Viatori
9 marzo 2045, giovedì.
Mark aveva mollato Elizabeth e gli altri cinque
minuti dopo aver varcato i confini di Nuova Roma.
Respirò a pieni polmoni quell’aria familiare,
beandosi della tranquillità e della sicurezza che gli trasmetteva e che tanto
gli erano mancate in quelle quasi tre settimane di viaggio. Forse dopo sarebbe
passato a trovare sua nonna e avrebbe fatto rapporto anche a sua madre. Il
pensiero della sua famiglia lo stava tormentando; sarebbe riuscito a renderli
fieri e a spezzare la terribile maledizione che da tanto tempo affliggeva la
dinastia Crassus?
Si diresse a passo svelto verso gli alloggi dei
due Pretori, ripassando mentalmente il discorso preparatosi durante quelle
estenuanti ore di macchina. C’era voluto molto più tempo del previsto, dal
momento che quella scatoletta infernale color crema che Avery si ostinava a
chiamare macchina non riusciva a superare i sessanta. Elizabeth, poi, aveva
avuto la brillante idea di fermarsi
per un break dopo soli venti minuti
di viaggio. Con grande disappunto sia di Mark che del figlio di Poseidone,
Avery aveva annuito con entusiasmo e pochi minuti dopo erano fermi ad una
stazione di servizio a sorseggiare caffè e, nel caso di Elizabeth ed Avery, a
fagocitare muffin e pancakes. E tanti saluti al “prima arriviamo, meglio è”.
Una volta usciti dal bar, Elizabeth ed Avery soddisfatti, Perseo esasperato e
Mark incazzato nero, erano stati accolti da due simpaticissime Gorgoni, con indosso delle divise da vigili urbani.
Una di loro aveva tra le brutte labbra un
fischietto, l’altra una mano ossuta ed innaturale sul cofano della macchina di
Avery – Sunny, si chiamava la vettura; perché Mark lo sapesse questo ancora non
gli era chiaro –. “Questo veicolo è sotto sequestro!” aveva esclamato una delle
due Gorgoni. “Col cazzo!” aveva replicato Avery. Senza dire una parola,
Elizabeth aveva messo tra le mani del biondo uno dei suoi anelli, un ghigno
divertito sul viso; dopo pochi istanti, al posto del gioiello il greco aveva
tra le mani una spada lunga dall’elsa dorata a forma di caduceo: un’arma
estremamente pomposa e da esibizionisti, ma che a quanto pare faceva il suo
lavoro.
Dopo che il ragazzo ebbe finito, i suoi vestiti
erano macchiati di polvere di mostro e sangue scuro, melmoso. “Mai, mai toccare la mia macchina,” aveva
infine detto Avery rimettendosi alla guida di quel suo carretto, l’aria
altezzosa e gli occhi assottigliati, pronti a scovare e gestire una nuova
possibile minaccia ai danni della sua Sunny.
Comunque sia, il gruppo sarebbe dovuto arrivare
massimo per le undici del mattino, ma tra una sosta e l’altra, il continuo
cambiare percorso di Elizabeth – un fantastico navigatore umano, Mark doveva
ammetterlo – a causa dei mostri e la ridicola velocità del catorcio, si erano fatte ormai le dodici passate.
Arrivò finalmente agli alloggi dei Pretori,
delle stanze messe da parte per i due ragazzi più importanti ed influenti del
Campo Giove. Mark avrebbe tanto voluto trovarsi al loro posto: essere Pretore
era il suo sogno sin da quando era bambino. Pur trovandosi a metà dell’opera –
essere centurione non è mica cosa da poco – vedeva quel sogno farsi sempre più
distante mano a mano che i giorni passavano. Diventare Pretore l’avrebbe forse
condannato, essendo questo sogno in realtà una vera e propria ambizione? Valeva
la pena rischiare di risvegliare la
maledizione? Forse, se si fosse comportato bene abbastanza al lungo, la
maledizione si sarebbe completamente dimenticata della sua esistenza.
Crystal Wolff era lì ad aspettarlo nelle sue
stanze, il suo collega Martin Weber, figlio di Bellona, al suo fianco. Se ne
stavano in piedi dietro una grande scrivania insolitamente disordinata, le
espressioni gravi e le mani in costante movimento mentre sfogliavano senza
sosta pagine e pagine di quaderni strapieni di scritte che Mark non riusciva a
decifrare a causa della grande velocità con cui venivano bruscamente voltate.
“Non sono da nessuna parte…” stava brontolando
Martin, gli occhi scuri che dardeggiavano da un foglio all’altro. Indossava la
toga da Pretore, come se fosse appena uscito da un incontro in Senato o da una
riunione con la delegazione greca, sopra un maglione scuro di lana pesante.
Crystal, d’altra parte, aveva l’aria esausta e vagamente sfatta: indossava la
maglia viola con la scritta Campo Giove
in grassetto giallo scuro e una giacca in pelle macchiata sui polsi, i capelli
color cioccolato arruffati a tal punto da coprire parzialmente anche il lato
della testa sfregiato dalla lunga cicatrice.
Mark si schiarì la voce.
Due paia di occhi, uno nero come ossidiana,
l’altro di uno sfolgorante blu elettrico, si posarono su di lui nel giro di
pochi istanti. Il figlio di Marte si impose di rimanere dritto e impassibile,
conservando il suo caratteristico contegno.
“Centurione Crassus, sei tornato,” costatò Crystal,
chiudendo velocemente i quaderni e posizionandosi davanti alla scrivania
poggiando le mani sul piano con disinvoltura.
Il Pretore Martin rimase fermo dov’era, il
quaderno che stava affannosamente sfogliando pochi istanti prima ancora aperto
fra le sue mani. Gli rivolse un sorriso educato, chiaramente sollevato ma al
contempo curioso. “Mark. Come è andato il viaggio? Rapporto.”
Mark intrecciò le mani dietro alla schiena
tenuta ben dritta, il mento alto e lo sguardo fisso sulla parete dinanzi a lui
mentre iniziava a parlare: “Come mi è stato comandato, sono partito il giorno
23 febbraio 2045 per un’impresa affidatami dai miei superiori in compagnia
della semidea greca Elizabeth Larson, figlia di Ermes. Ci siamo prima diretti
in Nevada, alla ricerca di quella cosa lì,”
scoccò una veloce occhiata a Crystal, che abbozzò un lieve sorriso
rassicurante.
“Chiamala pure con il suo nome, Centurione: Vaso di Pandora.”
Mark annuì. Anni prima, il Pretore era stata
coinvolta in un’impresa per recuperare il Vaso, ma qualcosa era andato storto e
la ragazza preferiva non parlarne. Solo i suoi collaboratori più stretti
sembravano conoscere la storia per intero, ma fedeli com’erano non avrebbero
mai tradito la fiducia di Crystal.
Se dovessi
diventare Pretore, pensò Mark, voglio dei collaboratori del genere anch’io.
“Non c’è traccia del Vaso,” si costrinse ad
ammettere Mark.
Crystal annuì, pensierosa. “Lo immaginavo. Non
fartene un cruccio, Mark: sia noi che il Senato sapevamo che non sarebbe stato
così semplice.” La figlia di Giove si sistemò meglio sulla cattedra. Si tirò su
le maniche della giacca di pelle, il tatuaggio sull’avambraccio ora in bella
mostra. Dieci linee, rifletté Mark, dieci
anni di servizio. Quanti anni poteva avere Crystal? Ventitré, ventiquattro?
Difficile a dirsi. A Mark dava l’impressione di una ragazza costretta a
crescere troppo in fretta, determinata a non essere schiacciata dal peso del
comando.
Martin si mosse dalla sua postazione e si andò
ad affiancare a Crystal, le folte sopracciglia scure aggrottate. “E quindi dove
si trova il Vaso? Siamo certi si trovi ancora in America?”
“Non ho dubbi al riguardo,” replicò Crystal. Il
suo tono era così sicuro ed affabile che Mark le credette senza alcuna
esitazione.
“Nereo non ci è stato di molto aiuto,” continuò
Mark dopo un cenno di Martin, “si è limitato a parlare della disperazione, ma né io né la greca siamo
riusciti a capirne appieno il significato.”
Crystal si separò dalla scrivania, l’espressione
di chi si era appena ricordato qualcosa di particolarmente importante. “A
proposito di questo…”
Prima che potesse però continuare la frase, la
porta della stanza di spalancò ed un trafelato Augure Aster varcò la soia, il
viso arrossato e i capelli bianchi arruffati. “Crystal! È terribile…” si piegò in due, tenendosi una mano sul
diaframma. La semidea accorse al suo fianco, poggiando una mano sulla sua e
l’altra sulla schiena, il volto distorto dalla preoccupazione. Mark e il suo
resoconto erano immediatamente passati in secondo piano.
“Aster, miei dei, respira. Cos’è successo?”
Anche Martin era accorso al fianco dell’Augure,
invitandolo a calmarsi e a sedersi. Aster scosse vigorosamente la testa, gli
occhi lucidi. Mark rimase lì dov’era, immobile. Anche se si fosse avvicinato,
non sarebbe stato in grado di aiutare, perciò reputò intelligente rimanere in
disparte.
“Due omicidi,” riuscì infine a snocciolare
l’Augure, “William Collins, un uomo sulla quarantina, figlio di Nike e
residente al Campo Giove sotto permesso speciale, è stato ucciso da cinque colpi
di balestra. E, Martin mi dispiace così tanto…”
Il diretto interessato serrò le labbra,
attendendo la notizia, ma Aster sembrava non avere il coraggio di emettere
altro suono.
Crystal si mise ritta, lo sguardo totalmente
mutato. “Cosa? Aster…”
“James Wilmington, figlio di Bellona, è stato
trovato morto in un vicolo di Nuova Roma, pugnalato a morte da un coltello
intriso di veleno. È stato trovato una decina di minuti fa da un panettiere...”
Sia Martin che Crystal rimasero in silenzio. Il
primo fece alcuni passi a ritroso, come se volesse allontanarsi da quella
terribile realtà, le pupille dilatate e le mani tremanti. Mark provò una forte
empatia nei suoi confronti: sapeva cosa significasse perdere un fratello – una
gemella, nel suo caso – e quel dolore… quel dolore non svaniva mai veramente,
così come non svanivano i sensi di colpa e il disprezzo nei confronti di un
mondo così crudele. Crystal invece chiuse gli occhi e sollevò lentamente il
capo, come in una muta preghiera, solo il lieve tremolio delle labbra tradiva
il suo effettivo stato d’animo.
Quando Aster riprese la parola, lo fece piano e
con delicatezza. “C’e bisogno del vostro consenso per far venire qui un figlio
di Ade il prima possibile, in modo da poter rintracciare l’anima di James e far
sì che il colpevole venga trovato e giudicato dal Senato. Terminus è fuori di
sé dalla rabbia: non capisce come siano riusciti ad introdurre una balestra e
un pugnale avvelenato oltre i suoi confini.”
Si aspettò che uno dei due Pretori iniziasse a
piangere o sbraitare, come ogni essere umano avrebbe fatto, ma con sua grande
sorpresa nessuno dei due accennò minimamente una reazione del genere. Non
subito, almeno.
Martin tornò a sedersi sulla scrivania,
schiacciando con il suo peso alcuni dei quaderni, lo sguardo perso nel vuoto ma
gli occhi completamente asciutti. Quando invece Crystal riaprì i propri, di
occhi, sembrava che questi avessero ripreso colore: le occhiaie, la pelle opaca
dalla stanchezza… tutto impallidiva di fronte alla luminosità di quelle iridi
cerulee, innaturalmente intense. La ragazza si rivolse a Martin, il tono
delicato: “Sta’ tranquillo, Martin, mi occuperò personalmente dell’indagine.
Troveremo e puniremo il colpevole.” Solo in quel momento rivolse finalmente la
sua attenzione verso Mark, la voce dura da
comandante. Mark non conosceva che quel tono di voce: per tutta la vita,
sin da quando era solamente un bambino, gli erano stati impartiti ordini e
affidati compiti.
“Centurione Crassus, il Campo Mezzosangue ha una
Profezia e tu ne fai parte. Voglio che tu, Elizabeth Larson, Avery Benson e
Perseo Harris andiate subito a prepararvi; ho mandato dei ragazzi a cercare Eva
Hooke, dovrebbe arrivare a momenti.”
Per andare
dove?, stava per chiedere Mark, ma lo
sguardo urgente e ammonitore della semidea lo fece desistere. Quello non era il
momento. Martin continuava a fissare nel vuoto e fu solo quando Mark si diresse
verso la porta con Aster e mormorò un “Mi dispiace per la tua perdita,” che
cominciarono i singhiozzi.
“Ha preso i miei anelli, quella stupida statua!”
Perseo alzò gli occhi al cielo, sospirando
mentre Avery dava alla loro compagna qualche confortante pacca sulle spalle
incurvate per la rabbia e lo sconforto. Perseo, invece, prese la cosa con
un’allegria piuttosto fuori luogo: finalmente quel tremendo e disordinato agglomerato di gioielli non
gli avrebbe più fatto ritorcere le budella. Almeno per qualche giorno.
“Vedila con razionalità, Eli,” tentò il biondo,
“sono armi! Non puoi entrare nella città armata di tutto punto.”
Elizabeth tirò su con il naso, sottraendosi
indispettita al suo tocco. “Non la vedevi così quando ti ho prestato la mia
spada preferita per maciullare qualche mostro.”
Avery emise un verso alquanto buffo. “Era per
una buona causa!”
Gli schiamazzi dei suoi compagni passarono in
secondo piano nell’esatto istante in cui Perseo rivolse lo sguardo altrove,
posandolo sulla città: immensi palazzi si stagliavano in lontananza, case
costruite con grande maestria costeggiavano i vialetti fatti di ciottoli scuri;
in lontananza, Perseo poté scorgere alcuni insiemi di alberi dai rami nudi e
secchi, forse piantati in prossimità di qualche parco giochi. Quella città era
un vero e proprio piacere per gli occhi e per la mente; solo a guardare la
simmetria e la pulizia di Nuova Roma, Perseo sentiva i nervi distendersi e un
sorriso spontaneo spuntargli sulle labbra.
Si allontanò dai suoi due compagni, che già dopo
due minuti avevano messo da parte i loro dissapori e si stavano spintonando
scherzosamente, scambiandosi esilaranti battute che Perseo tuttavia non trovava
particolarmente divertenti: quei due sapevano essere incredibilmente rumorosi,
e Perseo – così come Mark, a quanto pareva – non apprezzava particolarmente
tutta quella confusione.
Si prese qualche altro istante per osservare la
città, lo stomaco che brontolava rumorosamente. Era quasi ora di pranzo, e
Perseo non ci vedeva più dalla fame. Si guardò intorno, esaminando con cura i
cittadini; non c’erano molte persone, d’altronde era ora di pranzo. C’erano due
ragazzi che stavano animatamente gesticolando e battibeccando tra di loro,
fermi in prossimità del Mini Market alla fine della strada, poco prima della
curva in salita; una signora sulla cinquantina, che camminava passo svelto e
strofinava i palmi delle mani nude fra di loro: probabilmente aveva dimenticato
i guanti a casa. Dall’altro lato della strada, invece, un ragazzo atletico sui
venticinque anni camminava a testa bassa, gli occhi puntati sulla strada, i
lunghi capelli lisci e scuri mossi dal fastidioso vento freddo.
“Baron? Ti sei incantato?” La voce di Elizabeth
lo raggiunse e lo riscosse da quella sua specie di torpore. I due l’avevano
raggiunto, lei lo guardava con aria divertita, Avery con una punta di
preoccupazione che Perseo non riusciva a comprendere.
“No,” disse piano, “osservavo. È ben organizzata
questa città, mi piace.”
“Troppo piccola,” replicò lei, “troppo
asfissiante. Tutti conoscono tutti, è…” si mordicchiò il pollice, alla ricerca
del termine giusto.
“Snervante?” suggerì Avery di fianco a lei.
Perseo alzò un sopracciglio.
“Mmh… no, non è questo il termine. Beh, mi verrà
in mente. Comunque ho fame.”
“Anch’io,” disse Perseo stringendosi nel proprio
cappotto, “il romano ci ha mollato non appena ne ha avuta l’occasione.” Era
particolarmente indispettito.
Elizabeth annuì, continuando a mordicchiarsi il
pollice. Perseo, infastidito, di impulso le tirò via la mano dalla bocca,
sperando di non essere stato troppo brusco o invadente. Ma nessuno le aveva mai
corretto quella cattiva abitudine? Lei lo guardò con tanto d’occhi; il ragazzo
non riuscì a capire se volesse trucidarlo sul posto per essersi preso tanta
confidenza o se stesse per scusarsi. Era sempre così lunatica: un momento prima sembrava stesse per abbracciarti,
l’attimo dopo ti aveva già conficcato una matita in un occhio. Delle volte era
snervante starle vicino, ma Perseo, come d’altronde ogni mezzosangue al Campo,
riconosceva il suo valore e la rispettava per tutto ciò che aveva fatto per
loro.
Avery, percependo la tensione, si schiarì la
voce. “Perché non chiediamo in giro? Deve pur esserci un posto economico in cui
mangiare.”
“Non ho soldi con me,” fece sapere controvoglia
Elizabeth, incrociando le braccia al petto. Il suo sguardo scuro vagò per
qualche secondo, finché adocchiò i due ragazzi che stavano discutendo in
lontananza. Un sorriso furbo le illuminò il viso pallido. “Torno subito,” e,
prima che le si potesse dire qualcosa, si era già avvicinata ai due
sconosciuti, che smisero immediatamente di parlare e rivolsero la loro attenzione,
curiosi e un po’ guardinghi, verso la figlia di Ermes. Sembrava già essersi
dimenticata di lui, ma forse era meglio così.
“Che figura di merda…” borbottò Avery.
Perseo si sforzò di distogliere lo sguardo,
concentrandosi sull’amico. “Perché ci siamo cacciati in questo guaio?”
Avery puntò gli occhi scuri nei suoi, un sorriso
arrendevole e accondiscendente sul viso esteticamente impeccabile. Perseo si
ricordò di quella volta in cui l’aveva preso in giro per il suo aspetto da Ken, e Avery, tutto impettito, aveva
replicato: “Sì, uso creme per il viso, e
allora? Dovresti vedere come mi lascia liscia la pelle la Bubble Mask!”
Rimase in silenzio per un minuto buono, prima di
ghignare e guardarlo.
“Il Campo chiama, i semidei rispondono.”
Perseo lo corresse, un gusto acre in bocca. “Gli dei chiamano e i semidei
rispondono.”
Avery ridacchiò. “Gli dei chiavano e i se-”
“Ragazzi!”
Elizabeth tornò da loro, letteralmente
trotterellando. Dietro di lei, i due estranei. Il ragazzo era alto quanto
Perseo – circa un metro e ottanta –, aveva una massa di doppi e spettinati
ricci castani in testa e un’espressione infinitamente divertita in volto. La
sua biondissima compagna, invece, li guardava con diffidenza, le labbra sottili
deformate in una smorfia poco convinta. Probabilmente, il ragazzo aveva
convinto la ragazza a dare retta ad Elizabeth, divertito dalla situazione o
mosso da chissà quale strana proposta. Entrambi però avevano dei modi di fare
sicuri, dei visi fastidiosamente attraenti e una nota di curiosità, più
accentuata in lui che in lei, in quei loro occhi talmente grigi da sembrare
quasi innaturali.
“Elizabeth, cosa gli hai detto?” mormorò Perseo.
La semidea per tutta risposta lo ignorò.
“Robert, Grace, questi sono i miei compagni: Perseo ed Avery,” mise una mano
sul braccio di Robert come se lo
conoscesse da una vita, e puntò il dito spoglio su Perseo, “è lui il figlio di
Poseidone.”
Perseo si irrigidì. Ma cosa le saltava in
mente?! Sbandierare ai quattro venti la sua discendenza, esporli in quella
maniera! Quando quell’imbarazzante incontro sarebbe finito, le avrebbe fatto un
bel discorsetto. O meglio, un gran cazziatone.
Avery, da bravo gentiluomo (leggasi: deficiente) qual era, prese la mano di
Grace e le baciò delicatamente le nocche, mormorando un “incantato”
tremendamente fuori luogo. Grace aveva l’aria di una pronta a tirargli un
calcio in bocca, ma la voce pacata e allo stesso tempo divertita di Robert la
distolsero dal suo intento. Peccato.
“Elizabeth ci ha raccontato velocemente del
vostro viaggio. Per gli dei, mi vergogno per questa tremenda accoglienza, non
potendo avvisare poi, con i problemi alle varie vie di comunicazione...” si
passò una mano tra i ricci, sorridendo imbarazzato “non è stato carino da parte
di Mark lasciarvi nel bel mezzo di una città sconosciuta.”
Avery annuì ed incrociò platealmente le braccia
al petto. “No, proprio no.”
“Conosci Mark?” volle sapere Perseo.
“Certo,” gli occhi grigi di Robert
scintillarono, “eravamo nella stessa coorte. Dovete capirlo, non ha avuto un
passato semplice con quella madre che si ritrova…”
Elizabeth tossicchiò, invitandolo ad andare
avanti.
“Noi stavamo raggiungendo la nostra famiglia,
comunque. Mia madre sarà ben contenta di ospitarvi tutti a pranzo: oggi fa
l’insalata di pollo.”
Grace bofonchiò qualcosa e alzò lo sguardo al
cielo.
Perseo si mise le mani in tasca e si mise dritto
con la schiena, cercando di trasmettergli con il linguaggio del corpo il
proprio stato d’animo. “Perché questa voglia di aiutarci? Non so cosa ti abbia
detto Elizabeth,” e le scoccò uno sguardo ammonitore, a cui la ragazza rispose
con una scrollatina di spalle, “ma ce la stiamo cavando benissimo da soli.”
“Ascolta,” si intromise Grace, “non avete un
soldo e mio fratello vuole solamente aiutarvi. Sì, sarà stata un po’ diretta,”
e anche lei rivolse uno sguardo ammonitore ad Elizabeth, che stavolta inarcò
entrambe le sopracciglia, “ma ha centrato il punto, ed è così che un
mezzosangue deve fare per sopravvivere. Tu sei figlio di Poseidone, o almeno
così sembra,” fece un’espressione eloquente, “Martin ha detto che ti stanno
cercando e noi vogliamo evitare che ti venga fatto del male.”
Un numero spropositato di domande si annidò
nella mente di Perseo. Sono fratelli?
In effetti, il naso dritto, gli zigomi alti, la corporatura e i ricci, seppur
di tinte differenti, lasciavano poco spazio ai dubbi. Osservò meglio la bionda:
sul sopracciglio destro spiccava un piccolo anellino metallico, che sembrava
quasi far risaltare gli occhi argentei della giovane, le braccia erano
incrociate con aria di sfida. Era alta quasi quanto Robert, e li guardava
dall’alto in basso con aria saccente, la schiena dritta e inarcata
inconsapevolmente all’indietro, velatamente sulla difensiva. Come fanno a sapere che qualcuno mi sta
cercando? Cosa vogliono da me?
“Chi è Martin?” chiese Avery, sgusciando al suo
fianco, impaziente di avere l’attenzione della bionda.
“Il nuovo Pretore.” Risposta secca.
“Interessante,” fece ammiccante, “non è mica il tuo ragazzo,
vero?”
Prima che Grace potesse rispondere, Elizabeth
gli mollò uno schiaffo dietro la nuca. “E finiscila!”
“Okay, okay,” Robert alzò le mani con fare
conciliatore, “capisco i punti di vista di ognuno di voi, però posso
assicurarvi che i nostri genitori saranno più che contenti di incontrarvi.
Siamo gente per bene, davvero.” Perseo lo guardò, e doveva aver messo su
un’espressione particolarmente antipatica perché Robert sospirò. Con pochi e
pratici gesti, si tirò su la manica del giubbino, mostrandogli un intricato
tatuaggio nero stilizzato accompagnato da dieci linee altrettanto scure. “Vedi?
Ho servito nella seconda coorte per un decennio. Mark mi conosce, se lui fosse
qui in questo momento non ci penserebbe due volte a seguirmi.”
Prima che Perseo potesse dare un’occhiata più da
vicino, Robert rimise a posto la manica, rabbrividendo per il freddo.
“Oh, ma che cosa ci costa andare?!” fece
Elizabeth, visibilmente stizzita, “Anche se fossero ‘cattivi’, siamo tre contro due.”
Grace fece un verso di scherno, l’anello al
sopracciglio che scintillava alla fioca luce solare. “Pensi davvero che voi tre
sareste davvero capaci di battere me e Bob?”
“Ehm… sì? Non parlo a vanvera io,” la greca fece
per aggiungere altro, ma si fermò di colpo ed emise una specie di pernacchio
divertito, “aspetta, Bob? Ho
incontrato un Telchino di nome Bob,
una volta.”
Per tutta risposta, Grace la guardò con
sufficienza, spostando poi lo sguardo sul fratello. “Possiamo lasciarla sul
ciglio della strada? Ti prego.” Poi girò sui tacchi e si incamminò lungo la
strada in salita.
Elizabeth cominciò a brontolare. La raggiunse
strillando frasi di sfida e gesticolando animatamente, un imbarazzatissimo
Avery subito dietro.
La testa di Perseo aveva ricominciato a dolere.
La pace interiore che aveva provato prima era svanita, lasciando posto ad una
forte sensazione di disagio. Le voci degli altri sembravano penetrargli nella
fronte e trapanargli il cervello, innaturalmente acute e stressanti.
Uno, due,
tre, quattro, cinqueseisetteottonove…
“Andiamo?”
La voce calda e gentile di Robert lo raggiunse.
“Non ho ancora accettato,” mormorò Perseo, messo
alle strette. Stupidi! Dove state
andando?
“Fidati,” lo rassicurò il moro, “siete i
benvenuti. Vedi, i miei genitori sono più che ben disposti ad aiutare giovani
eroi come voi.”
Perseo sospirò e si incamminò al suo fianco,
Avery, Elizabeth e Grace a qualche metro di distanza. Fece schioccare la
lingua. “Eroi, dici? Ma ci hai visti bene?”
Robert ridacchiò, allungando prima le braccia al
cielo, stiracchiandosi, mettendo poi le mani dietro la nuca, i gomiti
all’infuori e il passo strascicato.
“Eroi alle prime armi, forse, ma senza ombra di
dubbio eroi.”
Non mangiarono mai l’insalata di pollo, e Avery
ci rimase particolarmente male.
Chiamatelo pure idiota o materialista, ma stava
morendo di fame.
Stavano risalendo la stradina che portava a casa
di Robert e Grace. Erano davanti alla porta e lei stava per suonare il
campanello con quelle sue belle dita affusolate, quando un ragazzo asiatico dai
capelli tagliati a spazzola corse loro incontro, fermandosi poi a pochi metri con
il fiatone.
“Fil?” Grace rimase ferma dov’era, la mano a
mezz’aria a pochi centimetri dal pulsante, “tutto bene?”
Fortunato
Fil, pensò Avery, la bella Grace ricorda il tuo nome! Fil non rispose, guardandosi
nervosamente attorno per alcuni istanti. Posò prima lo sguardo su Perseo, i
capelli scuri sciolti a sfiorargli le clavicole ossute, poi su Elizabeth, che
sembrava incuriosita dall’interruzione e aveva fatto alcuni passi incerti in
avanti, e infine su di lui, che si limitò a sorridergli e salutarlo con la
mano. L’educazione prima di tutto, no?
Robert lo imitò. “Fil. Cos’è successo? Problemi
in Senato? Grace, vuoi suonare questo benedetto campanello, sì o no?”
Grace gli lanciò un’occhiataccia ma obbedì,
mentre il nuovo arrivato continuava a squadrarli divorato dall’ansia. Alla
fine, riuscì a balbettare qualcosa e a domandare ad alta voce: “Sono loro i
Greci?”
Elizabeth incrociò le braccia sotto il seno,
poggiando la maggior parte del peso su di una gamba. “I Greci hanno bocca e orecchie.”
Fil deglutì. “Dovete venire con me,” pigolò.
Avery decise di darle manforte. Si mise al suo
fianco, eliminando accuratamente ogni traccia di sorriso dal proprio viso. “Non
è molto ospitale da parte vostra.”
In quel momento, la porta della villetta si
aprì. Un uomo sulla cinquantina, dai capelli e la barba neri striati di grigio,
il viso temprato dagli anni ma ugualmente bonario fece capolino dalla porta.
Aveva un’espressione genuinamente confusa sul volto e, per un istante, solo per
un istante, ad Avery ricordò Perseo. Un campanello d’allarme gli risuonò nel
cervello, ma al momento era troppo impegnato a guardare con serietà Fil. E, dei, se era difficile mantenere
l’espressione corrucciata! Ma come diavolo faceva Mark a rimanere imbronciato
ventiquattr’ore su ventiquattro? Era stancante.
“Uhm… qualcuno vuole spiegarmi perché siete così
in tanti e perché vi state guardando male sul vialetto di casa mia?” domandò
l’uomo, un cipiglio profondamente confuso sul viso.
“Signor Jackson, mi manda l’augure. Ha chiamato
il Campo Mezzosangue, c’è bisogno dei… uhm, Greci…” scoccò un’occhiata veloce
ad Eli, che tuttavia sembrava troppo sconvolta ed impegnata a fissare l’uomo a
bocca aperta. Anche Avery era confuso. Quello… quello era…?
Il signor Jackson posò lo sguardo su ognuno di
loro, indugiando in particolar modo su Perseo, che era fermo, immobile, con i
pugni serrati e gli occhi verdi spalancati. Tremava leggermente e stringeva
convulsivamente i pugni, e Avery temette stesse per essere colto da un infarto
o roba simile. Conosceva il suo amico, poteva immaginare cosa stesse provando…
ammesso che fosse lui. Forse si trattava di una coincidenza, chi poteva dirlo?
Jackson era un cognome così diffuso. Ma quegli occhi, quella somiglianza…
Quando l’uomo posò le iridi verdemare su di lui,
Avery si costrinse a guardare altrove, schiacciato dal peso del suo sguardo.
L’altro sembrò notarlo, perciò si affrettò a rivolgersi a Fil.
“Beh,” fece quindi il signor Jackson, “vogliamo
continuare a parlarne fuori o volete entrare? Mia moglie ha fatto l’insalata di
pollo.”
Grace emise un rumoroso e stizzito ‘ugh’ ed entrò in casa, ma gli altri,
compreso Robert, rimasero fermi dov’erano. Avery la guardò andare via per
qualche istante, poi distolse lo sguardo. Non poteva certo fissare il sedere
della figlia di Percy Jackson in sua presenza: lo avrebbe disintegrato sul
posto.
“Signore, è urgente. L’augure ha ricevuto un
messaggio da Chirone e una scadenza. E… c’è di peggio. Una tragedia, signore.”
Avery continuava a fissare Perseo, che ora aveva
gli occhi fissi nel vuoto. Starà pensando? Starà contando? Era difficile a dirsi. Avrebbe voluto mettergli una mano
sulle spalle, dirgli qualche parola di conforto, qualcosa come tranquillo, sei meglio tu. Più o meno. Ma rimase lì, fermo.
“Che genere di tragedia?” volle sapere Robert.
Fil esitò. “Due omicidi. James Wilmington,
figlio di Bellona, e Will Collins, di Nike. Collins… è stato trovato da sua
moglie meno di un’ora fa.”
Avery sentì un lieve fruscio alle sua spalle, un
rumore di passi, ma non si mosse. Teneva gli occhi puntati a terra, mentre
Robert tratteneva bruscamente il fiato. “James…?” mormorò, incredulo.
Percy Jackson non si mosse per alcuni istanti,
poi afferrò il cappotto, se lo infilò e lo abbottonò per bene e poi mise una
mano sulla spalla di Robert. “Di’ a tua madre di non aspettar-”
“No, papà,” lo interruppe Robert, allungando un
braccio e chiudendo la porta alle spalle del padre, “Conoscevo James. Non era
mio amico, ma era un buon soldato e ci rispettavamo a vicenda.”
Percy Jackson annuì risoluto, poi alzò gli
occhi. “Andiamo a-” si bloccò di colpo, si guardò intorno ed aggrottò le
sopracciglia scure. “Dov’è l’altro ragazzo?”
Avery si voltò di scatto. “Perseo?!” Non c’era.
Percy lo guardò. “Sarebbe Perseus. Meglio Percy, in realtà.”
“No, no! Il mio amico, si chiama Perseo.” Spiegò
Avery, gesticolando freneticamente. Cerco con gli occhi quelli di Elizabeth, ma
lei evitava accuratamente il suo sguardo. E sembrava tranquilla,
incredibilmente tranquilla… stranamente
tranquilla.
“Tornerà, state tranquilli,” disse semplicemente
lei.
“Come puoi dire questo quando c’è un assassino
in giro?!” sbottò Avery, preoccupato a morte.
“Stai facendo una scenata, Avery. Aveva bisogno
di starsene un po’ per conto suo, e poi è perfettamente in grado di cavarsela
da solo.”
Finalmente Avery capì. Tutto quello che Perseo
odiava, tutto quello che aveva sempre temuto… era lì, proprio davanti a loro.
Percy Jackson, suo omonimo, suo fratello,
l’eroe che lui non sarebbe mai stato. Come temeva, non aveva retto il
confronto. A nulla erano servite tutte le volte in cui lo aveva rassicurato
dicendogli che ognuno di noi è diverso e speciale a modo suo: di fronte
all’oggetto del suo odio, Perseo non aveva retto. Guardò Eli: lei c’era sempre
stata, conosceva ognuno di loro come le sue tasche. Lei c’era stata il giorno
in cui lui era arrivato al Campo e c’era stata quando Perseo era stato
riconosciuto come figlio di Poseidone. Fu quel pensiero a spingerlo a fidarsi
della sua amica.
“Hai ragione,” riconobbe infine, guardandosi
alle spalle un’ultima volta, “tornerà. Andiamo.”
Non stava pensando. Non riusciva a riflettere
lucidamente. Le lettere, i numeri, i pensieri, era tutto così maledettamente
confuso.
Lui è
Percy Jackson, mio fratello. Il mio perfetto fratello. No, no! Prince è mio
fratello.
Il numero due gli si parò davanti, scarlatto e
in rilievo, talmente luminoso e vicino da accecarlo. Due Perseo? C’erano due
Perseo?
Gli mancava il respiro. Voleva prenderlo a
pugni. Voleva… voleva correre via.
Aveva incontrato le iridi scure di Elizabeth. Lei aveva annuito in maniera
quasi impercettibile. Lui era sgusciato via.
Aria.
Aria.
Di tutte le persone, di tutti i semidei! Proprio a casa sua dovevano portarlo?
Proprio i suoi figli doveva incontrare?
E che cosa
sono Robert e Grace per me? Nipoti? Estranei?
Si ritrovò in una stradina che non aveva mai
visto, nuvoloni grigi andavano ad oscurare il cielo pomeridiano. Prese alcuni
respiri profondi e guardò l’orologio.
13:47.
Quattro numeri, uno pari e due dispari. Quella
nuova consapevolezza fece rallentare i battiti accelerati del suo cuore,
regolarizzò il respiro. Si guardò attorno, quanto aveva camminato? Perché aveva
sentito il bisogno di scappare?
Si trovava in una via totalmente diversa da
quella presa in precedenza, una stradina senza negozi ma piena di piccole
villette a più piani. Si mise a sedere sul bordo del marciapiede, la testa fra
le mani. Rimpianse la sua scelta, non avrebbe dovuto seguire Elizabeth e Mark,
non avrebbe dovuto trascinare con sé anche Avery. Ciuffi di capelli scuri gli
ricadevano davanti agli occhi, perciò decise di raccoglierseli in un codino
alto, recuperando un nuovo tassello di serenità. Essere più ordinato lo rendeva
di riflesso più tranquillo e razionale.
Guardò di nuovo l’orologio. 13:50.
Si alzò, passandosi una mano sul retro dei
jeans, pulendoli dallo sporco delle strade.
Non doveva aver corso molto, perché in
lontananza gli sembro di riconoscere un paesaggio familiare. Prese un respiro
tremante. Non poteva continuare così. Avrebbe dovuto scusarsi per la scenata?
Rimanere imbronciato? Ignorare completamente la situazione? Quell’indecisione
lo sfiniva.
Cominciò a camminare, le mani fredde nelle
morbide tasche del suo cappotto beige. Le case attorno a lui erano ordinate,
non un’anima per strada.
Le 13:55. Aveva percorso un buon tratto di
strada, il punto dove si era accasciato pochi minuti prima ben lontano alla
vista. Non era il caso di farsi prendere dal panico, quanto poteva essere
grande Nuova Roma? Seguendo un ragionamento logico, se avesse raggiunto la
piazza principale forse sarebbe riuscito a trovare qualcuno a cui chiedere
indicazioni. Ma cosa gli avrebbe chiesto?
Portami da Mark? Sì, grande idea, ma qual era il suo cognome? Elizabeth Larson, Avery Benson? No,
nessuno conosceva i loro nomi, almeno non lì. Portami da Percy Jackson… sono suo fratello. E come avrebbe potuto
dimostrarlo? Non aveva l’abilità di muovere l’acqua o intavolare una simpatica
conversazione con qualche sogliola di passaggio.
Andrò da
quella strana statua parlante, sicuramente saprà dirmi cosa fare.
Eccolo lì, Perseo Harris, disposto a chiedere aiuto ad una statua in marmo.
Come, nell’universo, la vita di un adolescente di sedici anni poteva arrivare a
quel punto?
“Ti sei perso, marmocchio?”
A due metri da terra, affacciato alla finestra
di una delle villette, il volto rugoso di un vecchio dagli occhietti acquosi e
la bocca sdentata lo guardava con aria divertita ma allo stesso tempo ostile.
Eppure, Perseo vide quel nonnetto come una manna dal cielo.
“Sì,” si limitò a dire il semidio. Doveva aver
messo su la sua miglior faccia da bimbo sperduto. E se ne vergognò.
L’anziano lo squadrò dall’alto in basso, poi
sputò per terra a pochi centimetri da Perseo, che balzò indietro, allibito.
“Melissa! Prendi la sedia! Vado a fare un giro.”
Una distante voce femminile lo raggiunse. “Ma
nonno, non hai ancora mangiato la tua vellutata di asparagi…”
“ ‘fanculo la vellutata di asparagi! Io ci
sputo, sui tuoi asparagi!” e, tanto per sottolineare il suo punto di vista,
sputò nuovamente a terra, indignato.
Perseo, indeciso sul da farsi, si mise sul
marciapiede al lato opposto.
I due battibeccarono ancora un po’, e Perseo
temette che il vecchio stesse per lanciarsi dalla finestra pur di raggiungerlo,
quando alla fine il suo volto sparì e, dalla rampa a scivolo che solo ora aveva
notato vennero giù due figure: una in sedia a rotelle, l’altra dietro che
spingeva la suddetta sedia.
Visto da vicino, il vecchio sembrava ancora più
rattrappito e macilento. Aveva pochi capelli sottili e bianchi sulla testa
chiazzata, le guance cadenti e le mani incartapecorite e sottili. Sembrava di
star guardando uno scheletro. Era ben infagottato, una coperta di lana pesante
sulle gambe magre e una in pile attorno alle spalle ricurve. A guardarlo
meglio, così infagottato, sembrava una larva. Una piccola, rugosa larva
incazzata.
La donna alle sue spalle era in carne, i ricci
biondi legati in una coda di cavallo alta. Indossava il pantalone del pigiama
sotto al lungo cappotto nero abbottonato fino al collo. Aveva l’aria di una
abituata ai capricci del nonnetto, e sembrava aver accettato il suo destino.
“Vado da solo, Melissa. Come ti chiami,
marmocchio? Sei greco?” la voce graffiante del vecchio lo raggiunse, mettendolo
momentaneamente in soggezione.
“Mi chiamo Perseo, sono figlio di Poseidone.”
Non sapeva bene perché glielo avesse detto, ma
sentiva lo strano e pressante bisogno di darsi un tono dinanzi all’uomo.
Gli occhietti acquosi di quest’ultimo
scintillarono, un’espressione disgustata gli comparve in volto. “Ugh, siamo pieni di Greci, da vent’anni
a questa parte. Tutti a chiedere il permesso per rimanere qui! Ma dico io, ce
l’avete o no un campo tutto vostro? Rimaneteci, per gli dei! Il mio nome è
Adam, comunque. Non che sia importante, dal momento che tu mi chiamerai signore.”
Perseo batté le palpebre un paio di volte. “Va
bene, signore. Può aiutarmi? Devo
trovare i miei compagni.”
Adam gorgogliò qualche insulto a mezza voce, poi
si batté una mano ossuta sul ginocchio magro. “Ma che idiota! Perché credi che
io, un povero e fragile vecchietto, sia sceso con questo tempaccio? Melissa, al
mio ritorno voglio una bistecca di cavallo.”
Perseo sentì la bile salirgli in gola, ma la
ricacciò giù. Non poteva parlare con pesci o simili, ma con i cavalli portava
avanti discorsi niente male. E la cosa continuava a disturbarlo parecchio.
Perseo raggiunse i due individui, aiutando
Melissa a spingere la carrozzina in strada. Lei lo guardò con tanto d’occhi.
“Se gli cade la coperta dalle spalle, rimboccagliela, te ne prego. E cerca di
non prendertela quando ti chiama idiota,
non lo pensa davvero,” poi aggiunse a bassa voce, “quando vorrà tornare,
affidalo a qualche ragazzo con il tatuaggio del Campo, lo conoscono tutti.”
Perseo afferrò i manici della carrozzina,
annuendo. Si chiese distrattamente se Adam fosse un veterano di guerra o cose
simili.
“So per certo di dover raggiungere un certo Mark
e i miei amici Greci e… uhm… magari Perseus Jackson.”
Adam sbuffò, stringendosi la coperta sulle
spalle. “Non so chi diamine sia questo Mark, ne conosco a decine! Ma quel che
posso fare è portarti da mia sorella.”
Perfetto, sbottò mentalmente Perseo, un’altra astiosa e rugosa anziana di cui prendersi cura.
Seguì le indicazioni di Adam, spingendo la
carrozzina lungo le strade gelate di Nuova Roma. Di tanto in tanto, l’uomo si
lamentava di qualsiasi cosa gli passasse per la testa, e ogni volta Perseo
compativa la povera Melissa.
“Non ci voglio stare, con quella mia nipote
ingrata,” stava dicendo Adam, “mi tratta come un bamboccio rimbecillito, e io
non lo sopporto! Ho superato da un pezzo i settanta e presto sarò uno dei
veterani più anziani della città, e lei che fa? Mi tratta come un poppante!
‘sta stronza. Mille volte meglio quella carogna di mia sorella.”
14:27, si stavano avvicinando ad un edificio
ampio, dall’aria antica, ma Perseo non osava osservarlo con maggior attenzione,
troppo concentrato sulla strada e la traiettoria della sedia a rotella.
L’ultima cosa di cui aveva bisogno era far spaccare la faccia ad un ottantenne.
“Vedi, ragazzo, mia sorella è con i Pretori e i
Centurioni. Si è tenuto un incontro urgente, non ho ben capito per quale
motivo. Una delle solite stronzate, te lo dico io.”
Perseo ci riflette su per qualche istante.
Possibile che Adam non sapesse degli omicidi? Doveva forse dirglielo? Lo conoscono tutti, aveva detto Melissa.
Forse era in buoni rapporti con le vittime e non poteva rischiare di
sconvolgerlo, si trattava pur sempre di un fragile anziano.
Stettero per un paio di minuti sul ciglio della
strada, ad osservare in silenzio quello che doveva essere il Senato, quando da
dietro l’angolo venne fuori una giovane ragazza dai capelli biondissimi,
seguita a ruota da Mark, Elizabeth, Avery, Robert, e, suo malgrado, Perseus
Jackson e un’altra ragazza dai capelli scuri e un’aura molto particolare; non
capiva bene perché, ma sentiva il bisogno impellente di allontanarsi da lei.
Non le aveva ancora parlato, ma in qualche modo sapeva che non sarebbero andati
d’accordo.
Quando li vide, la ragazza bionda ghignò e si
avvicinò a grandi falcate nella loro direzione. “Adam,” cominciò, “vecchiaccio
che non sei altro, fa un freddo cane qua fuori.”
Adam la guardò male. “Melissa ha fatto gli
asparagi. Mi fanno schifo gli asparagi.”
“Sì,” fece la ragazza, “lo so. Ma ti fanno bene
e grazie a loro puoi sperare di non tirare le cuoia entro la fine del mese,
vecchio rottame.”
“Perseo!” Avery lo raggiunse in pochi istanti, l’aria
sollevata, “ma dove sei stato? Ti sei perso la visita in Senato. Ti sarebbe
piaciuta, sai? Con tutte quelle robe architettoniche che ti piacciono tanto…”
Perseo scosse la testa. “Meglio così,
tranquillo.” Scoccò una veloce occhiata in direzione di Percy Jackson, che
stava parlando assorto con una ragazza dai capelli scuri rasati da un lato e
con Mark.
Anche Elizabeth lo raggiunse, affiancata da
Robert Jackson. “Chi è il nonnino?” volle sapere lei.
Robert lo fissò mentre scrollava le spalle. “Mi
ha aiutato a raggiungervi, mi ero perso.”
“Perché sei scappato?” domandò quindi Robert.
Prima che potesse rispondere, Elizabeth lo
precedette, sulla difensiva. “Beh, vorrei tanto vedere! Anch’io avrei bisogno
di aria sapendo che dei cattivi mi stanno dando la caccia. E, Baron, facciamo
parte di una profezia, a quanto pare.”
Questo non se lo aspettava.
Adam attirò la loro attenzione con un rumoroso
colpo di tosse grassa.
Perseo si riscosse. “Oh, è vero. Non c’è più
bisogno di sua sorella, signore, sono loro i miei compagni.”
“Questo l’avevo capito,” replicò il vecchio
acidamente, “ma, come promesso, ti ci ho portato lo stesso da mia sorella,” e
posò lo sguardo sulla bionda.
Questo
proprio non se lo aspettava.
La romana rise, divertita dalla reazione
generale. Come lui, anche Avery ed Elizabeth erano rimasti completamente sotto
shock, Robert, Mark e la ragazza mora impassibili. Non si curò di rivolgere la
propria attenzione a Jackson.
“Perché mi stavate cercando?” domandò, legandosi
la chioma bionda in una coda bassa, ma non aspettò risposta, “comunque sia,” e
si rivolse a Perseo, “il mio nome è Eva Hooke, e faccio parte della Profezia di
Moros,” mise una mano sulla spalla di Adam, che se la scrollò di dosso,
infastidito, “lui è il mio fratellone, figlio di Vittoria come me.”
Eva aveva dei bei occhi verde foglia grandi e
leggermente sporgenti, ciglia, sopracciglia e capelli biondissimi e viso ovale,
pallido e privo di imperfezioni. Una
bambolina di porcellana, l’avrebbe definita sua madre. Ma l’espressione
maliziosa nei suoi occhi e il ghigno stampato sulle sue labbra piene poco si
addicevano alla sua figura quasi eterea. Era poco più alta di Elizabeth, quindi
sfiorava probabilmente il metro e 67. Non somigliava quasi per nulla al suo presunto
fratellastro, ma per quanto ne sapevano loro sotto tutte quelle rughe avrebbe
potuto celarsi l’identico gemello di lei.
Mark continuava a discutere animatamente con
Percy Jackson e la ragazza mora. Elizabeth, invece, lo guardò con
un’espressione che diceva palesemente ‘stai
bene?’. Perseo la ignorò.
“La Profezia di Moros?”
“Se tu non fossi… se tu non ti fossi
allontanato,” si corresse Robert, “sapresti che al Campo una figlia di Moros ha
enunciato una specie di Profezia sotto possessione. Riguarda principalmente i
Greci, ma i nomi di Mark Crassus ed Eva Hooke figurano tra i vostri.”
Mark li raggiunse, seguito a ruota dalla ragazza
e Percy Jackson, quest’ultimo sembrava avere un’aria affranta sul volto. Perseo
distolse lo sguardo e si concentrò sulla ragazza – che scoprì in seguito essere
Crystal Wolff, figlia di Giove e Pretore del Campo Giove – che li guardava con
i suoi magnetici occhi elettrici.
“Dovrete partire subito per raggiungere il
vostro gruppo. Il nostro nemico si chiama Anìa,” a Perseo non sfuggì lo scambio
di sguardi tra Mark ed Elizabeth, “la quarta Ora. E sì, so che può sembrare un
nemico da niente, ma una volta che si sarà impossessata della Spada di Attila e
avrà corrotto i Mali,” fece una pausa, ponderando l’evolversi della situazione,
“sarà una catastrofe. Chirone crede che una volta raggiunto il suo pieno
potenziale, Anìa raderà al suolo sia il mondo mortale che quello divino.
Suppongo che il vostro compito sia recuperare la Spada prima di lei, mettere al
sicuro i Mali, e recuperare sia il Vaso di Pandora che i semidei scomparsi. Ho
già detto a Mark tutto quello che so, vi parlerà lui della scadenza e del modus operandi.”
“Perché noi?” domandò Perseo, una domanda ancora
più macabra che gli premeva sulla punta della lingua, “c’entra lei con gli omicidi?
È riuscita ad infiltrarsi al Campo?”
Crystal gli puntò lo sguardo addosso, e Perseo
sentì di star soffocando. Perché gli dei
non hanno scelto lei? è così potente.
“Non lei,” rispose, “ma i suoi seguaci. Non
siamo riusciti a prendere l’assassino, ma è solo questione di tempo.”
Adam tossì di nuovo, questa volta con più
insistenza. Tutti si voltarono verso di lui. Tutti tranne Mark, che fissava
attentamente Crystal, concentrato e pronto a carpire ogni suo comando.
“Ho fatto preparare degli zaini per voi, potrete
ritirarle da Terminus insieme alle vostre armi” tagliò corto il Pretore, “date
ascolto a Mark durante il viaggio, lui sa cosa fare.”
Mark annuì. Senza aggiungere altro, Crystal
prese il posto di Perseo dietro la carrozzina di Adam. “Oh, Adam, perché devi
sempre fare l’eroe? Uscire con questo tempo solo per scortare un giovane
mezzosangue…”
A quelle parole, Perseo trasalì, sentendosi in
colpa. Davvero Adam l’aveva fatto solo e unicamente per lui? Per aiutarlo? Lo stesso Adam che si era
lamentato per tutto il tragitto?
Il vecchio aveva il viso pallido e le palpebre
pesanti. Ignorò la ragazza, gli occhi fissi in quelli di Eva. Le afferrò la
mano, la presa salda nonostante i tremori. “Vinci per me, stronzetta. E ‘sta
attenta. Se tu muori, con chi giocherò e scommetterò a carte?”
Eva gli diede un bacio sulla fronte rugosa, poi
sghignazzò. “Hai tempo per mettere da parte qualche risparmio, fratello. Quando
sarò di ritorno, perderai anche le mutande.”
“Che brutta scena,” mormorò sorridendo appena
Adam, poi Crystal voltò la sedia a rotelle e iniziò a spingere l’anziano verso
casa.
Eva li guardò andare via, un’espressione cupa in
viso. Percy Jackson li guardava con un’espressione altrettanto tetra. Perseo a
stento trattenne un brivido di fastidio quando prese la parola.
“Sappiate che potete sempre contare su di noi.
Me, mia moglie, i miei amici e sì, anche i miei figli,” puntò poi lo sguardo su
Perseo, che lo guardò con astio “possiamo scambiare due parole, lungo il
tragitto? Io e Robert vi accompagneremo da Terminus.”
Perseo congelò sul posto, ma si costrinse ad
annuire, denti e pugni stretti.
Il gruppo si avviò, e lui rimase indietro con il
suo odiato perfetto fratellastro. Il Perseus a cui era sempre, sempre stato
comparato. “È solo la sua brutta copia,”
dicevano al Campo, “è così strambo. Non
combinerà mai niente e, se lo farà, non sarà mai alla sua altezza.”
Procedettero in silenzio, contando i secondi che
separavano la tanto agognata separazione. Il suo stomaco brontolò, ma cercò di
non farci troppo caso. Era stanco, e
a giudicare dalla camminata strascicata dei suoi compagni di viaggio, dovevano
esserlo anche loro. Era stanco, sì, ma soprattutto affranto. La sua non era una vita perfetta, era vero, ma lasciarla
andare per una missione potenzialmente suicida… stanco, affranto e… amareggiato.
Jackson rimase in silenzio per qualche istante,
poi esordì con un imbarazzato: “Quindi… figlio di Poseidone, eh? È strano
sapere di avere… ecco, sì… un fratello. Insomma, ho Tyson ed Estelle ma…
capirai che questo è diverso.”
“C’è anche Cecily, da qualche parte,” ribatté
secco Perseo. Cercò di rilassarsi. Cercò di essere cortese e bonario. Ma non ci
riusciva, proprio non ci riusciva. Una piccola parte di lui si sentiva in
colpa. Jackson non gli aveva fatto un torto, non direttamente, ma ogni volta
che si soffermava su quel viso così familiare aveva voglia di afferrare la sua
Clymore e tagliarlo a fettine.
“Sì, beh… lei è particolare.” L’uomo si passò una mano sulla mascella, l’aria
assorta. Stava per aggiungere altro, ma Perseo sbuffò.
“Chi non lo è?”
Ci furono attimi di imbarazzante silenzio.
Jackson si passava una mano sulla barba scura, lo sguardo che vagava. “So che
non deve essere facile per te. Vorrei tanto averti conosciuto prima e averti
tenuto vicino come… beh, sì, un fratello. Sento questo legame-”
“Non c’è nessun legame fra di noi,” lo
interruppe Perseo, poi mise le mani in tasca, cercando di calmarsi, ma non ci
riusciva. Non stava urlando. La propria voce gli giunse alle orecchie calma ma
tagliente come la lama di un rasoio. “Per tutta la mia vita sono stato
comparato a te. Anche prima di venir riconosciuto, per via del mio stupido
nome. Mi è sempre stato ripetuto quanto io fossi diverso da te, quanto nostro
padre preferisse te. Potevo accettarlo, si, potevo farlo. Ma poi sono iniziate
le aspettative, le pressione… e io non ho mai voluto niente di tutto questo.”
Il gruppo era a pochi metri più avanti. Robert
parlottava con Elizabeth, mentre Avery si avvicinava pericolosamente ad Eva,
che sembrava non aver alcuna voglia di essere scocciata da quel biondino
insolente.
Percy Jackson tornò all’attacco. “Pensi che sia
stato facile per me? Che nessuno avesse aspettative?” lo disse in tono
incalzante ma ugualmente maturo e gentile. Perseo lo odiò ancora di più.
“Beh, le cose raddoppiano per me. Vivere nella tua ombra non è facile,” sentì un peso
abbandonargli lentamente il petto. Quelle cose… se le teneva dentro da così
tanto tempo da essere diventate ormai insostenibili. “posso accettare di essere
l’eterno secondo, e perché no? Anche terzo, se si conta Cecily. Ma la vuoi
sapere una cosa? Prima io sono scappato da
te. Non sopportavo la tua vista, e francamente nemmeno adesso riesco a
guardarti in faccia, sapendo che probabilmente anche tu mi stai giudicando. Non
sono quelli che ti aspettavi? Non sono il grande eroe che la stirpe di nostro
padre merita? Lo so benissimo.”
L’altro aprì la bocca, poi la richiuse. Il suo
sguardo si indurì. “Non ti conosco nemmeno. Se tu me ne dessi l’opportunità-”
Perseo alzò una mano per fermarlo. Si sentiva
stranamente coraggioso, in quel momento, il peso nel suo petto sempre più
leggere. “Non ha importanza,” disse in maniera pratica, “non c’è niente che tu
possa dire o fare che mi farà mai cambiare idea. So che deve essere difficile
per te – il grande eroe, amato da tutti!
– sopportare questo mio odio viscerale, ma dovresti farlo. Almeno provaci.
Fingi che io non esista, se proprio può farti star meglio. Io con te,
purtroppo, non ho potuto farlo.”
Perseus lo guardò in totale silenzio, la linea
della mascella dura, come se stesse stringendo i denti.
Si sentiva svuotato, leggero… ma non era una
bella sensazione. Non bella quanto si sarebbe immaginato. Quell’uomo che ora lo
guardava confuso era un eroe. Sembrava davvero dispiaciuto, o meglio, colpito dalle sue parole. Doveva essere
strano scoprire di essere profondamente odiato da una persona che nemmeno
conosceva.
Arrivarono alla statua di Terminus in completo
silenzio. Dei grandi zaini da campeggio in tela viola erano stati poggiati ai
piedi del dio statua, che li guardava con un cipiglio torvo. Una volta raccolte
le armi e sistemati gli zaini in spalla, fu il momento dei saluti.
Mark, Elizabeth, Avery ed Eva strinsero la mano
sia a Robert che a Jackson, Perseo afferrò solo quella di Robert, che mormorò
ad ognuno di loro parole di incoraggiamento. Quando fu il turno di Elizabeth,
Perseo vide chiaramente il ragazzo far scivolare un piccolo foglietto nella
mano di lei, che sembrava più divertita che sorpresa.
“Buona fortuna, eroi,” disse Percy Jackson,
guardandoli uno ad uno, “abbiate fede nelle vostre abilità, restate unite e
diffidate dagli dei.”
Elizabeth annuì, mentre Avery strabuzzò gli
occhi. “Ma, signor Jackson…”
“Percy” lo corresse quello, ma non aggiunse
altro.
Terminus, che in quel momento era rimasto chiuso
in un ostile silenzio, sbuffò. “Allora? Non ho tutto il giorno! Piantatela con
queste moine e sbrigatevi a varcare i confini!”
Daphne Nabizaba aveva avuto una settimana
particolarmente strana: tra i vari allenamenti, il suo nome citato in una
profezia formulata dal dio del destino avverso e la caotica riunione
d’emergenza presenziata da un centauro con in mano un cuscino imbrattato di
inchiostro, credeva di averle passate tutte per quella settimana.
Ma come si fosse trovata abbracciata alla
solitamente burbera e scostante Jackie Harmon, ora in lacrime, era ancora un
mistero.
La stessa Jackie che, quando le veniva chiesto
il suo vero nome, rispondeva con un’occhiata di sufficienza e una smorfia, ora
stringeva con dita tremanti la giacca di Daphne che, in un primo momento, era
rimasta paralizzata dalla sorpresa.
Stava andando in armeria per delle frecce
speciali, la testa dolente per lo stress e l’ansia. Girando l’angolo, aveva
notato una figura accucciata vicino a delle asce da guerra, le spalle scosse da
potenti singhiozzi e il viso fra le mani. Daphne non aveva esitato un solo
secondo prima di inginocchiarsi al suo fianco e, gentilmente, scostarle le mani
dal volto arrossato e deformato dalla disperazione.
“Jackie…?” aveva sussurrato.
La ragazza, gli occhi verdemare arrossati a causa
del pianto, ciglia e guance bagnate di lacrime, aveva serrato le labbra e
smesso di singhiozzare per qualche istante. “Che vuoi?” aveva sbuffato
acidamente, la voce roca, “stavo solo cercando un’arma.”
Daphne sbatté le palpebre, mordendosi le labbra.
Aveva ancora le mani pallide dell’altra ragazza fra le sue, decisamente più
scure. “E… uhm… l’hai trovata?”
Gli occhi di Jackie si riempirono nuovamente di
lacrime.
“No.”
E le si gettò tra le braccia, soffocando un urlo
sul giubbotto di Daphne, che la strinse forte a sé. Sentiva le lacrime e il
muco bagnarle i vestiti, ma cercò di non farci molto caso distogliendo lo
sguardo.
Jackie Harmon non era esattamente la persona più
gentile della Terra. Daphne ricordava ancora il giorno in cui venne al Campo:
era estate, aveva varcato la soglia del Campo Mezzosangue con i capelli neri
lunghi fino alla vita sporchi e sudati, febbricitante, il ventre gonfio e le
ginocchia sbucciate. Daphne stava insegando ad un paio di figlie di Apollo a
difendersi da una strangolamento frontale quando l’aveva vista barcollare oltre
i confini del campo. Come avesse fatto a superare il drago Peleo rimaneva un
mistero. Ricordò di averla aiutata a reggersi in piedi, le due figlie di Apollo
– Patricia e Katie – pronte a darle sostegno. “Da dove vieni?” le aveva chiesto Katie. “Mio figlio,” aveva sussurrato Jackie, gli occhi verdi accessi dalla
febbre, “pensate a mio figlio.” Avuta
quella notizia, Daphne non ci aveva pensato due volte a mandare a chiamare
Chloe, la figlia di Ilizia, dea dei parti.
Dopo quel momento, Jackie aveva passato la
maggior parte del suo tempo nella cabina di Imeneo, isolata dalla maggior parte
dei mezzosangue. In pochi conoscevano il suo nome: per tutti era sempre stata la ragazza incinta, finché alla
fine del mese di gennaio non divenne la
ragazza con la bambina.
Anne Rose, si chiamava la neonata, che oramai avrà avuto circa
un anno.
Per quanto Jackie passasse tutto l’anno al
Campo, erano poche le volte in cui la si vedeva in giro, troppo presa a
prendersi cura di sua figlia. E, quelle poche volte in cui qualcuno che non
fosse Chloe aveva la sfortuna di rivolgerle la parola, lei rispondeva con
insulti velati o con stizza. Era una ragazza fatta di ghiaccio, di quello che
cristallizza il pelo dell’acqua nei laghi, troppo sottile e fragile per
sopportare la minima pressione.
Daphne prese ad accarezzarle lentamente la
chioma scura, sorprendentemente morbida. Ormai i suoi capelli non erano più
lunghi come un anno prima: ora le arrivavano poco sotto le scapole.
Dopo alcuni minuti che sembrarono durare secoli,
Jackie tirò su con il naso e mormorò contro la clavicola di Daphne: “A volte
vorrei tanto tornare ad essere una bambina.”
Colpita, Daphne le prese il viso fra le mani.
Jackie la guardò con tanto d’occhi, il viso arrossato, umido ma pulito. “Non
serve piangersi addosso. Ti ho sempre considerata una donna forte, cosa è
successo?”
Riconosceva quella disperazione, ci era già
passata in prima persona. Se non fosse stato per suo padre Zefiro, che l’aveva
confortata e le aveva dato un posto in cui stare, Daphne non sarebbe stata lì.
Se chiudeva gli occhi, poteva ancora vedere gli occhi chiari e i capelli scuri
del suo adorato padre, il dio Zefiro, tanto in contrasto con quello della
madre, Latifa, tutto occhi scuri e veli.
Jackie non era la persona più buona e gentile
del mondo, ma meritava di essere consolata a sua volta.
Tutti
meritiamo qualcuno che ci dica che va tutto bene, anche le ragazze di ghiaccio.
Jackie si staccò bruscamente e si mise in ginocchio, asciugandosi la faccia con
il dorso della mano, l’altra piantata a terra come per sorreggersi.
“Non avresti dovuto vedermi così,” la sua
espressione sembrò indurirsi, ma la ragazza continuava a piangere, forse per la
rabbia e l’umiliazione. Ma quale
umiliazione?, pensò Daphne, tutti
piangiamo, chi più di altri. E io non ho mai visto questa ragazza piangere.
“Forse,” disse piano Daphne, mettendosi a
sedere. Avrebbe voluto alzarsi, ma aveva paura che il gesto avrebbe
indispettito la semidea, “però è successo. È per l’impresa, non è così? Per tua
figlia?”
Jackie si alzò velocemente in piedi, guardandola
con rabbia, le guance ancora umide. “Non so nemmeno il tuo nome, non sono
affari che ti riguardano.”
Pur non vedendone il motivo, Daphne ci rimase
male. Non conosceva il suo nome? Dopo tutto quel tempo?
Probabilmente Jackie vide qualcosa nella sua
espressione cambiare, perché addolcì il tono di voce e si mise in piedi. “Non
dirlo a nessuno…” e sembrò attendere qualcosa.
“Daphne” disse piano, “mi chiamo Daphne
Nabizaba.”
Le labbra di Jackie si assottigliarono. “Ti
chiami come mia nonna,” sbottò, per poi girare sui tacchi e allontanarsi a
passo veloce.
Daphne la guardò allontanarsi, frastornata. Cosa
cavolo era appena successo? Prima le era caduta tra le braccia, singhiozzante e
agonizzante, poi si era arrabbiata con lei per averla consolate e ora la
insultava! Si mise in piedi lentamente. Cosa ci era venuta a fare in armeria?
“Le frecce…” mormorò dopo un breve attimo di
riflessione, guardandosi attorno. Il cuore le martellava forte nel petto,
sentiva il viso ed il collo accaldati, le mancava il respiro.
Prese ciò di cui aveva bisogno: le frecce
speciale che Katie, la figlia di Apollo, aveva fatto confezionare apposta per
lei. Forse, si disse, le sarebbero tornate utili. Forse suo padre avrebbe
guidato le sue frecce verso il bersaglio giusto, dandole la forza di
sopravvivere.
Dandole la forza di vivere, come aveva già fatto
prima.
Axel stava iniziando a ricordare.
Nel momento stesso in cui aveva udito le parole
di Moros, il viso placido e sorridente del vecchio Morfeo gli aveva fatto
capolino nella mente. Non ricordava ancora bene cosa gli avesse detto, ma
ricordava bene il particolare degli occhi cuciti di Anìa, ma non ne aveva
ancora fatto parola con nessuno, non sapeva ancora bene perché. Probabilmente
una piccola – ma nemmeno troppo – parte di sé riteneva fosse un’informazione
troppo personale.
Era ormai pomeriggio inoltrato. Quel giovedì era
stato piuttosto movimentato, tra riunioni varie e preparativi. Si sentiva
agitato, temeva che qualcosa sarebbe andato terribilmente storto. Si trovava
nella sua Cabina, intento a fissare pensieroso il suo zaino. Decine di libri e
quaderni erano sparsi sul suo letto. Qualcosa gli diceva che aveva bisogno di
tutta la sua conoscenza per tornare vivo da quell’impresa suicida.
Chirone aveva detto che come prima cosa si
sarebbero recati in Georgia, per via di una strana fonte magica. Bisognava
capire come fare per rintracciare Anìa, la Quarta Ora… assurdo, no? E per di
più, bisognava trovare un punto di incontro con altri semidei provenienti da
San Francisco. Elizabeth, la sua amica, era tra loro.
Il pensiero di rivederla lo metteva di buon
umore. Elizabeth era una garanzia, su questo tutti i semidei erano d’accordo.
Non risultava difficile l’idea che, presto o tardi, la figlia di Ermes avrebbe
fatto parte di un’importante profezia. Ma lui… cosa c’entrava lui?
Michael entrò nella stanza, l’aria corrucciata.
“Ned,” disse, “a quanto pare Barty Crouch ha messo il tuo nome nel Calice di
Fuoco.”
Axel sbatté le palpebre, confuso. “Eh?”
Michael sbuffò “non hai niente a che vedere con
tutto questo; sei una pippa” e gli tirò qualcosa, che Axel afferrò al volo. Si
trattava di una semplice matita perfettamente temperata. “Ehi!” protestò.
“Portala con te,” biascicò Michael, come se gli
costasse molta fatica pronunciare quelle parole. Rimase lì fermo dov’era,
fissandolo intensamente con i suoi occhi chiari.
Axel corrugò la fronte. “Ma ce l’ho già una
matita. Ne ho cinque, per l’esattezza.” Si rigirò la matita tra le mani. C’era
qualcosa di strano in quell’oggetto. La punta sembrava brillare sommessamente
di luce purpurea, ma era impossibile. No?
“Ho chiesto a Morgana di fare un incantesimuccio
da nulla,” spiegò Michael, “la grafite è intrisa da incantesimi di memoria.
Qualsiasi cosa scriverai con questa matita, rimarrà impresso nella tua mente
finché non verrà cancellato.”
Axel era senza parole. “Io… Michael, grazie.”
“Non ringraziarmi, dovrò partecipare a tutte le ore del tè di Morgana per questo”
rispose il ragazzino con un brivido, avvicinandosi e prendendo la matita fra le
mani. Prese a scribacchiare qualcosa su uno dei quaderni sparsi sul letto di
Axel. Le parole si fissarono immediatamente nella sua mente.
Sono un
idiota.
“Michael!”
Con sua grande sorpresa, il fratellastro si mise
a ridere, poi però tornò serio in un lampo. “Ricordatelo sempre. Quando
crederai che la dea ti stia guardando le spalle, che ti voglia bene...” lo disse quasi come se sputasse veleno,
“ricordatelo. E’ importante.” Gli restituì la matita, guardandolo con quei suoi
occhi azzurrissimi.
“Nostra
madre mi salvò la vita, una volta” puntualizzò Axel, “l’avrebbe fatto anche con
te. Siamo figli suoi.”
Michael scosse la testa e si avviò verso la
porta. Quando si girò a guardarlo, i riccioli biondi ricaddero sul suo volto da
ragazzino. “Lei sapeva che sarebbe giunto questo momento, per questo ti ha
salvato. Le porterai onore e gloria, qualunque sia il tuo destino.” Fece per
uscire dalla porta, ma nuovamente si fermò, questa volta senza girarsi. “Domani
mattina non verrò a salutarti, fratello. Non mi piacciono questo genere di
cose.”
Questa volta uscì, lasciando Axel da solo a
rigirarsi la matita tra le dita.
Ciao a tutti! Sarò molto breve J
Ho deciso di dividere il capitolo in due, in
modo da poter rendere la narrazione più fluida. Pubblicherò a breve la seconda
parte. Per farmi perdonare, ecco alcuni dei personaggi che appariranno nella
parte II: Edward, Jaime, Mal, Henry, Tessa Wells (ancora da presentare), Cat,
Jack e Blanca Delgado (ancora da presentare). E poi, beh, si parlerà di
Partenze e… ne vedremo delle belle!
Detto ciò, sono molto dispiaciuta che questo
sito stia “cadendo in rovina”. Ci sono davvero poche persone attive, ma spero
che comunque i pochi rimasti possano leggere e gradire la mia storiella.
Ci sentiremo presto (non credo abbandonerò mai
questa storia, ma mai dire mai eheh)
-sun