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Autore: Ser Balzo    07/10/2019    1 recensioni
Raccolta di racconti più o meno brevi, più o meno svegli, più o meno inventati su quella strana temperatura dell'anima che spesso prende il sole sul parquet e che ogni tanto, quasi sempre per sbaglio, chiamiamo magia.
«In ogni caso, il problema qui è un altro» disse la zia. «Giova’, tu puoi diventare bravo. Ma ti mancano i buchi neri sul pianerottolo.»
Genere: Introspettivo, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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AMOREVOLI COINQUILINE

 

 

 

Tecna era una brava ragazza, ve lo posso assicurare. Nome singolare, lo so, ma a parte questo aveva tutte le carte in regola per essere un’ottima coinquilina: tranquilla, di poche parole, riservata, mansueta, insomma, decisamente non il tipo di ragazza che trovi alle tre di mattina ad affogare la propria incompetenza esistenziale nella sangria del discount.

Sì, mi piaceva Tecna: mi piaceva così tanto che decisi di tentare di farmela amica. E badate bene, questa non è cosa da poco: chiunque mi conosca sa che ricevere un biglietto d’ingresso per la Buona Famiglia dei Veri Amici di Teresa Beccaris non è per niente semplice. Non è che sia snob - non completamente, almeno - ma siccome non ho gli standard di Facebook nel definire i rapporti interpersonali non vedo perché dovrei accettare chicchessia - o perché chicchessia dovrebbe accettare me - per formare un discreto ma profondo legame di comuni intenti e mutuo sostentamento. 

Fatto sta che la sera stessa in cui mi trasferii, complice un ottimo risotto da lei preparato ad arte, mi lasciai trasportare dall’entusiasmo e le chiesi se avesse mai visto Lampyr

Non so esattamente perché glielo dissi, non è certo una cosa che butto lì per fare conoscenza: ma qualcosa mi diceva che dietro quegli occhi verdi e quel facciotto tondo si nascondeva qualcosa, un sentimento forse simile alla mia passione per quella serie parimenti sfortunata e meravigliosa.

La sua risposta, c’è da rendergliene merito, fu breve. Aprì la bocca, masticò l’aria e poi parlò.

“Ehm… che è?»

Me l’aspettavo. Insomma, le probabilità che la conoscesse erano piuttosto scarse. Ma non era certo un problema: insomma, se dovessi rivolgere la parola solo alle persone che hanno visto Lampyr, starei alquanto fresca. Le dissi che era una serie tv, a mio parere notevole: anche guardarsela non era un problema, visto che ne erano stati prodotti solo quindici episodi.

Lei masticò ancora una volta il vuoto, poi emise un suono simile a quello di un ruminante.

«Ah. No, io non guardo… giusto Breaking Bad, qualche puntata… ma poi niente.»

Ragionevole. Non è certo obbligatorio apprezzare i telefilm, sono l’ultima che ha voglia di fare simili discorsi. Tecna non guardava Lampyr, Tecna non guardava Breaking Bad, Tecna non guardava una mazza, e io ero più che felice di lasciarglielo fare: e poi, i telefilm non erano certo l’unica cosa che poteva creare un legame fra noi.

Tentai con i libri un pomeriggio di qualche settimana dopo, in occasione di uno di quei raptus compulsivi che colpiscono chiunque abbia un feticismo per la carta stampata e una tessera fedeltà della propria libreria di riferimento. Lei era appena uscita dalla sua camera, coperta dal suo pigiama sfatto e grigiastro; mi intercettò mentre rincasavo. Gli occhi verdi si posarono sulla busta di carta che tenevo in mano e in quel momento, non chiedetemi perché, pensai ad un grosso e grasso pesce morto che avevo visto una volta da piccola, da qualche parte in Umbria. Il barbaglio delle scaglie, forse. Era lo stesso riflesso spento e acquoso che vedevo nei suoi occhi.

«Sì, lo so, non dovevo» dissi, l’aria divertitamente colpevole. «Ma è uscita la raccolta de la Saga dei Taumaturghi, non potevo certo…»

Lei fece di nuovo quel verso. Era inutile tentare di indovinare, oramai sapevo per certo che cosa mi avrebbe risposto.

«Mh. E che è?»

«Oh, è una saga fantasy, davvero niente male. C’è questo uso della magia quasi scientifico che secondo me—»

«Ah. No, è che io non leggo fantasy.»

Certamente. È un genere particolare, il fantasy, e certo in Italia non gode di una grande reputazione. Stavo quasi per chiederle se le piacessero i gialli, quando lei mi risparmiò la fatica.

«I libri… insomma, non ho il ritmo. Mettersi lì… capisci? Più che altro leggo guide turistiche… mi piacerebbe andare in Perù, lì dove ancora…»

Va bene, niente serie tv e niente libri. Ma non è certo questo che determina una brava persona o un pezzente. Ero decisa a concederle il beneficio del dubbio, e così feci. 

Dopotutto, la vita scorreva quieta in quella casa: io badavo ai fatti miei, lei badava ai fatti suoi, nessuna delle due si scandalizzava se un pranzo o una cena trascorrevano in silenzio… non eravamo amiche per la pelle, ma non dovevamo certo sposarci, insomma. L’importante è che io rispettassi lei come mia coinquilina, lei rispettasse me, e che una libertà finisse dove cominciava l’altra.

I primi mesi trascorsero così, in onesta tranquillità. Certo, ogni tanto avevo la sensazione di non potermi godere appieno quella casa perché la mia situazione mi rendeva più simile ad un ospite che ad un pari abitatore, ma è perché il mio cervello tende sempre a sentirsi in colpa anche quando non deve. Dopotutto, insomma, le pagavo l’affitto e le spese, non è che stavo lì a scrocco.

Non è che ero come Ycliff, ecco.

Sì, lo so. I genitori di Ycliff non avevano mai letto Emily Brönte e sì, dopo aver visto Cime Tempestose in tv non si erano affatto preoccupati di controllare come si scrivesse il nome del protagonista. In ogni caso, la prima volta che lo vidi non mi fece una brutta impressione. Sembrava un tipo a posto, insomma, uno di quelli che incontri per strada, e che magari se sei in giornata buona gli sorridi pure, perché senti che hanno qualcosa dentro che necessita di un sorriso. Uno che al massimo può farti pietà, ecco. Poi insomma, questa faccenda del nome mi faceva tenere per lui: chissà quanto l’avranno preso in giro a scuola. Con me l’hanno fatto, e il mio nome è tutto sommato normale.

In ogni caso, Tecna e Ycliff stavano insieme da parecchio: quattro anni, una cosa del genere. Sembrava una roba seria, e a vederli ne avevi proprio la sensazione: era come se si completassero, ecco. Mi sembravano due brave persone, ed ero sinceramente felice per loro. Oltretutto, non stavano in casa quando si vedevano, e di questo non potevo far altro che ringraziarli.

Almeno, fin quando Tecna non decise di buttarmi fuori di casa.

Ok, forse così sembra un po’ violento. In realtà, Tecna fu anche molto gentile. Mi disse che aveva bisogno della mia stanza per usarla come studio, visto che non riusciva più a lavorare in camera sua. Prese la cosa alla larga e non si risparmiò in tatto e cortesia, dandomi anche tempo fino all’estate per rimanere in casa sua. Non avrebbe potuto essere più caritatevole. 

E forse fu proprio per questo che cominciai a pensare.

Non avevamo stipulato un contratto vero e proprio, quando mi ero trasferita da lei. Avevo avuto il suo numero da amici di amici, e lei mi aveva detto che non affittava la stanza per lucro, ma per poter rientrare un po’ delle spese e perché no, avere anche qualcuno con cui condividere la quotidianità della vita casalinga. Da parte mia le avevo detto che il mio corso di laurea durava tre anni, e che quindi quello era il periodo di tempo in cui avrei abitato sotto il suo tetto. Tre anni. 

Onestamente, non credo se lo fosse dimenticato. Certo, non era scritto da nessuna parte, ma credevo che con una persona dieci anni più grande di me si potesse presumere una certa serietà.

Insomma, non avevo alcun diritto di farlo, ma tutta quella faccenda cominciò a suonarmi come un tradimento.

Dopotutto, doveva saperlo che trovare un alloggio non è semplice. Doveva saperlo che progettavo di rimanere lì due anni. Doveva saperlo, per forza. La storia dello studio stava in piedi fino ad un certo punto. Non aveva forse detto che la mia stanza era troppo luminosa per il suo lavoro? Perché invece adesso aveva completamente cambiato idea?

Il perché già lo intuivo, ma la certezza non tardò ad arrivare.

Quella sera, mentre ero impegnata al computer, sentii la porta di ingresso aprirsi. Voci. Rumori. Gente a cena, probabilmente. Mi alzai per andare a controllare.

Poi aprii la porta della mia camera e lo vidi.

Per la prima volta da quando ero lì, Ycliff era nostro ospite a cena.

Rimasi impalata, fulminata sulla soglia. Non lo avevo mai visto in casa, figurarsi a mangiare con noi. Non capivo. Avevo sempre creduto che Tecla non lo volesse nella sua tana, o che comunque fosse così gentile da rispettare la mia presenza non imponendomi la sua. Pensavo fosse uno di quegli accordi da gentildonne che non richiedono una ratifica verbale, figuriamoci una scritta.

Lui mi guardò. Sorrise. E io capii perché erano fatti l’una per l’altra.

Erano una meravigliosa, perfetta coppia di pesci cadavere.

 

Fu nei giorni successivi che il complotto cominciò a prendere forma. Lentamente, inesorabilmente, solo apparentemente in modo casuale, Ycliff cominciò a comparire sempre più spesso: spesso solo di striscio, qualche secondo appena, molte volte quando io non ero presente. Ma una volta entrata in casa, sapevo sempre se lui era stato lì oppure no. Potevo avvertire il barbiglio freddo dei suoi denti sorridermi alle spalle.

C’era poco che potessi fare, al riguardo. Lei era la padrona di casa, io pagavo in nero; non avevo alcun appiglio a cui appoggiarmi per evitare di essere messa fuori gioco. La partita era cominciata da tempo, e io potevo usare solo i pedoni.

E soprattutto, giocavo da sola contro due spietati avversari.

Mentre Ycliff logorava i fianchi del mio schieramento con sortite rapide e invisibili, Tecna si preoccupava dell’assalto frontale. Frontale per modo di dire, visto che era pur sempre Tecna, con i suoi occhi acquosi e il suo pigiama grigio. Un sospetto aumento delle spese lì, uno strano silenzio là, ogni giorno potevo avvertire i piccoli ingranaggi del loro grigio, marcescente piano girare pigramente sui propri assi. Io cercavo di resistere come potevo fingendo indifferenza, ma sapevo che era solo questione di tempo.

I mesi divennero settimane, le settimane giorni, i giorni ore, le ore minuti. Potevo sentire le lancette dell’orologio rimbombarmi nel petto. Ero nervosa, non posso negarlo. Forse è per quello che quella sera non lavai tutti i piatti.

Non che li volessi lasciare lì eh. Volevo solo farli a rate, ecco tutto – voglio dire, chi è che non ha mai fatto i piatti a rate? Lavai quelli di quella sera, poi mi asciugai le mani, e, forse sentendomi in colpa per non aver fatto tutto il lavoro come si deve, mi infilai in camera più rapidamente del previsto. E fu in quel momento che Tecna parlò.

In realtà, fu più che altro un borbottio. Tecna parlava a bassa voce, questo è vero, ma certo non in quel modo. Quando mi aveva chiesto se per piacere potevo lavare tutti i piatti in tempo per la cena del suo compleanno era stata chiara e precisa, e avevo obbedito senza esitare. Forse non stava neanche parlando a me in quel momento, ma nell’attimo in cui entrai in camera ero piuttosto sicura di aver udito la parola “piatti”. In ogni caso, Tecna non mi lasciò il beneficio del dubbio.

«Vaffanculo!»

Più che uno sbotto, fu un verso animalesco. La sua voce mi arrivò attraverso la porta che mi ero appena chiusa alle spalle. Per un istante il mio cervello si rifiutò di riconoscere quella parola per quello che era. Poi un tonfo, passi pesanti e lo schianto della sua porta.

In principio fu solo sgomento. Poi preoccupazione: non credevo che Tecna fosse capace di una simile violenza. Infine, venne la rabbia.

Quella non era uno scatto di ira adolescenziale: era una vera e propria dichiarazione di guerra. È vero, non avevo mai incensato le sue qualità prima d’ora; anzi, si potrebbe anche dire che qualche volta l’avevo presa in giro. Ma che diamine, se c’è una cosa che non ho mai fatto è mancarle di rispetto come coinquilina e padrona di casa. Quello sfogo, quella scenata da primo pomeriggio di Mtv, non poteva, non doveva esistere, in nessun luogo e nessun tempo. Se c’è una cosa che non ho mai sopportato, sono le reazioni esagerate.

La rabbia servì a spezzare le ultime catene che mi tenevano ancora a freno: se volevano la guerra, Tecna e il suo fedele compagno avrebbero avuto la guerra.

Non avevo molto tempo, quindi la mia strategia doveva basarsi su un unico attacco, rapido e deciso. La mattina dopo ero già pronta all’azione.

Credo di essere stata piuttosto convincente quando finsi sorpresa per quel buono per una giornata alle terme. Una delle cose per cui Tecna provava un minimo di interesse oltre ai viaggi erano i bagni termali, non chiedetemi perché. Fatto sta che fece armi e bagagli e partì quel giorno stesso. Fortunatamente alle terme non c’è campo, altrimenti si sarebbe accorta fin troppo presto che le avevo rubato la scheda telefonica. Ycliff non era con lei, perché a lui le terme non piacciono - l’unica cosa su cui quei due non sono d’accordo, che teneri piccioncini: quando gli arrivò il messaggio (“lei se n’è andata, vieni qui”) fu sorprendentemente celere.

 

Che cosa successe dopo? Beh, immagino che abbiate letto i giornali. In ogni caso, vorrei solo aggiungere che con mio grande rammarico non ho potuto vedere la faccia di Tecla una volta rientrata a casa. Mi immagino i suoi occhi da pesce spalancarsi alla magnifica vista del suo amato Ycliff impiccato accanto al lavello. “Scusa per ieri, è ad asciugare”. Sì, un po’ criptico, ma sul cartello appeso al suo collo quello c’entrava. Spero che l’abbia compreso prima che la casa saltasse per aria. 

 

Bella cosa le fughe di gas, vero?










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Nessun coinquilino è stato maltrattato durante la realizzazione di questo racconto. Croce sul cuore.

Il 7 maggio del 1898, al generale Fiorenzo Bava Beccaris venne affidato l'ordine pubblico di Milano, dove gli operai in sciopero protestavano contro l'aumento del prezzo del pane: pressoché nessuno era armato, e per strada c'erano molti passanti che girellavano incuriositi dal tumulto. Il generale fece sparare un po' su tutti, tanto per essere sicuro: due giorni dopo, la questione era pressoché conclusa. Sulla faccenda, pare che scrisse "c
redo che gli stessi miei avversari mi avrebbero giudicato un pauroso minchione, se li avessi lasciati liberi di gettare nuova esca al fuoco." 
Certi suoi discendenti, evidentemente, sembrano pensarla più o meno allo stesso modo.

 

 

  
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