?», urlò e la voce rimbombò nel silenzio del reparto. Spinse Adrian Zod appena lo ebbe sotto tiro e lui, con un gesto, fermò i poliziotti pronti a intervenire per allontanarla. «L'hai fatta ammazzare perché era un peso? Sei un bastardo, e un vigliacco», lo spinse ancora.
«La prego, agente Danvers», mormorò Zod.
«Cosa?», sputò di rabbia, «Mi prende per qualcuno che non sono? Sono diverso? La conoscevo e le volevo bene? Cosa?». Stava per colpirlo di nuovo, tenuta d'occhio dai poliziotti intorno, che si sentì tirare indietro. Maggie uscì dalla cuccetta di Faora Hui sentendola gridare e riuscì a spostarla grazie anche all'aiuto di Carina Carvex, l'agente D.A.O. che doveva fare da guardia e si trovava ancora lì dalla notte.
«Alex, Alex», Maggie le prese il viso e riuscì a farsi guardare, mentre scuoteva la testa. C'erano poliziotti, i medici che uscivano dagli altri reparti e restavano immobili, alcuni pazienti: tutti guardavano lei, e ascoltavano. «Fermati, vai a casa. Sei stanca, qui ci penso io».
«Ma ti senti?», bisbigliò, ingigantendo gli occhi. «Vuoi dargli corda? Ha ammazzato Faora così come avrà ucciso quella coppia, o pensi davvero che li abbia lasciati andare perché glielo hai detto tu?», strinse i denti, inspirando pesantemente.
Maggie scosse la testa e si riguardò intorno, mentre l'agente Carvex si metteva tra loro e Zod. Erano tornate insieme al box, non erano passate le quarantotto ore che l'uomo aveva descritto come il tempo di prenotazione, ma avevano trovato tutto pulito, nessuna traccia della loro presenza. Riguardò il suo capitano con la coda dell'occhio e poi di nuovo la compagna. «Guardati, renditi conto di dove sei. Vai a casa, ti prego. Ti prego», la supplicò e Alex abbassò gli occhi, portandosi una mano sulla fronte. La tenne d'occhio mentre si allontanava con l'agente Carvex e dopo lanciò uno sguardo a Zod, che ricambiò.
Appena arrivate dentro l'ascensore, Alex spinse Carina Carvex contro la parete, chiedendo spiegazioni.
«Non ho visto niente e non mi sono allontanata», sbottò lei in difesa. «Ero da sola e non potevo fidarmi dei poliziotti, per questo sono andata in bagno una volta sola». Alex si allontanò e sospirò, portandosi una mano in fronte e poi sui capelli. «Ma quando sono tornata, ho controllato e Faora Hui era ancora viva. Pensavo non sarebbe successo niente e speravo soltanto arrivasse in fretta la mattina per il cambio».
«Ci hanno giocato», soffiò Alex, arrendevole. «Avevo richiesto più uomini ma a nessuno importava».
«Non era importante quanto Rhea Gand», scrollò le spalle l'altra. I suoi occhi castani squadrarono Alex. «E Jonzz non ha avuto voce in capitolo, ci ho parlato anch'io. Credi che…?».
«No», Alex scosse la testa, puntando gli occhi al soffitto. «No, se qualcuno dell'organizzazione comandasse al D.A.O., avrebbero già sospeso l'indagine». Senza contare che se Maggie aveva ragione ed era lei il vero obiettivo di Zod, faceva tutto solo per arrivare a quell'indagine contro di lui. Forse era così. Era una possibilità… Diede un pugno contro la parete più vicina.
«Cosa ti turba, Danvers?», strinse le labbra, seria. «Faora Hui non era una tua responsabilità».
«Lo so, è che…», si appoggiò spalle alla parete appena colpita, sospirando. La guardò, prima di decidere di confidarsi. Conosceva Carvex da quando era entrata al D.A.O., una sola settimana dopo di lei; avevano parlato spesso, erano spesso nella stessa squadra, poteva dire di conoscerla abbastanza. Ma fidarsi? «Sento che stiamo perdendo e loro vincendo. Ho accettato il lavoro per proteggere mia sorella e dare la caccia a persone che si nascondevano nell'ombra e adesso che non si nascondo più e stanno contrattaccando», puntò in alto gli occhi lucidi, visibilmente provata, «sento che non riesco a starci dietro. E Maggie, ciò che sta facendo… Mi preoccupa, Carina. Non è che non voglia credere in lei, ma lui le entra nella testa, lo so, lo vedo…». L'altra annuì, sospirando e mettendo le braccia a conserte. «Va tutto male…», proseguì Alex. «Ogni cosa che faccio va male. I dati lasciati dai terroristi di Rhea negli uffici pubblici non portano a niente di concreto e i collegamenti a Zod sembrano forzati, altre chiavette non si trovano e… Non sono nemmeno riuscita ad ottenere il nome di una persona che… oh, lascia perdere», si asciugò gli occhi con le dita, ripensando al garante di Indigo che restava una figura ignota poiché il direttore di Fort Rozz, infastidito dalla sua visita, aveva richiesto un mandato che non avrebbe potuto avere. Si sentiva davvero con le spalle al muro.
«Alex», la chiamò per nome, poggiandole una mano su una spalla. «Ti aiuto io con quei dati, va bene? All'università ero brava, in questo genere di cose. Posso dare una mano. Ma tu non vorrai lasciarti andare, vero? Perché è l'ultima cosa che ci serve».
«Sì», sorrise all'improvviso, «Hai ragione».
«Lo so che ho ragione», rise e contagiò anche l'altra, mentre si aprivano le porte dell'ascensore.
Tornò a casa e diede le disposizioni alla babysitter, controllando che Jamie ancora dormisse. Accidenti. Tutto andava male ma, pensò, guardando la piccola che stringeva i pugnetti mentre bofonchiava nel sonno, non si sarebbe arresa. Quello mai. Iniziò a cambiarsi per andare in boutique, pensando per l'ennesima volta che avrebbe dovuto rinunciare a quel lavoro, che lesse i messaggi di Kara in cui le chiedeva se si sarebbero potute vedere quel pomeriggio. Ansimò. Sapeva che sua sorella avrebbe voluto tirarle su il morale dopo ciò che era successo a Faora, ma non si sentiva pronta ad affrontarla, non era il caso: non voleva che Kara leggesse il fallimento che provava dai suoi occhi. Le disse di dover lavorare dopo aver lasciato la boutique che, appena prima di mettere via il cellulare, le capitarono sott'occhio i primi articoli online che parlavano di Astra Inze e della sua possibile scarcerazione: spuntavano i primi nomi di chi la vorrebbe di nuovo in servizio, dichiarando che aveva già pagato abbastanza per reati non commessi. E anche su quello, sembrava proprio che stessero vincendo…
Anche Kara ne lesse uno e poi sbuffò, mettendo via il telefono sul bancone della cucina. Non voleva pensarci, non voleva pensarci proprio e prese una padellina. Bene. Ora toccava a lei: guardò il piano di cottura, poi la padellina, decidendo di aprire pensili a caso fino a trovare gli ingredienti necessari per i pancake. Aveva tutto, adesso, ma… come si accendeva? La fiamma non ci sarebbe stata su questa cosa? Non ne aveva mai usata una fatta in quel modo.
Le braccia nude di Lena si infilarono sotto le sue e l'abbracciò, facendola sorridere. «Stai preparando la colazione?».
«Diciamo che l'idea era quella, ma…».
«È a induzione», rise, staccandosi, «Lasciami fare, ti faccio vedere».
Oh, non sembrava difficile. Ancora in canotta e pantaloncini Kara, in camicia da notte Lena, si appoggiarono contro il bancone e si baciarono in un abbraccio, prendendo del tempo per guardarsi e sorridersi finché non notarono che il pancake stava bruciando. Lena rise e scosse la testa, iniziando ad apparecchiare per la colazione e pensando che avrebbe dovuto svegliare Indigo in modo che mangiasse con loro. Solitamente si svegliava presto, era strano che non fosse ancora uscita dalla camera degli ospiti che le aveva affidato. Oh, ma c'erano i giornali sul bancone, forse era già in piedi e non si erano incrociate. Sarebbe stato meglio andarsi a cambiare, allora. Ne prese uno e lesse un trafiletto, con soddisfazione.
«Ehi, tesoro», la chiamò, facendola voltare, «È iniziato».
Bruce Wayne e Lena Luthor: nuovo appuntamento in vista? Kara fece una smorfia, leggendo il titolo. «Bruce Wayne ha sparso la voce, quindi… lo facciamo davvero?».
«Uh, non essere gelosa del mio finto appuntamento», si avvicinò il tanto per baciarla, rapida. «Portiamo allo scoperto chi cerca di ucciderlo, niente di che», rise.
«Niente di che? Ma sentila. Ci stai prendendo gusto, per caso? Nelle situazioni pericolose?», scrollò le spalle e la vide farle una smorfia con le labbra, così Kara pigiò il pulsante sulla piastra per spegnere e sollevò velocemente Lena, di sorpresa, facendola sedere sul mobile della cucina accanto al piano cottura.
«Oh. Ma buongiorno», sorrise e Kara ricambiò.
«Buongiorno», la baciò a fior di labbra, continuando a sorridersi.
«È stasera che devi andare alla festa di Siobhan Smythe?».
Kara annuì. «Da domani l'avrò di nuovo tra i piedi alla CatCo. Perché?». La vide piegare le labbra e guardare altrove, mormorando un verso.
«Ma nulla, sai, rientrerai tardi… Le giornate si fanno sempre più piccole…».
«Pensavo di andare a dormire al campus, se mi lasciano entrare».
«Ah».
«Per non disturbarti e lasciarti dormire», finì la frase con una risata, vedendo l'espressione imbronciata di Lena. «Ma non sembri d'accordo, okay, devo tornare qui?».
La ragazza sorrise, stringendo le braccia intorno alle sue spalle e baciandola di nuovo. «Non posso pensare che non ti avrò questa notte…», le sussurrò, guardandola negli occhi.
«Puoi avermi adesso o», arrossì, «quando vuoi. Per fortuna quella Indigo dorme ancora. Non svegliamola, restiamo così fino al momento di uscire».
L'altra strabuzzò lo sguardo, allontanandosi dal suo viso. «Non è già in piedi?».
«No. Dormiva nella sua nuova cameretta quando sono passata per scendere le scale, ho aperto la porta».
«E allora chi ha portato dentro i giornali?».
Entrambe si voltarono e provarono un brivido di freddo. Occhi spalancati, faccia bordeaux, una mano che stringeva un annaffiatoio: la giardiniera Ingrid veniva ogni due giorni per annaffiare le piante e, com'era prevedibile, se n'erano completamente dimenticate.

Non voleva pensare a sua zia, non voleva proprio. Controllò i libri che aveva tra le braccia, proseguendo per il corridoio. Non voleva pensare a sua zia, ma forse tutti gli altri lo facevano: a ogni passo, sembrava che i colleghi alla Sunrise la seguissero con i loro sguardi ora più che mai. Non era la sua immaginazione, nemmeno si sforzavano di distogliere l'attenzione quando si girava a guardarli. Ricontrollò i suoi libri e, quando sollevò la testa, sobbalzò, portandosi indietro. «Megs? Potevi farmi venire un infarto». Megan era apparsa all'improvviso, ma il suo sguardo attento su di lei sembrava nascondere altro rispetto al resto dell'istituto. Non fosse per il sorrisetto sulle labbra.
«Dunque tutto bene, eh?».
«Tutto bene cosa?».
Iniziarono a camminare, scendendo le scale. Megan non rispose subito, ma continuò a fissarla e Kara arrossì. «Dunque tu e e-emh- Lena…», si lasciò andare a un finto colpo di tosse, «vi appartate di nuovo?».
«C-Che cosa vuoi di-».
«Ehi, almeno una delle due fa sess-».
«Shh», Kara si voltò e rivoltò indietro, facendole segno di tacere, «Abbassa quella voce. È così evidente?». Tutti la seguivano con lo sguardo, mancava poco che ascoltassero le sue conversazioni.
«Ragazza, hai il sorrisetto da beatitudine e non resti a dormire al campus da quando sei tornata da Star City. Non ci vuole molto a fare due più due». Risero un poco e Kara arrossì di nuovo.
«Non hai fatto ancora pace con il tuo e-emh- tipo?». Arrivate al piano terra tutti si voltarono nella loro direzione e Megan pensò di alzare le braccia per intimidirli neanche fossero dei passerotti. Però funzionò.
«Se con pace», ridacchiò, scrollando gli occhi, «intendi che abbia ripreso a dargliela, allora no. Ogni tanto parliamo, non come prima, ma… non lo so, voglio farlo soffrire, credo», la guardò negli occhi e Kara aggrottò la fronte. «Non soffrire soffrire, è chiaro, lo amo anche se mi ha mentito… Vorrei solo che capisse che ha sbagliato, non mi pare di chiedere troppo».
Si fermarono quando scorsero proprio John Jonzz, attraverso una finestra, che si allontanava dallo stabile con uno scatolone tra le braccia. Corsero fuori e lo bloccarono, sbalordite. Non potevano crederci che…
«Ho perso il mio incarico come coach», forzò un sorriso, i suoi occhi malinconici raccontavano meglio di lui cosa stava succedendo. «Lo sceriffo vuole che mi dedichi a tempo pieno all'indagine sull'organizzazione, ma in ogni caso era questione di tempo», guardò Kara, «Ero qui per tenere d'occhio te e, adesso che Rhea Gand è agli arresti, la mia presenza non serve». Sorrise a una e poi all'altra, abbassando gli occhi solo un momento.
«Ma non puoi andartene», Megan scosse la testa pian piano, visibilmente delusa. Lo guardò negli occhi e lui le regalò un lungo sorriso, per poi annuire.
«Ve la caverete, il nuovo coach arriverà presto. Tenete a mente ciò che vi ho insegnato».
«Non parlo del lacrosse».
John aprì la bocca ma non disse nulla, per poi sospirare. «Credete nelle vostre capacità e nel gioco di squadra», proseguì e Megan scosse la testa, guardando dopo Kara al suo fianco. «Supergirl», lui la chiamò. «Occhi sempre ben aperti: anche se lei è fuori dai giochi, il resto della squadra non accetterà sconfitte e tu non devi perdere la calma. Una nuova giocatrice tornerà presto in campo e ti metterà a dura prova». Kara si accigliò, mentre l'uomo si rivolgeva a Megan. «Miss Martian! Andrò dai verdi per il fine settimana, se… se ti andasse di fare quattro chiacchiere, sai dove puoi trovarmi». Sorrise di nuovo a entrambe e si allontanò, sollevando la scatola con le sue cose.
«Verdi?», domandò Kara, «Parlate in codice, adesso?».
Megan abbozzò una risata, tenendo d'occhio l'uomo che raggiungeva il cancello del Sunrise. «È una lunga storia. E tu? Parlava dell'organizzazione, non è vero?».
«Di mia zia», sospirò. «Parlava di mia zia».
Non voleva pensare a sua zia, ma tutto non faceva che vertere di nuovo a lei. E forse non poteva scappare da questa cosa come avrebbe voluto, dopotutto. Chiudere gli occhi, pensare ad altro e girarsi dall'altra parte, non avrebbe fatto sparire il suo problema. Avrebbe voluto solo perdersi in Lena e pensare a come costruire una relazione con lei nel loro strambo ambiente familiare, studiare e farsi assumere alla CatCo, uscire la sera ogni tanto, giocare a lacrosse e vincere il campionato. Avrebbe voluto pensare a come costruirsi una vita felice adesso che Rhea Gand era in prigione, ma la morte di Faora Hui e l'uscita imminente da Fort Rozz di sua zia erano qualcosa di troppo grande per essere ignorato. La verità era che aveva paura di scoprire, rivedendo Astra, quanto nonostante tutto le volesse bene. Voleva essere arrabbiata con lei, ma la sola idea di poterla toccare le scombussolava lo stomaco. Accidenti. Forse non poteva ignorare tutto troppo a lungo, ma poteva provarci fino allo stremo. Dopotutto, le veniva bene poiché la sua distrazione rendeva il mondo più giusto.
Da Vaniglia a Me
Questa notte ordiniamo italiano? Se proprio insiste, potrà mangiare con noi anche Indigo.
Lena sorrise, spegnendo il monitor del cellulare e lasciandolo sul banco. Le ragazze a cui faceva da tutor accanto a lei sorrisero a loro volta, scambiandosi uno sguardo malizioso. Lena non se lo lasciò sfuggire. «Su, non lasciatevi distrarre», commentò svelta, riprendendo tra le mani il tomo che aveva lasciato sulle gambe. Le tenne d'occhio: una riga scritta sui loro bloc notes e una nuova occhiata, riprendendo a sogghignare. «E va bene. Cos'è successo di tanto importante da non poter andare avanti?».
Le ragazze erano esitanti, adesso. Ma una di loro si fece coraggio, iniziando a parlare senza guardarla negli occhi troppo tempo: «Gira una voce, signorina Luthor», scambiò rapida uno sguardo con l'amica a fianco. «Gira voce che lei sia la fidanzata nascosta di Bruce Wayne, il più ricco di Gotham».
Ah. Lena aprì la bocca, ma non fece in tempo a dir nulla che ripresero a parlare, svelte:
«È carino? Da vicino? Mia cugina dice che è il suo tipo», ridacchiò la seconda.
«Quindi è vero che lei è la sua fidanzata nascosta? Era suo il messaggio?», chiese la prima.
«Mia cugina dice che anche lei è il suo tipo, però», ridacchiò di nuovo la seconda.
«Anche io vorrei un fidanzato nascosto», si perse nei pensieri la prima, «Meglio ancora se ricco, ovvio».
«Ragazze, ragazze», le fermò, prima che potessero riprendere a viaggiare con la fantasia. Non erano mai state così disinvolte, prima d'ora. «Bruce Wayne ed io siamo solo amici. Mi duole deludervi, ma la voce che gira è solo questo: una voce». La guardarono con sconfitta, ma fortunatamente pian piano riuscì a farle riprendere un minimo di concentrazione. Si domandava cosa ne avrebbero pensato quando avrebbero scoperto che era gay e la sua fidanzata nascosta una ragazza. Fidanzata nascosta. Almeno una cosa la voce che girava l'aveva azzeccata: era impegnata, ma solo di nascosto. Se ci riuscivano. E andava bene così, ora come ora.
Le tenne d'occhio fino a quando non lasciarono la biblioteca, salutandole un'ultima volta. Almeno avrebbe avuto un po' di tempo per se stessa. Si accomodò su un divanetto vicino a una finestra a prese il cellulare, rispondendo a Kara. C'era anche un messaggio di Indigo che le chiedeva quando sarebbe tornata a casa. Oh, le sembrava di avere non solo una fidanzata nascosta, ma anche una figlia nascosta a carico. E quella? Una chiamata persa di Lillian, non ci voleva… E se la chiamava da Aruba doveva essere importante. Sperava solo che non fosse per sapere di Faora Hui perché non avrebbe proprio saputo cosa dirle. Partì una nuova chiamata e Lena sbuffò.
«Finalmente ti sei decisa a rispondermi, Lena», sentì dall'altra parte, sopra un fruscio fastidioso.
«Non puoi richiamare più tardi? Sono molto occupat-».
«So di te e Kara».
Lena si zittì, mordendosi il labbro inferiore. «… Ingrid?».
«Ma figurati, le lascio lo stipendio all'ingresso per non dover parlare con me», la sentì sospirare ed era come vederla. «Gloria Harris. Mi ha chiamata Gloria Harris».
Lena spalancò gli occhi. «… la padrona di Proiettile?».
«È andata a ritirare un capo su misura da Felipe e lui si è lasciato sfuggire il gossip. Lo ha saputo da Marielle». Lena si portò una mano contro la bocca, ascoltando sua madre che sembrava esasperata. «Naturalmente è stata Ingrid a dirlo a Marielle questa mattina. Così ho dovuto prima convincere Gloria Harris che Felipe ha capito male. Ho dovuto minacciare Felipe che avrei distrutto la sua carriera se avesse messo in giro quella menzogna. Ho chiamato Marielle e ha pianto, giurandomi che non lo avrebbe detto a nessuno. E infine ho dovuto telefonare Ingrid, che ho intuito essere ancora in linea e non svenuta solamente dai sospiri pesanti di paura».
Lena abbozzò una risata, trattenendosi. «Ingrid lo ha detto a Marielle che lo ha detto a Felipe che lo ha detto a Gloria Harris? Lei lo avrà detto al cane. Lo ululeranno per tutto il vicinato», rise di nuovo, tappandosi un poco di più la bocca.
«Non è divertente, Lena. Non è il momento per fare di spirito, mi sembra. Sono certa che potete evitare di dare spettacolo come animali in calore di fronte al personale».
«Come sei premuro-».
«Inutile dire come me lo aspettassi».
«E il viaggio di nozze come sta andan-».
«Evitate almeno di fare certe cose in cucina».
«Eliza come st-».
«Il bancone è fatto per cucinare, Lena».
«C'è vento o sei davanti al condizio-».
«Voglio sperare che non abbiate fatto sesso in cucina».
«Che bei discorsi madre-fi-».
«Sono molto preoccupata per le condizioni igieniche di quella cucina, Lena».
«Discorso davvero edificante, lo terrò a men-».
«Se proprio volete fare sesso, non comportatevi come conigli e aspettate di essere in luoghi più consoni allo scopo».
«Devo andar-».
«Il letto, Lena. Il letto», proseguì imperterrita. «Non quello in camera di Kara, che ci ha dormito zio Leo in tempo di guerra. Il tuo letto, se proprio…».
«Davvero. Devo andare».
Lillian sospirò, sopra a tutto quel fruscio. «Devo solamente sperare che Gloria Harris, come mi ha giurato, non lo abbia detto a nessuno e non parlo del suo dannato cane», aggiunse velocemente. Sembrava davvero così preoccupata.
Lena scosse la testa. «Tu lo sai che questa resta una cosa temporanea e che un giorno, si spera non troppo lontano, Kara ed io usciremo allo scoperto come coppia, vero?». Finalmente, sua madre non le parlò sopra e, anzi, non disse più una parola. «Apprezzo il silenzio», sorrise. Dopo poco staccò la chiamata. Sapeva che Lillian avrebbe dovuto pensarci su prima di avere una risposta seria da darle. Sperava ne avrebbe parlato con Eliza, se non altro.
Da Me a Vaniglia
Mi spiace: mia madre sa.
Inviò e si sistemò meglio sul divanetto, appoggiando la testa stanca. Lanciò uno sguardo alla borsa che aveva sistemato vicino e sospirò pesantemente, chiudendo gli occhi. Non sapeva come dirglielo. E doveva farlo. Doveva farlo presto. Proprio perché volevano essere una coppia seria, e un giorno fidanzarsi ufficialmente, non poteva nasconderle della pistola di suo padre che portava con sé. Secondo ciò che le aveva detto Alex il pomeriggio prima, si aspettava di dover litigare con lei e questo le metteva ansia.
«È per un discorso generale sulle armi o non vorrebbe che io fossi armata?», aveva domandato alla ragazza che, intanto, aveva colto l'occasione per scambiarsi velocemente uno sguardo con Maggie, vicino. Erano andate al poligono e avevano aiutato Lena a impugnare la pistola e a sparare. Le avevano dato il porto d'armi in fretta in modi non proprio legali, dopotutto, e non aveva avuto modo di imparare col giusto tempo.
«Kara preferisce sistemare le cose in altro modo, non le piacciono le armi. Potrebbe non prenderla affatto bene», le aveva detto sinceramente. «Ti direi di spiegarglielo in modo che capisca come ti senti».
Lei aveva arcuato un sopracciglio e scosso appena la testa. «Come mi sento?», domandò, non certa di aver intesto cosa intendesse.
«Come ti senti dall'attacco terroristico di Rhea».
Dall'attacco terroristico? Lei pensava che- No. Insomma, non aveva paura. Se chiudeva gli occhi, non rivedeva nessuno che cercava di ucciderla. Stava bene. Lei e James Olsen avevano corso e un proiettile era passato vicino alle loro teste, ma ce l'avevano fatta. Quando era entrata all'interno dell'ufficio di suo padre, il suo assistente Winn era riverso sul pavimento, aveva immesso la password in un cassetto della scrivania, impugnato la pistola ed era corsa fuori perché James stava lottando contro due di loro. Due di quei terroristi coi passamontagna. Quando era uscita, uno di loro era a volto scoperto. Rivide il suo volto fra quelli delle persone arrestate. Lena aveva seguito quasi ogni processo, alcuni dei quali accanto a Kara. Ma stava bene. Come la faceva sentire? Non aveva paura, ma era vero che si sentiva più sicura con la pistola vicino. Con la pistola puntata si erano fermati. Ma non per questo aveva paura, era solo per sicurezza e impugnare la pistola le infondeva quella sicurezza. Nessuno la rincorreva quando- Riaprì gli occhi di scatto e prese un grosso respiro. Si guardò intorno e dopo la borsa. Non aveva paura adesso, ma non voleva rischiare di averne mai più.

Maggie guardò Charlie Kweskill con la coda dell'occhio, seduto sul sedile del passeggero mentre lei guidava. Si erano appena rimessi in strada dopo aver controllato due attività di nuova apertura e lui, solitamente molto loquace, quasi non aveva emesso fiato. Quanto bene conosceva Faora? Il ragazzo era rimasto con lei come aveva potuto ma non ieri notte, pensò. Maggie sospirò e girò il volante, tenendolo ancora una volta d'occhio. «Abbiamo qualche minuto di pausa, ti va un burrito? Conosco un posticino non lontano che fa al caso nostro». Notò come si fosse sforzato per sorriderle e annuire. Parcheggiò vicino ad altre auto e si sedettero sugli sgabelli di un bancone davanti al chiosco che, nell'insegna, aveva un grande burrito in verticale con tanto di scarpe e braccia che, sorridente, assaggiava un altro burrito più piccolo. Si sarebbe aspettata qualche battuta di Charlie su come il disegno sembrasse sdoganare il cannibalismo, invece restò zitto, forse nemmeno lo notò. Ordinarono e Maggie scambiò qualche battuta con l'anziano proprietario, prima di dedicarsi di nuovo a lui: decise di sorridergli, sperando si confidasse. «Offro io», disse, inclinando la testa da un lato.
Lui si accigliò. «Mi vedi messo così male?».
Maggie sorrise di nuovo. «Avevi una storia con lei? Con Faora?».
Charlie ingigantì gli occhi, diventando paonazzo. «No, certo che no! Faora era come una sorella, per tutti i burrito. Ho altri gusti», rise, per poi addentare con foga il suo burrito e ringraziarla mormorando con la bocca piena.
«Condoglianze». Lui si limitò a un cenno e Maggie sospirò appena, nascondendo la bocca dietro il burrito. «Dev'essere difficile. Proprio quando non c'eri per il turno di notte», scosse la testa, «Cos'è successo, a proposito? Mi sarei aspettata di trovarti in ospedale quando sono arrivata questa mattina». Un morso e guardò la sua espressione. Oh, era così triste. In lutto, non c'erano dubbi.
«Beh… non- Non voglio parlarne», azzardò una risata soffocata dall'aria terribilmente triste che attraversò il suo sguardo. D'un tratto gli occhi lucidi. «È ancora presto, capisci? E-Era come mia sorella e adesso… e adesso è troppo presto».
Il tempo di finire il burrito, bere dei sorsi d'acqua, pagare e rimettersi in auto che Maggie decise di non mollare la presa: si dispiacque per lui, era un bravo ragazzo, ma l'organizzazione in cui stava aveva ucciso quella sorella che amava e doveva rendersene conto. Non mise in moto e si voltò verso Charlie che, in fondo, aspettava di risentirla, tenendo la testa bassa. «È stato lui, lo so», bisbigliò e il ragazzo la guardò negli occhi, sorpreso. «È per forza stato lui, ha mandato qualcuno a ucciderla ma tu non eri d'accordo, vero? Per questo ti ha costretto restare a casa, stanotte?».
«No», scosse la testa, increspando la fronte, «No, no, no! Sono rimasto a casa perché volevo dormire dato che avevamo il turno stamattina. Lui chi? Chi intendi?».
«Zod»: Maggie non si trattenne di certo. «È stato lui ad aver spostato il turno a stamattina, così sapeva saresti rimasto a casa a riposare! Tu non eri d'accordo con lui, vero?».
Charlie si portò le mani sulla fronte all'improvviso e gettò all'indietro la testa, appoggiandosi con sconfitta sul sedile. «No che non ero d'accordo! Non me lo hanno detto, okay? Non ne sapevo niente». Maggie lo fissò attonita e lui diede un calcio in avanti con frustrazione. «Ma il Generale non voleva», scosse la testa, «Non dipendeva da lui; non ogni cosa che succede dipende da lui».
«Lo stai difendendo? Charlie? Faora è morta e-».
Lui la interruppe, brusco: «E non è colpa sua», ringhiò. «Smettila! Non dire queste cose, non le dire! Ancora non sei una di noi, non sai come funzionano le cose. Faora non doveva affidarsi a Rhea Gand e sai cosa? Se lo aspettava. Me lo ha detto. Ma non abbiamo potuto farci niente», scosse la testa. «Il Generale voleva bene a Faora; non lo conosci e non conoscevi lei. E adesso andiamocene, per favore».
Maggie girò la chiave nel quadro e si allontanarono dal chiosco. Lui era a pezzi. Era chiaro come Charlie Kweskill stesse soffrendo e cercasse goffamente di trovare giustificazioni a ciò che era successo. Aveva trovato il punto debole su cui spingere per portare il ragazzo dalla sua parte, ma era incredibile il suo attaccamento a Zod e pensò a lungo, durante il loro giro, a come spezzare quel legame. Se voleva riuscire nella sua missione, doveva far soffrire Charlie, per quanto brutto fosse anche solo il pensiero di doverlo fare. Ma era lavoro, no? Si chiese, guardando lui con la coda dell'occhio mentre scuoteva la testa e si riportava una mano sulla fronte. Era solo lavoro.
Lavoro. Alex allungò lo sguardo verso una cliente e assottigliò gli occhi. «Signorina? Signorina, può accarezzare il pellicciotto a casa con tutta calma, se lo vuole. È in sconto come tutto l'abbigliamento invernale. Non deve-». Oh, la cliente la guardò male e si allontanò, nascondendosi dietro le stampelle di una corsia. Accidenti. Che avesse perso il suo tocco? Forse non aveva più pazienza per stare dietro a tutto, pensò esasperata. O forse perché ormai le andava male qualsiasi cosa e il suo lavoro in boutique non faceva eccezione. Ecco: la cliente sgusciò via dalla porta principale quando non stava guardando. «Buona giornata anche a lei, eh», sbottò. Si accomodò sulla sedia girevole e sbadigliò; ripensò a Faora Hui un momento, solo un momento, rivedendo quello in cui le aveva sparato salvando Kara. Il suo cellulare vibrò, distogliendola da quel pensiero. Oh, la segretaria di Max Lord: una delle chiamate che più aspettava, finalmente. Forse qualcosa stava ricominciando a girare per il verso giusto. «Si è liberato un posto in agenda? Ma non mi dica», rispose sarcastica. «No, no, non me lo passi, non me lo- Ehi», forzò un sorriso e si portò un ciuffo di capelli rossi dietro un orecchio d'istinto, non poteva vederla. «La tua segretaria mi stava dicendo- Sì, sì, va bene. Oh, se spargessi la voce ai dipendenti sulla pennina usb te ne sarei grata. Sì, sono in difficoltà… Non così in difficoltà, non ti allargare», sussurrò a denti stretti, grattandosi sopra un occhio, «Ricorda che sono impegnata, già. E gay, già», ascoltò e gonfiò le guance proprio in direzione di una coppia appena entrata in boutique. Arcuò le sopracciglia e scosse una mano perché capissero che la scocciatura non era rivolta a loro, aggiungendo anche un dito verso l'apparecchio, ma loro dovevano aver capito l'esatto opposto e tornarono sui propri passi, uscendo. Sbuffò. «No, non mi stai annoiando: due clienti hanno frainteso», serrò le labbra, «Lascia perdere. Allora… sì, ci vediamo presto». Chiuse la chiamata che lui la stava ancora salutando.
«Signorina, quanto viene questo?».
Alex si girò brusca. «Che, non lo sa leggere il cartellino?». Oh, fantastico, si era giocata un'altra cliente: la donnina abbassò la testa, mise su una smorfia e tornò indietro; pian piano, Alex la seguì con lo sguardo mentre si avvicinava sempre più alla porta fino a uscire. Forse doveva considerare l'idea di non essere più tagliata per quel lavoro. Anzi, di non esserlo mai stata. Le sembrava di essere diventata Kara. Sbuffò e riprese il telefono: probabilmente doveva accettare quella chiacchierata con sua sorella, dopotutto. Strinse gli occhi e compose un numero, appoggiandosi al banco con un gomito. «Lena. Ehi, senti… non ho il numero di Indigo, se puoi recapitarle un messaggio per me… Lei è brava e un aiuto mi servirebbe. Se potessi prelevarla questo pomeriggio, così posso farle anche qualche domanda», giocò a piegarsi le labbra con le dita, nervosa, fissando un punto vacuo del negozio. Non che ci fosse qualcosa di male in Carina Carvex che le aveva proposto il suo aiuto ma, non sapeva bene perché, il suo istinto le diceva che prima avrebbe fatto meglio a cercare di arrangiarsi per conto proprio. Forse Indigo poteva arrivare dove loro non arrivavano. Forse, non che non si fidasse di Carina Carvex, ma se c'era davvero un infiltrato al D.A.O. era meglio aspettare. «Ah, sì, di' a Kara che sono molto impegnata e adesso che Faora… voglio dare il massimo. La chiamerò questa sera sul tardi! Quindi siete tornate insieme?», aggrottò la fronte. «No, beh, mi pare di capire… Stai facendo le veci del suo avvocato. No, no, dicevo così per- Va bene, devo andare, passo a prendere Indigo alla fine del turno in boutique. Saluta Kara». Sbuffò a chiamata conclusa, scoprendo un cliente a fissarla, davanti al banco. «Scusi, diceva?».
«Ancora niente, ma vorrei pagare. Da quasi cinque minuti».
«Oh, sì». No, non era tagliata per quel lavoro.

Indigo sembrò riluttante ad andare con Alex, all'inizio. Guardava il suo cellulare ancora più in continuazione, come sperasse in un permesso scritto, ma alla fine si convinse a sedere con lei in macchina, intanto che Lena le salutava dalla porta. Quest'ultima notò come si comportasse ancora più stranamente da quando lasciarono Star City, ma immaginò dovesse essere perché adesso che lei e Kara erano tornate insieme, considerava l'idea di non avere più speranze. Che fosse per quello o no, era davvero strana. Chiuse la porta e guardò l'ora: presto sarebbe arrivata Kara per studiare insieme, glielo aveva promesso.
Da Me a X
Alex Danvers vuole che l'aiuti con alcuni dati che i terroristi di Gand hanno lasciato in giro. Cosa devo fare a riguardo, angelo custode?
Da X a Me
Puoi procedere. Aiutala, ma avvertimi su ogni cosa nel dettaglio e mi raccomando, Indigo, stai attenta a ciò che fai o dici: è in gamba.
Alzò la testa dal cellulare e sbirciò sul sedile davanti Alex che guidava. «Finalmente quella chiacchierata promessa, eh?».
Alex la guardò dallo specchietto. «Fai un buon lavoro e potrei mettere una buona parola per te».
«Quale onore», ingigantì gli occhi.
L'altra non disse più nulla. In realtà, pensava davvero che abbassarsi a chiedere aiuto a quella ragazza era la riprova del suo sentirsi alle strette. E se Indigo facesse parte dell'organizzazione? O il suo garante e fosse ancora in contatto con lui? Proprio adesso le venivano in mente quei pensieri terribili? Era tardi e il suo aiuto sarebbe stato davvero utile… Avrebbe dovuto farle fare un test, forse. Ma prima le domande. «Dove hai detto che ti teneva rinchiusa il tuo garante? Hai detto che eri rinchiusa e sei scappata, giusto?». Guardò la strada e lei, la strada e di nuovo lei. Non se lo aspettava e stava tergiversando, pessimo segno.
«Oh, in un… vecchio magazzino. Sembrava un garage, puzzava».
«Di cosa?».
«Eh?».
«Di cosa puzzava?».
Indigo scrollò le spalle, guardando fuori dal finestrino. «Di vernice».
«E dov'era? Possiamo andare a darci un'occhiata, per capire se troviamo indizi sul tuo garante misterioso».
«No, senti…», guardò in avanti, sporgendosi, tirando la cintura di sicurezza. «Ho già spiegato a Lena-».
«E io voglio che lo ripeti». Indigo sembrò scocciata e Alex assottigliò gli occhi.
«Come ho già spiegato a Lena», rimarcò, «sono scappata senza guardarmi indietro. Non ricordo dove diavolo ero, solo che mi trovavo nei dintorni delle vecchie palazzine, dove abitavo da bambina. Ho dovuto manomettere una centralina e sono uscita da una serranda».
«Quindi non ricordi dov'eri, ma ricordi che eri nei dintorni delle vecchie palazzine?».
«Sì. Lo so che non mi credi, lo leggo dalla tua faccia, sorella poliziotta, ma è così. Sono scappata di corsa e quando mi sono fermata ho notato di conoscere alcune strade: ecco perché le palazzine», sorrise e riguardò fuori.
Non un sussulto: analizzò Alex. Dopo un primo impatto disorientato, parlò con una naturalezza sfacciata e Alex non era certa fosse la verità, quasi come se dire bugie e la verità fossero in fondo la stessa cosa, per lei.
Da Me a X
Non crede a una parola di quello che dico, ma vorrà che l'aiuti lo stesso perché è stressata. Sicuramente non dorme bene, ha le borse sotto gli occhi. Questa indagine contro l'organizzazione la sta consumando.
Da X a Me
Tieni per te le tue supposizioni e fa' il tuo lavoro. Non ti ho fatto uscire di prigione per leggere le tue teorie. Non farmi ripetere, Indigo.
Lei alzò gli occhi dal telefono e gonfiò le guance, seccata. Non è divertente lavorare per te scrisse velocemente, ma si trattenne dall'inviarlo.
«Scrivi a lui?», aspettò che la guardasse, «Al tuo garante?».
«Giocavo. La nostra discussione era morta, e così…».
Veloce, pensò. Indigo aveva la risposta pronta.
La portò a casa sua, dove era riuscita a portare una buona parte del lavoro. C'erano le chiavette recuperate dagli attacchi agli uffici pubblici e alcune cartelle gialle, tra cui quella che volevano lasciare alla CatCo. Aveva dovuto contrattare con Cat Grant per averla, offrendole alcuni dettagli non troppo specifici da poter divulgare. Avrebbe comunque preso quella cartella, lo diceva la legge, ma aveva avuto paura dello sguardo minaccioso della donna. «Abbiamo interrogato Rhea Gand su questa roba, ma come è ovvio non ha detto una parola», scrollò le spalle, avvicinandosi al tavolo con esasperazione. «Abbiamo interrogato i terroristi uno per uno e la solfa si è ripetuta. E lì dentro non c'è nulla di confermabile».
«Beh, se non c'è lo scoprirò presto. Mi pare di capire di essere qui apposta, sorella poliziotta».
Alex annuì, prendendo una chiavetta in particolare dal tavolo e mostrandogliela. «Prima questa», le sorrise, «È pieno di dati sul capitano della polizia, ma nulla che lo incastri».
«Ci penso io. Passami un computer».
Alex la tenne d'occhio quando Indigo le strappò le chiavetta dalla mano per andarsi a sedere: era una delle sue pennine personali, ci aveva raccolto vario materiale su Zod e lo teneva aggiornato costantemente. Ma conteneva anche file compilati da lei e Maggie su vecchie supposizioni, ormai superate, e dati obsoleti che ancora non si era presa la briga di cancellare. Il tempo di mettersi a lavoro che suonarono il campanello.
«La tua tipa?».
«Ha le chiavi», rispose, alzandosi dalla sedia. Impugnò la pistola lasciata sulla fondina appesa sulla spalliera e si avvicinò cautamente, allungandosi per osservare dallo spioncino. Sospirò e la mise via appoggiandola su un mobiletto, aprendo la porta. «Carina! Cosa fai qui?».
Carina Carvex mise su una smorfia con la bocca, alzando le spalle. «Passavo di qui e ho pensato che magari avremmo potuto lavorare a quei dati insieme, se non hai altro da fare», sorrise. «Sei con la fidanzata? Ho interrotto qualcosa?», due passi e guardò dentro, inquadrando la ragazza che, senza battere ciglio, trafficava davanti a un monitor. Guardò la bionda e poi Alex, tornando indietro. «Oh, vedo, occupata lo sei di sicuro. Credo che toglierò il disturbo», ridacchiò e l'altra contrasse le sopracciglia, seguendola fuori.
«Ehi, Carina! Credo ci sia un malinteso, quella…», indicò verso la porta e l'altra agente rise, incurvando la schiena.
«Non lo dirò mica a Maggie Sawyer», sorrise. «Non fosse altro ma la conosco appena, sei fortunata».
«No, no, no, no, io e quella… no», rise anche lei, lasciandosi contagiare dall'altra fino a quando non agitò una mano. «No, è un'amica».
«Okay! Non sono un prete, non aspetto una confessione». Rise e anche Alex. «Può essere chi vuoi».
Alex chiuse la porta e perse subito il sorriso. Non le piaceva come si fosse improvvisata a casa sua. Forse iniziava a diventare paranoica anche lei… Sospirò, rimettendo via la pistola.

Lena aveva insistito perché studiassero in cucina, a quell'ora passava più luce. E il fatto che Lillian fosse tanto preoccupata per l'igiene di quell'area della villa era… sì, in effetti era stato piuttosto rilevante nella sua decisione. Portò un bicchiere d'acqua a Kara e lo poggiò vicino a un libro, rispondendo al suo grazie con un sorriso. La vide controllare il telefono e rimetterlo sul bancone.
«Siobhan non ha risposto. Volevo la conferma sull'orario», bofonchiò; si mise una penna in bocca mentre prendeva in mano un libro e lo appoggiava su un altro che aveva sulle cosce, seguita dallo sguardo di Lena: tolse la penna e giocherellò con quella tra le dita, mise su una smorfia con le labbra rosa, aggrottò la fronte, si passò la lingua tra i denti. «Me lo passi-», si bloccò quando alzò la testa e incontrò il suo sguardo, arrossendo. «N-Non ho qualcosa tra i denti, vero?».
«No», Lena sorrise, scuotendo lievemente la testa. Si leccò le labbra e Kara avvampò, deglutendo.
«Pensavo davvero che avremmo studiato».
«Anch'io. Dopo».
«Senza Indigo… Senza Ingrid», rise Kara, serrando i denti.
«Tornerai tardi, stanotte».
«Già… Po-Possiamo almeno mangiare qualcosa, prima? Ho fame e…».
Lena annuì. Si alzarono e sistemarono i libri da un lato del bancone ma, quando Kara si stava appena spostando, Lena l'agganciò tra lei e il mobile, facendola sussultare.
«Non hai intenzione di lasciarmi andare, immagino». La vide scuotere la testa, mentre si avvicinava e le mordeva sotto un orecchio. «O-Okay! Volevo mangiare, ma-».
«Penso che mangerò prima io».
Kara rise con un tono di voce inaspettatamente alto. «B-Beh». Voleva prenderle un polso che Lena la bloccò di nuovo. «Qui? Non è perché tua madre al telefono-».
«No».
«No?».
«Ovviamente no. Per chi mi hai presa?!».
Si guardarono e Kara scoppiò a ridere. Nemmeno il tempo di capire se stesse dicendo sul serio che lei la baciò. Si baciarono e ribaciarono. Lena la spinse contro il bancone e le sbottonò la camicetta, baciandole sopra un seno. Capì che stava per sganciarsela dai pantaloncini e la fermò con le mani sui polsi: non era necessario. Salirono sul bancone e Lena, su di lei, la spinse in basso; dopodiché arcuò la schiena e si passò il top tra le braccia e la testa, gettandolo a terra. Kara non fece in tempo a deglutire che Lena era di nuovo su di lei per baciarla, strusciarsi addosso, sbottonarle i jeans corti. Le prese i polsi e le tirò in alto le braccia, poggiandole i gomiti sul bancone.
«Queste restano qui», le mise una mano sull'altra e arrossì, sorridendo.
«O-Okay…». Non oppose resistenza e Lena le baciò il braccio sinistro in più punti, stringendolo con forza. Non nascondeva di certo quanto le piacessero le sue braccia. Le strinse davvero forte i bicipiti e scese fino a spalancarle la camicetta, passando un dito sinuoso lungo la giugulare e Kara trattenne il fiato. Le faceva entrare i brividi ma… erano brividi belli. Lena poggiò la bocca bollente appena sollevò l'indice e Kara sentì un fuoco pervaderle il corpo. «Lo-Lo-Lo sai che- emh», aspettò che la guardasse ma lo fece a stento per forse due secondi, riprendendo a passarle il dito, e poi la bocca, lungo il corpo. «Ce-Certo che lo sai, te lo RI-», si fermò, avendo alzato troppo la voce quando Lena le abbassò il reggiseno per giocare con un capezzolo. «Dicevo, che te lo ricorderai-».
«Mi piace quando sei nervosa», sorrise, leccandole l'ombelico.
«Non sono nervosa».
«Inizi a parlare. Cosa stavi dicendo?». Le spinse in basso i pantaloncini e Kara sollevò le braccia così che Lena la sgridò, aggrottando la fronte. «Rimettile lì», le puntò il dito severamente e si sollevò su di lei per rimetterle le mani una sopra l'altra. «O verrai punita». Rise, osservando la faccia sgomenta di Kara.
«… p-punita in che senso?».
«Ti piacerebbe scoprirlo». La vide spalancare gli occhi e infine emettere un verso gutturale, forse nel disperato tentativo di ritrovare la lucidità. «Allora, stavi dicendo?», si morse un labbro, «Io ricordo cosa stavo facendo». Le punzecchiò la pancia e poi la morse, facendola ansimare.
«… ah, sì. Sì. Dicevo che tra poco, sì, tra pochi giorni, sarà un anno che-», alzò la testa e con occhi sgranati di nuovo quando la avvertì morderle un po' più forte. «Tu… Tu sei ben consapevole che io mi vendicherò, giusto?».
«Ah-ah. Immagino di sì. Sarebbe un tuo diritto», bisbigliò.
Kara scosse la testa, in un sorriso. «Sarà un anno che ci conosciamo», riuscì a dire e spalancò la bocca quando Lena infilò una mano sotto i suoi slip.
«Dovremo festeggiare», sorrise, abbassandosi di nuovo per morderle un fianco.
Sì, era decisamente meglio che pensare a sua zia. Il processo continuava e anche quello di suo marito Non, lo zio con cui non aveva mai avuto un grande legame poiché era sempre fuori per lavoro. O così dicevano. Kara ci ripensò anche fosse solo per poco mentre era al locale dove si teneva la festa per il ritorno alla CatCo di Siobhan Smythe. C'era un grande televisore a schermo piatto sul muro sopra il bancone e trasmisero un aggiornamento, e dopo anche quello sulla morte di Faora Hui. Accese lo schermo del suo cellulare, ma Alex non le aveva fatto sapere niente. Si voltò sentendo Leslie Willis urlare di avere altro da mettere nel bicchiere e altri colleghi intorno la imitarono, ridendo e battendo sui tavoli. Erano palesemente ubriachi, constatò. Almeno tenevano ancora sulla testa i cappellini colorati e a punta della festa. Ma dov'era Siobhan? Si voltò e rivoltò e, oh, non l'aveva notata prima: era sul bordo di un tavolo, da sola, con una bottiglia e un bicchiere davanti. Non aveva una gran bella cera.
«Ehi, biondina! Psst». Stava per andare a raggiungerla che qualcuno la chiamò e si voltò: quell'uomo ruttò e le mostrò una rivista, aprendola e indicandole una foto. «Non sei tu questa qui?».
Kara sbiancò: sotto gli articoli che parlavano di sua zia Astra citavano lei e i Luthor, notava dalle altre foto. Fantastico: avevano di nuovo i giornalisti alle costole; e si lamentava lei che avrebbe esattamente voluto fare la giornalista. La signora Grant però era stata chiara: era sua, non poteva parlarne con nessuno. Scosse la testa e sperò che fosse troppo ubriaco per insistere, così si allontanò. «Credo che siamo le uniche non ubriache della festa», si sforzò per sorridere, sedendo vicino a Siobhan. Ma lei non la degnò di un'occhiata. «Emh, vero? Oppure la metà che manca te la sei scolata da sola?», indicò la bottiglia. Sperò di avere una sua reazione. Una qualsiasi, accidenti.
«Ti ricorda una festa, questa qui?», finalmente parlò, anche se con una voce finissima, non quasi da lei.
«Non lo è?», temette quasi a chiedere. Siobhan finalmente alzò lo sguardo dal tavolo, mostrando i suoi occhi segnati da profonde occhiaie. Doveva aver bevuto eccome, ma forse si era limitata a un bicchiere poiché sembrava troppo lucida e ricordava com'era avere a che fare con lei da ubriaca. Una cosa era certa: a quella festa, Siobhan non si stava divertendo affatto. La ragazza borbottò qualcosa di troppo basso da captare anche per lei, ma Kara non era sicura che in fondo fosse qualcosa di senso compiuto e rizzò le orecchie.
«Aveva ragione», disse e alla fine lo sentì. Siobhan si versò da bere fino all'orlo del bicchiere e l'altra la guardò con sconcerto. «Sono qui solo per far baldoria, quelli lì! Non per me! Aveva ragione lui: non sto simpatica a nessuno». Si portò il bicchiere alle labbra con fatica, gocciolando sul tavolo e sulla mano, e non lo lasciò fino a quando non ci fu più che una sola goccia sul bordo.
«Chi aveva ragione? Non ti farà male bere così?».
«E non seccarmi, mamma», sbottò. Oh, quello lo faceva capire chiaramente. «McBrown. Aveva ragione McBrown: l'aveva detto che non sarei mancata a nessuno», rise e si versò un altro bicchiere: Kara cercò di allontanarglielo, ma era abbastanza lucida da riuscire a morderle una mano.
«McBrown quello che ti ha sparato?», aggrottò la fronte, «Dai retta a quello lì?».
Siobhan sorrise intanto che cercava di alzarsi, scolato il bicchiere. Sbarellò ma la spinse appena tentò di avvicinarsi per aiutarla. «Sei come una zecca, Danvers. 'dio, vai a succhiare sangue altrove».
Kara la tenne d'occhio mentre, ondeggiando, andava verso i bagni. Prese Leslie Willis da una parte e provò a farle notare come Siobhan fosse esclusa e stesse male, ma non sembrò averla convinta o non le avrebbe fatto quella risata sorda di divertimento, per poi urlare davanti a tutto il locale.
«Ehi, Smythe». Tutti si girarono a guardarle. «Vuoi un aiuto per pisciare, fiorellino?».
Siobhan alzò un braccio e le mostrò il dito medio; il rapido gesto la portò cadere all'indietro su un uomo che giocava a biliardo, facendolo sbagliare. Kara la tenne d'occhio ancora per assicurarsi che entrasse in bagno senza essere aggredita.
«Vedi? Non lo vuole il mio prezioso aiuto», esclamò Leslie prima di ricominciare a ridere.
Possibile che avesse ragione Siobhan? A nessuno in quella festa importava di lei? La tirò via quando uscì dal bagno e prese a pomiciare senza motivo con l'uomo cui era caduta addosso. Le stava mettendo le mani dappertutto e si stava aggregando l'altro giocatore, quando lei non si era accorta di niente. Non era entusiasta della sua intromissione, ma come poteva permettere che si facesse trattare in quel modo?
«Non dovevi succhinare sangue altrove?», si fermò da sola per mettersi a ridere. «Succhinare, Danvers. Succhinare! Vai a succhinare», continuò a ridere. «Ho bisogno di un altro bicchiere».
«Hai bisogno di tornare a casa».
«E perdermi il divertimento della mia splendida festa?».
Sapeva che in quel modo Siobhan si stava autodistruggendo, ma più di controllarla e dirle che sarebbe stato meglio andarsene non poteva fare. Pian piano tutti i loro colleghi se ne andarono e Leslie, nel farlo, si nascose una delle bottiglie ancora chiuse in borsa: non aveva tempo anche per lei e lascio correre, sbuffando. Promise a Siobhan di riaccompagnarla a casa e inviò un messaggio a Lena per dirle che avrebbe fatto tardi e ad Alex… ah, la stava ignorando, per caso? Non si era fatta sentire per tutto il giorno. Decise di lasciarle il suo tempo, riguardando l'altra che si leccava le dita infilate in una bottiglia vuota.
Lena lesse il messaggio e sorrise, per poi sospirare.
«Kara farà tardi, uh?», domandò Indigo. Erano sdraiate sugli sdraio in giardino, osservando le stelle e ascoltando i grilli cantare. Avevano entrambe una copertina e in mezzo un tavolino con succhi di frutta.
Lena non le rispose, chiudendo gli occhi. «Che cosa vorresti fare in futuro?».
L'altra si voltò a fissarla. «Intendi domani o un futuro approssimativo?».
«Che cosa hai sempre voluto fare, Indigo? Non hai mai avuto un sogno? Un'aspirazione?».
Indigo restò ferma a pensarci per un tempo lunghissimo, osservando una stella brillare. «Non lo so». Era sincera: non aveva mai pensato a una cosa del genere, probabilmente per aver sempre vissuto alla giornata.
«Un mestiere che da bambina avresti voluto fare una volta grande?».
«Non lo so».
Lena accettò quella risposta, stando zitta. Lena lo sapeva, lo aveva sempre voluto: essere come suo padre. Rivedeva la sé bambina che prendeva una mano di Lionel ma, una volta grande, con più consapevolezza, lo lasciava andare. Aveva la pistola in mano, adesso. Non sapeva se avesse mai conosciuto veramente quell'uomo. Non conosceva sua madre, quella biologica. Chi erano e la loro storia, quale la sua…
«Chi sono io?», chiese Siobhan e Kara si avvicinò meglio contro il tavolo. La ragazza era di nuovo in fase depressa. «Ho come la sensazione di stare buttando la mia vita… Ques… to lavoro è tutto ciò che ho e adesso ho paura di metterci piede e… La ferita brucia e quegli stupidi dei medici che-», prese fiato, deglutendo ciò che le era rimasto in gola. «Sono sola, Fanvers. Davers. Danvers», si tenne la testa con le mani, lasciandosi andare di peso sul tavolo. «Ho speso tutto il mio tempo, tuuutto per sentirmi realizzata e non ho mai… mai davvero notato quanto mi stessero lontano le persone. Stavo bene come ero prima della sparatoria, okay? E adesso… E adesso invece… non lo so più, Fanvers. Ho amici ma», si girò, alzando le spalle, «dove sono loro, adesso? Mi manca avere qualcuno. Forse. Che siano gelose o meno del mio successo non-non mi interessa, dai, peggio per loro… Però… Però aveva ragione lui: sono sola».
«Ci sono io».
Siobhan si lasciò scappare una risata, rimettendo un dito nel collo della bottiglia e leccandolo. «Lo so! Ti tratto male e sei sempre qui. Non lo meriti… Sei come un cane», annuì e rise, facendole allontanare la testa quando provò ad accarezzarla con una mano pesante, imitando un verso. «Ho paura, Fanvers. Danvers. Ho paura perché morirò sola… senza sapere chi diavolo sono o potevo essere».
«Dai, ti riaccompagno a casa». Si alzò e le allontanò la bottiglia, meritandosi una parolaccia.
Riaccompagno Siobhan: è ubriaca e non si regge in piedi. Poi sono da te! Inviò a Lena, gonfiando le guance.
Era vero che non si reggeva in piedi, ma di certo non si aspettava di dover combattere con lei: il momento depressione era finito e ora non faceva che ridere, cercare di sporgersi per correre da qualche parte e aveva perso un tacco, di inchinarsi per raccogliere monete che vedeva solo lei, e di baciarla. Accidenti, aveva provato a baciarla già due volte da quando lasciarono il locale e poi si metteva a ridere di gusto, attirando gli sguardi dei pochi passanti. Pensò che oramai avrebbe pomiciato con chiunque, impestando l'aria di alcol ogni qual volta che apriva la bocca.
«Voglio baciarti, Fanvers. Danvers. Il tuo cognome è così luungo».
«Ti pentirai di quello che stai dicendo e facendo, quando tornerai in te dopo la sbornia».
«È qui che ti sbagli, dolcezza», rise, reggendosi al suo collo. «Vuoi salire?».
«Io porto su te», puntualizzò. Quando Kara si fermò davanti al portone che il navigatore diceva fosse di casa sua, cercò di lasciarla in piedi ma barcollava troppo.
«Tu te ne pentirai se non- Tutti vorrebbero me», proseguì, mentre l'altra cercava di aprire con lei attaccata. Cercò di baciarla di nuovo e Kara scansò la testa tirando il collo indietro più che poté.
«Va bene». La lasciò un attimo, riuscì ad aprire e- Siobhan cascò a terra come un sacco di patate. La trascinò per le scale sentendola ripetere che se ne sarebbe pentita. Aprì la porta e diede un'occhiata veloce, allora la accompagnò sul letto, dove si gettò di peso.
«Resti a farmi compagnia?».
«Siobhan… Se dovessi raccontarti domattina quello che mi stai dicendo-».
«E fai come vuoi, Fanvers. Danvers. Poi non ci sarò più. Perché quando sarò lucida, il mio culetto uscirà da quella porta e-».
«Questo è il tuo appartamento. E quella una finestra».
«Stai cambiando discorso».
«No». Scrollò le spalle, «Hai bevuto troppo».
«Peggio per te… E quando ti ricapita?», esclamò in un singhiozzo, «Poi ti odierò di nuovo perché sei perfettina stupidina… È la mia prima esperienza con una ragazza»
«Okay, m-ma noi non-».
«A parte al liceo», rise, stirando il braccio destro e ondeggiando una mano per aria. «Gira tutto, guarda le orbite», rise, ributtando la mano con peso morto sul materasso. «Al liceo era diverso, capisci? I ragazzi facevano i ragazzi, no, le ragazze, e le ragazze facevano… ho perso quello del discorso».
«Il filo».
«Sì», rise di nuovo, «Al liceo bevevo di brutto».
«Credo tu abbia un problema con l'alcol. O con la tua omofobia interiorizzata».
Alzò la testa di scatto, reggendosi con i gomiti sul materasso. «Chi è interiore, scusa? Come ti permetti? E io che ti ho anche invitata a fare sesso con-», si bloccò, gonfiò le guance e sgranò gli occhi, Kara corse, stava cercando un cestino o un recipiente che Siobhan alla fine si portò una mano contro la bocca e riprese a ridere, gettandosi sul materasso. «Falso allarme, Fanvers. Danvers», disse, continuando a ridere.
Kara sospirò e si portò le mani sui fianchi. «Sai, anche se non fossi impegnata, e anche se fossi una persona più… diciamo tranquilla, non sarei comunque venuta a letto con te. E non perché sei- beh, no-non sei brutta, ma… sei ubriaca, Siobhan», strinse i denti e scosse la testa. Lei era zitta, adesso, ma le notava gli occhi aperti. «Chi verrebbe a letto con te in queste condizioni?».
«Tutti». Non poteva vederla, ma Kara scrollò gli occhi. «E io sono meravigliosa, lo so che sono meravigliosa, nessuno si è mai tirato indietro».
«Dovresti trattarti meglio», sbottò. «Puoi andare a letto con tutti quelli che ti pare, ma non così, Siobhan. Non così, non ne sei in grado». Riprese la borsa lasciata sul bordo del letto e se la rimise in spalla, «Devo andare, riguardati».
«Aspetta», la chiamò con una voce di nuovo bassa e Kara si fermò: aveva smesso di ridere? «Non sono meravigliosa davvero… è per questo che lui aveva ragione, lo sappiamo tutte e due. E tu sei… sei così… così», cercò le parole, impastando la bocca, «perfettina stupidina che… Come faccio a essere più simile a te? Tutti amano Kara, non Siobhan».
«Proverai a baciarmi ancora se mi siedo?», aspettò un suo verso contrariato prima di avvicinarsi, scrivendo a Lena che ci avrebbe messo ancora un po'. «Non devi essere simile a me, Siobhan. E non sono affatto perfetta, e non tutti mi amano! Tu non sei sbaglia- Sei un tipo di persona, ma hai un sacco di pregi», si fermò quando la sentì singhiozzare, voltandosi. «Stai piangendo?».
«Sto perdendo acqua, certo che sto- Devo vomitare». Si alzò di corsa a occhi sgranati e Kara con lei, standole dietro fino ad arrivare al bagno. La seconda la aiutò a piegarsi ma le scacciò una mano quando premette sul cerotto. Tirò lo sciacquone e si sfilò la maglia corta davanti a lei, togliendosi il cerotto e aprendo il mobile per prendere la scatola.
«Non hai- Siobhan!», scosse la testa, «Non hai bisogno di quello».
«Sì che ne ho bisogno».
«No, vedi, non hai più-».
«Lasciami», si divincolò e applicò il cerotto pulito. Storto, ma lo applicò. Neanche sentì che metà cicatrice era rimasta fuori. Non le faceva male: era altro a farlo. Si portò a tentoni di nuovo sul letto e Kara riprese il telefono, allontanandosi dalla camera da letto:
«Lena, farò davvero tardi: sta male e aspetto almeno che si addormenti, che si riprenda un po'».
«È meglio se resti, Kara, non lasciarla sola», le consigliò con voce calda, «Buonanotte. Ti amo».
Kara era un po' dispiaciuta, ma sapeva anche lei che era la cosa giusta da fare. «Buonanotte e ti amo anch'io». Chiuse e si andò a sedere a terra, con spalle contro il materasso. Alzò gli occhi e si spostò quando si accorse di essere in direzione di vomito.
«Pensavo a una cosa… da un po'…», mormorò e Kara stette a sentire. «Sarei dovuta morire… quando mi ha sparato?».
«Non dirlo neanche per sogno!», alzò la voce e Siobhan si tirò in su con spavento, reggendosi il petto.
«Sei ancora qui, tu? Oddio, credevo di parlare da sola».
Kara non riuscì a fare a meno di ridere, convincendola a tornare a sdraiarsi. Le confidò così di essere stata sua fan un tempo, come lei fosse stato il suo esempio. Nascondendole di esserlo stato solo fino a prima di conoscerla, almeno. Se faticava a capire chi era, poteva fare lei un esempio.
Parlarono finché non si addormentò. Poi la accompagnò di nuovo a vomitare e di nuovo a letto. Quando la sentì russare, giocherellò col cellulare per restare sveglia ancora un po' e lesse di altre notizie riguardanti sua zia, dei processi in vista su chi aveva ucciso materialmente i suoi genitori e come la citassero spesso. Come la stava vivendo all'interno della famiglia Luthor, ora che ne faceva parte? Accusavano Lillian ed Eliza di essere partite in viaggio di nozze, lasciando lei ad affrontarlo da sola. Spense lo schermo del telefono e appoggiò la testa contro il materasso, sbuffando. Astra sarebbe tornata nella sua vita molto presto. Era sua zia e, da qualche parte, le voleva bene. I suoi genitori erano morti e lei voleva bene a chi in parte ne era stata la causa: che razza di persona era? Astra l'aveva cresciuta. Chi sarebbe diventata, un giorno, Kara Danvers?
Nel frattempo, Alex era seduta sul letto, con il cellulare in mano e le dita quasi sullo schermo: doveva chiamare Kara, ma ormai era tardi. Intravide con la coda dell'occhio Maggie che si rivestiva di corsa dall'altro lato del letto, infilando un jeans. «Sei sicura che devi andare?».
«Sì. Voglio andare», specificò, infilando una maglia corta e dopo le scarpe, saltellando sul tappeto. «Chiama tua sorella, ti sta aspettando. E se si sveglia Jamie, sono andata a comprare il gelato», sorrise.
Alex sospirò. «Chiamami per qualsiasi problema e arrivo subito». Poi ci pensò, quando lei era già alla porta: «Il gelato? A quest'ora?».
«Funziona sempre», richiuse e corse. Prese la macchina e, quando arrivò sotto al ponte, vicino al bar segnalato dal ragazzo, notò che c'era Adrian Zod con lui. Charlie era riverso sui ciottoli, fra la puzza: era sporco, piegato su se stesso, piangeva e gridava. Maggie sentì subito un forte odore di alcol nell'aria. Non sapeva perché aveva chiamato lei invece di chiunque altro e non mancò di pensare che fosse una sorta di trappola per portarla dalla loro parte, ma quel pensiero svanì non appena scorse i suoi occhi e ci lesse la disperazione: nessuno poteva fingere in quel modo.
«Guarda, Charlie, è arrivata Maggie. Maggie Sawyer».
Lo sguardo del giovane la pugnalò dritta al petto. Parlare a Charlie di Faora Hui era solo lavoro, giusto? Farlo soffrire lo era? L'organizzazione andava fermata a qualunque costo, era esatto?
Riuscirono a portare Charlie sui sedili posteriori dell'automobile del Generale e lui, incredibilmente, si fermò per ringraziarla. «Non ha più nessuno, Sawyer. Con i suoi non parla da tempo e sua sorella, quella vera, è morta da bambina. Lei era malata. Aveva ritrovato con Faora qualcosa di simile, per questo lui… Per questo te lo sto dicendo. Non vorrei che si legasse a te in quel modo, adesso».
«Non è un problema, per me», rispose lei, svelta. I suoi occhi scuri, pensò Maggie: i suoi occhi scuri erano tristi, soffriva. Anche lui era in lutto. Come poteva? L'organizzazione era più importante della vita di quella ragazza, per non aver fatto niente per impedirlo? «Condoglianze anche a lei, signore».
Lui annuì, distogliendo lo sguardo. «Sembra difficile immaginarlo, non è vero? Mi vedono tutti dal basso all'alto come se fossi… non lo so», si resse la fronte e sospirò: anche lui aveva bevuto, a giudicare dall'alito. «Sono una persona anch'io, Sawyer. Non ho potuto salvare Faora quando potevo, non avrò mai… non avrò mai», sospirò di nuovo, «una confessione da parte di Rhea Gand e mi sento… non lo so, perso. Forse. Nessuno lo capisce, questo», serrò le labbra e Maggie si incuriosì, inclinando la testa da un lato.
«Una confessione su cosa», deglutì, «Generale? Sull'omicidio di Lar Gand?». Aveva fatto una registrazione in cui lo diceva, come poteva essere?
«Le saresti piaciuta, lo so», annuì più a se stesso che a lei, scorgendo Charlie Kweskill che si era addormentato sdraiato su quei sedili. «A Petra. Saresti piaciuta a Petra».
«Petra… la sua fidanzata, Generale?». Ricordava di aver letto di lei, Lena Luthor aveva detto qualcosa a riguardo ad Alex e a lei. Cosa significava che voleva da Rhea una confessione? Non era sua sorella? «Mi dispiace per Petra, signore».
Lui annuì ancora, le diede una pacca su una spalla e aprì la portiera della macchina, svegliando Charlie con un sussulto. Si portò al volante ma, prima di mettere in moto, si passò una mano sulla fronte sudaticcia. «Passi il tempo a sperare in una confessione per poterle dare l'ultimo saluto ma hai paura che se accadrà, non sarà come ti aspettavi e non vuoi lasciarla davvero andare. Ha senso per te, Sawyer?».
Li guardò andare via ed entrò nella sua automobile con la tachicardia. Pestò il volante e dopo strinse gli occhi, appoggiando la testa sul sedile. Non sapeva cosa fare, cosa pensare, come muoversi, come affrontare la sua infiltrazione e come ingannarli. Come avrebbe potuto? Chi avrebbe potuto?


***


Kara rispose subito al cellulare quando lesse il suo nome, non potendo fare a meno di formare un sorriso. «Finalmente ce l'hai fatta».
«Scusa, sorellina. Stavo per non farlo. Non avrei voluto farlo…», confessò Alex. «Mi sento una fallita, in questo momento e non volevo che, per te…».
«Lo so», mormorò Kara. «Per questo avresti dovuto chiamarmi subito, invece, scema. Tu non hai fallito proprio niente, non potevi fare più di ciò che hai fatto… anche per Faora. Ma se davvero credi di aver fallito in qualcosa, allora rialzati. Ci si rialza sempre e lo sai più di chiunque altro», si fermò quando la sentì piangere. «Sei la migliore di tutte, Alex», sorrise ancora, «La mia sorellona è sempre la migliore».






































***

E finalmente Alex! All'ultimo, proprio all'ultimo, ma sei riuscita a chiamare Kara!
Faora Hui è stata uccisa alla fine dello scorso capitolo e ha lasciato alcuni personaggi disorientati.
Alex in primo luogo perché è stata quella che le ha sparato per proteggere Kara (cap 37), la madre della ragazza l'ha accusata in ospedale e, soprattutto, la voleva proteggere dall'organizzazione. Che poi non è un bel periodo per la maggiore delle Danvers, considerando che, ogni cosa che fa, non mostra risultati: dalla protezione di Faora alle indagini con le chiavette, per concludersi con il suo appuntamento dal direttore di Fort Rozz che ha deciso di chiederle un mandato se vuole sapere del garante di Indigo (a proposito, se volete leggere il pezzo tagliato, potete farlo qui). È un bel pasticcio e ora teme perfino che ci siano spie di Zod all'interno del D.A.O.: non riesce a fidarsi completamente di Carina Carvex, anche se la conosce da diverso tempo, ma questo la porta a dare una chance a Indigo.
Charlie Kweskill è crollato sotto il peso del lutto e Maggie Sawyer si trova ora davanti a un bivio: è il punto debole del ragazzo, ma sarà disposta a fargli del male pur di fare il suo lavoro? Quale tipo di persona lo farebbe? Che poi è il tema del capitolo: che persona sono e sarò destinata a diventare?
Kara ripensa a sua zia ed è alle strette, Lena a volte sente di non avere radici e porta con sé una pistola, Siobhan si è persa nel suo trauma.
Ma non ci sono solo cose drammatiche, su! Kara e Lena stanno vivendo insieme (a Indigo) in villa e sono… ah, sono state scoperte! Ops. Volevano tenere per loro la relazione e invece la giardiniera Ingrid lo ha detto a Marielle che lo ha detto a Felipe che lo ha detto a Gloria Harris, la proprietaria del famoso Proiettile, che non ha perso tempo per dirlo a Lillian anche se in questo momento si trova ad Aruba! E Lillian ora starà saltando dalla gioia! Mi sembra quasi di vederla!
Capitolo lungo, lo so, ma era difficile farci star tutto >__<  

Il prossimo capitolo, tremendamente di passaggio, si intitola Di piani segreti e traumi di cristallo e sarà pubblicato il 19 settembre! Tremendamente e drammaticamente di passaggio, pare dal titolo °°


   
 
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